La maggior parte degli studi provengono da popolazioni occidentali, industrializzate, ricche, scolarizzate e democratiche. Che non sono affatto rappresentative del comportamento umano. Perché la cultura conta, e plasma la nostra mente, influenzando perfino le nostre percezioni visive

Cosa conosciamo davvero del comportamento umano? Quanto riusciamo a capire di come siamo fatti e perché agiamo come agiamo? Le domande sono quelle da un milione di dollari, e senza pretendere di rispondere in maniera esaustiva a nessuna, qualche indizio, verrebbe da credere, potrebbe venire dalla psicologia. D’altronde, per definizione (la prima che si ottiene per la lingua inglese dall’Oxford Dictionary), la psicologia è lo “studio della mente umana e delle sue funzioni, specialmente quelle relative al comportamento in un dato contesto”. Appunto in un dato contesto, e quando il contesto – leggi cultura – cambia non è detto che le osservazioni fatte in passato continuino a valere. Ma la psicologia stessa sembra come aver ignorato o non pesato a sufficienza il problema, ricordano oggi una serie di paper che chiedono che il tema venga finalmente affrontato, per rendere questa disciplina una scienza più rappresentativa e attenta al contesto. Meno universale, almeno nelle pretese. Perché quello che sappiamo dalla psicologia ha conseguenze non solo nel modo in cui guardiamo alla mente, nel campo della scienza e della salute, ma influenza anche teorie e decisioni economiche, per esempio.
Questa strana psicologia
Il problema di cui stiamo parlando, e che non riguarda sotto certi aspetti solo la psicologia, ha un nome preciso (Weird, ora ci arriviamo) e ha a che fare con il fatto che in molti casi il contesto in cui sono state condotte le ricerche è lo stesso e poco rappresentativo della condizione umana. Così che, se si tendesse, più o meno implicitamente, a generalizzare i risultati – ancorché replicati, sebbene anche qui la psicologia abbia i suoi problemi – potremmo correre il rischio di ottenere una visione distorta della realtà. Nel migliore dei casi potremmo aver alzato il velo solo su una determinata e ristretta popolazione, quella più frequentemente inclusa negli studi di psicologia. Una popolazione Weird, dove l’acronimo strano sta a identificare la tipologia di partecipanti tradizionalmente inclusi nelle ricerche: Western, Educated, Industrialized, Rich e Democratic (occidentali, scolarizzate, industrializzate, ricche e democratiche). Perché è su questa popolazione (e in modo ancora più preoccupante su popolazioni di studenti, magari più motivati a rispondere) che sono condotte gran parte delle ricerche presenti in letteratura, anche se di per sé rappresenta è una strana eccezione su scala mondiale, per dirla con le parole di Henri Keller della Osnabrück University (Germania), ricordando a sua volta un famoso articolo in materia di Joseph Henrik e colleghi.
Siamo diversi, ma da chi, in che cosa?
In quel paper, pubblicato su Behavioural and Brain Science, gli scienziati ammettevano come i membri della popolazione Weird, bimbi inclusi, fossero tra i meno rappresentativi del comportamento umano. Praticamente costituivano al tempo stesso la stragrande maggioranza dei campioni degli studi e una minoranza come tipologia di popolazione su scala mondiale. E invece siamo (tutti) diversi, sotto più aspetti: dalla percezione visiva, alla cooperazione, al ragionamento analitico, alla memoria, all’ereditabilità del Qi.
Per esempio, ricordavano gli autori, americani, canadesi ed europei tendono a utilizzare il ragionamento analitico più delle popolazioni non occidentali, con gli asiatici più portati per un ragionamento di tipo olistico. Ma le differenze esistono anche all’interno dello stesse popolazioni Weird: gli americani tendono a ragionare così più degli europei. È curioso, e forse più immediato, osservare come possano cambiare anche le percezioni visive da cultura a cultura. Prendiamo il caso dell’illusione di Müller-Lyer, mostrata nell’immagine a seguire, in cui la lunghezza delle linea sembra variare a seconda di come sono orientate le sue estremità. Un vecchio esperimento condotto su diverse culture mostrò che l’illusione aveva probabilità di funzionare a seconda delle popolazioni cui veniva mostrata l’immagine: quelle occidentali erano generalmente più propense a farsi ingannare, giudicando più lunga quella in alto. Al contrario per popolazioni non occidentali, in particolare comunità di cacciatori e raccoglitori, era più probabile che identificassero le due come identiche. Perché? I motivi hanno forse a che fare con l’ambiente e le diverse costruzioni cui le società occidentali sono abituate a vivere (piene di linee per esempio), rispetto a quelli in cui si muovono le comunità di cacciatori e raccoglitori, meno abituati a visioni del genere, riassume Scientific American.


L’antropologo Michael Gurven ricorda invece come nelle popolazioni indigene dell’Amazzonica, gli Tsimane, non si osservano per esempio i classici Big Five (i cinque tratti della personalità), ma solo due (prosocialità e laboriosità) o tendono a non avere crisi psicologiche di mezz’età. E ancora: anche la supposta gerarchia universale dei sensi, per cui alcuni (come la vista e l’udito) sarebbero più oggettivi e più facili da comunicare di altri, viene messa in discussione, con l’osservazione secondo cui persone di linguaggi diversi codificano (linguisticamente) gli aspetti relativi ai sensi in modo differente. “Il modo stesso in cui pensiamo è influenzato dal linguaggio”, ammette a Wired Anna Borghi, dipartimento di Psicologia dinamica e clinica della Sapienza e dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr di Roma: “Anche la formazione di concetti più astratti, come libertà piuttosto che un oggetto come una bottiglia, è plasmata dalla cultura e dalla lingua di appartenenza, e questo vale anche per lingue molto vicine tra loro”.
L’esistenza di queste differenze più che invalidare qualsiasi conclusione dovrebbe portare a rivedere l’assunto per cui alcuni comportamenti identificati in alcune sottopopolazioni possano avere valenza universale. Siamo diversi e diverse sono le nostre reazioni, in funzione della cultura.“Una delle ragioni per cui la psicologia sta sperimentando una ‘crisi di replicabilità’ ora è perché il contesto, la cultura e l’ambiente e altri esposizioni plasmano come le persone pensano, si sentono e agiscono – aggiunge Gurven – e alcuni dei fallimenti nel replicare gli studi potrebbero essere dovuti all’aspettativa di osservare la stessa reazioni ovunque in un esperimento”.
Questione di confini, più o meno stretti
Se in alcuni casi la natura del campione rischia di condizionare in maniera decisa quello che si intende studiare (“Se vuoi capire che tipo di elettori sostengono Trump non puoi fare affidamento a un campione di soli liberali”riassume Amber Dance in uno degli articoli dello speciale su Pnas) per altri sarebbe lecito supporre che esistano basi più ampie del comportamento, come l’attenzione. Eppure anche qui cedere al tentativo di generalizzare è pericoloso: “Ci sono stati casi in cui processi cognitivi di base come l’attenzione appaiono modulati dal credo religioso di una persona”, riprende Borghi: “Questo lascia supporre che anche processi creduti automatici, come l’attenzione e la percezione possano essere influenzati dalla cultura di appartenenza”. Ciò non esclude che possano esistere processi più universali di altri ma per trovare i candidati più promettenti sarà certamente utile ampliare i confini in cui vengono condotte le ricerche, con studi cross-culturali e collaborazioni internazionali, certamente più impegnative e meno pratiche, ammette Borghi: “Ampliando lo sguardo su quello che stiamo indagando potremmo sperare di individuare quelli che appaiono gli aspetti più universali e quelli che non lo sono”. Un processo in cui, sebbene implicitamente, anche i ricercatori hanno la loro responsabilità: “Spesso non viene stressato a sufficienza che quanto osservato in uno studio è relativo a quel contesto e a quella cultura: dovremmo essere i primi a identificare più chiaramente i limiti delle nostre ricerche”.
Ricette per una psicologia meno strana
Cosa fare allora per rendere meno strana, e viziata, la ricerca in ambito psicologico? Può bastare affidarsi a campioni cross-culturali e sottolineare i limiti e i campi di validità dei propri studi? Difficilmente questo da sé permetterà di affrontare il problema della psicologia Weird. Anche perché soluzioni come gli studi online rischiano di portarsi dietro altri bias o di estremizzare quelli esistenti (chi può permettersi di rispondere a questionari online, che età ha?).
Di utilità potrebbe essere, per esempio, che anche gli editori e i reviewers cominciassero a guardare in modo diverso alle ricerche sottomesse, considerando quelle non-Weird come innovative e importanti. Oppure potrebbe tornare utile incentivare le ricerche che includono popolazioni che si discostano da quelle Weird, magari con una sorta di bollini distintivi nelle ricerche o gli editori potrebbero prendere la decisione di pubblicare un tot di studi che considerino anche popolazioni non-Weird in determinate percentuali.
“Un segno distintivo della buona scienza è riconoscere che gli essere umani si portano dietro una miriade di bias e di false credenze che oscurano la loro visione del mondo – scrivono ancora gli esperti su Pnas – Riconoscere tutto questo ha portato a coltivare istituzioni e modelli di indagine che ci aiutano a identificare e superare i nostri bias e a costruire modelli del mondo che ci permettono di vedere e cambiare il nostro futuro in modi sconosciuti. Ma la lotta contro i pregiudizi non finisce mai ed è guidata da una continua riflessione su come generiamo la conoscenza”.

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