Nelson Mandela (1918-2013) passò 27 anni in carcere. Complici i «Pensieri» di Marco Aurelio, non maturò alcun sentimento di rabbia o di vendetta
«Chi è benevolo non è portato alla vendetta, ma alla comprensione», scriveva Aristotele. E molti secoli dopo (1942) Gandhi: «Dobbiamo guardare in faccia il mondo con calma e occhi aperti, anche se gli occhi del mondo oggi sono iniettati di sangue». Per Martha C. Nussbaum, di cui sta per uscire per il Mulino Rabbia e perdono. La generosità come giustizia (pagg. 410, € 28), è una caratteristica dei grandi uomini quella di aver saputo reagire alle ingiustizie e alla violenza del mondo evitando l’odio, la rabbia, la vendetta, nella consapevolezza della loro inutilità. Il nostro vivere comune, e le istituzioni che lo informano, hanno bisogno di uno spirito di riconciliaizone e di una saggia ridefinizione di concetti come perdono, punizione, giustizia. Il che non significa che le ingiustizie non debbano essere contrastate. Anzi. Un’azione strategica e coraggiosa però «richiede intelligenza, autocontrollo, e generosità, una paziente e indefessa disposizione d’animo a vedere e cercare il bene più che a fissarsi ossessivamente sul male». All’analisi filosofica, Nussbaum unisce esempi concreti, come quello che vede protagonista, nello stralcio che qui proponiamo, il leader sudafricano Nelson Mandela. Le sue 250 Lettere dalla prigione, ora inedite, verranno pubblicate dal Saggiatore, che ne ha acquisito i diritti per l’edizione che uscirà in tutto il mondo nel luglio del 2018, in occasione del centenario della nascita. In molte di esse appare chiaro ciò che sostiene Nussbaum: quanto il temperamento del leader si sia costantemente ritemprato anche grazie alla lettura del filosofo-imperatore Marco Aurelio. (Ar.M.)
Negli scritti di Mandela non troviamo una teoria sistematica della non-rabbia, ma un’autoconsapevolezza umana di notevole profondità. (…) La rabbia porta a due strade, ciascuna delle quali racchiude un errore poco attraente. Il desiderio della rabbia che il male si ritorca sul reo è inutile, giacché la ritorsione non restituisce nulla a ciò che di buono è stato danneggiato; oppure, la rabbia rimane centrata sullo status relativo, nel qual caso può anche conseguire il suo scopo (relativa umiliazione), ma lo scopo stesso è del tutto indegno. Dimostrerò che Mandela arriva istintivamente alla stessa conclusione, in un modo condizionato dal suo lungo periodo di introspezione, che prevedeva l’esame di coscienza quotidiano, durante ventisette anni di prigione, un tempo che egli definisce estremamente produttivo per meditare sulla rabbia.
Che cosa conclude Mandela, nelle lunghe ore di quelle che egli chiama «conversazioni con me stesso», alludendo ai Pensieri di Marco Aurelio, un testo che fu portato a Robben Island quasi certamente da Ahmed Kathrada, e letto anche da altri prigionieri? Anzitutto, egli riconosce che l’ossessione per lo status è indegna, e così si rifiuta di seguire quella strada (forse le sue origini regali lo aiutarono, alleviando l’angoscia). Non si preoccupò mai se una particolare funzione o attività fosse “indegna” di lui. Attraverso l’introspezione, sfrondò dalle sue reazioni ogni accenno all’ansia per lo status, come se fosse la cosa più naturale e giustificabile. Così, quando a un nuovo arrivato a Robben Island fu chiesto di svuotare il bugliolo di un altro carcerato che era partito per Cape Town alle 5 del mattino, prima dell’ora della pulizia dei buglioli, egli obiettò dicendo che lui non avrebbe mai svuotato il secchio di un altro. Mandela intervenne: «Così lo ripulii io per lui perché a me non importava; svuotavo il mio secchio tutti i giorni e non avevo problemi a svuotare anche quello di un altro» (la trascrizione riferisce che Mandela ridacchiava raccontando questa storia). (…)
Scrivendo a Winnie dal carcere, nel 1975, dice che la maggior parte della gente è disgraziatamente interessata alla “posizione sociale”: invece dovrebbe essere interessata al proprio sviluppo interiore. Mandela sapeva bene che la maggior parte della gente è molto preoccupata dallo status. La leadership, per lui, significava addestramento paziente delle capacità, proprio come si prepara un atleta, e una capacità che addestrava costantemente era proprio quella di comprendere come pensassero gli altri. Perciò comprendeva che per disarmare la resistenza bisognava prima disarmare l’ansia, e che questo non sarebbe mai riuscito con manifestazioni di rabbia o rancore, ma solo con la gentilezza e il rispetto per la dignità altrui. Il segreto delle buone relazioni con le guardie – spesso inquinate dagli attriti di classe – era «il rispetto, il semplice rispetto». Quando il suo avvocato giunse a Robben Island, durante il primo anno di permanenza, Mandela volle presentarlo alle guardie: «George, scusami, non ti ho presentato la mia guardia d’onore». Poi presentò ciascun agente per nome. L’avvocato ricorda che «le guardie erano così colpite che si comportarono davvero come una guardia d’onore, e ciascuno di loro mi strinse rispettosamente la mano». Una delle guardie gli disse che le guardie nemmeno si parlavano fra di loro perché «detestavano quello che erano». La reazione di Mandela fu di chiedere all’uomo la sua storia: egli era cresciuto in un orfanotrofio, senza mai conoscere i genitori. Mandela conclude: «Il fatto di non avere i genitori, nessun affetto, da lì veniva l’acredine nei miei confronti. Io lo rispettavo molto perché si era fatto da sé. Era indipendente e studiava».
Quindi non solo la strada della rabbia motivata dalla condizione sociale era accuratamente evitata da Mandela, ma egli la comprendeva negli altri con empatia e quindi riusciva a scalzarla abilmente.
Per quanto riguarda il desiderio di restituzione, anche questo Mandela lo capiva benissimo e lo provò nella sua vita. Egli richiama alcuni incidenti che lo resero furioso. «Quell’ingiustizia mi bruciava», dice di un caso alla scuola di Fort Hare . Inoltre, la rabbia non solo era sempre in agguato, ma fu anche a un certo punto la spinta cruciale per darsi alla politica: «Non ho avuto una folgorazione, una rivelazione improvvisa, un momento della verità; è stato il lento accumularsi di una miriade di offese, di una miriade di indegnità, di una miriade di momenti dimenticati a far scaturire in me la rabbia, la ribellione, il desiderio di combattere il sistema che imprigionava il mio popolo. Non c’è stato un momento particolare in cui abbia detto: da qui in avanti mi consacrerò alla liberazione del mio popolo; invece, mi sono semplicemente ritrovato a farlo, e non potevo fare altrimenti».
Ma riconobbe che la vendetta semplicemente non porta da nessuna parte. La rabbia è umana, e possiamo capire perché l’ingiustizia ne produca tanta, ma se riflettiamo sulla mera futilità del desiderio di restituzione, e se davvero vogliamo il bene per noi stessi e per gli altri, ci accorgiamo subito che la non-rabbia e una disposizione generosa sono ben più utili. (…)
Mandela non era un santo, e la sua tendenza alla rabbia fu un problema costante contro cui dovette lottare. Come lui stesso testimonia, gran parte della sua meditazione introspettiva in carcere riguardò la sua tendenza alla rabbia sotto forma di desiderio di restituzione. Così in un’occasione concluse di aver risposto troppo bruscamente a una delle guardie, e se ne scusò . La scelta di organizzare le sue conversazioni in modo analogo ai Pensieri di Marco Aurelio dimostra una volontà di autocontrollo che può derivare direttamente da fonti stoiche, sebbene le sue idee abbiano uno stretto rapporto anche con il concetto africano di ubuntu . (…) Egli richiama ripetutamente l’attenzione sull’importanza dell’introspezione sistematica. In una lettera dalla prigione a Winnie, anche lei in prigione, nel 1975, egli scrive, incoraggiandola ad adottare la stessa disciplina meditativa: «La cella è un luogo ideale per imparare a conoscersi, per esplorare realisticamente e con regolarità i propri processi mentali ed emotivi».
Si noti che anche nelle iniziali esperienze di rabbia, che Mandela identifica come formative, predomina l’orientamento al futuro. (…) In generale Mandela non sembra avere mai pensato che far soffrire i sudafricani bianchi o infliggere loro qualche forma di vendetta fosse minimamente utile. Il suo obiettivo era di cambiare il sistema: un obiettivo che avrebbe richiesto la collaborazione dei bianchi, perché senza il loro supporto sarebbe risultato altamente instabile e continuamente minacciato. (…)
Gli atteggiamenti non retributivi, secondo Mandela, sono decisivi in particolare per colui che ha la responsabilità di una nazione. Un leader responsabile deve essere pragmatico, e la rabbia è incompatibile con un pragmatismo orientato al futuro. Intralcia e basta. Un buon leader deve andare verso la transizione più in fretta possibile, e forse per la maggior parte della sua vita deve fare questo, esprimendo e anche provando rabbia di transizione e delusione, ma lasciandosi alle spalle la rabbia vera e propria.
Un buon riassunto del metodo di Mandela si trova in una piccola parabola che egli raccontò a Richard Stengel, e che già in precedenza aveva usato con i suoi seguaci: «Ho raccontato di una discussione fra il sole e il vento, di quando il sole disse al vento: “Io sono più forte di te” e insieme decisero di mettersi alla prova con un viaggiatore… una persona avvolta in una coperta. Il più forte sarebbe stato chi fra loro fosse riuscito a togliergliela. Così il vento iniziò a soffiare e più soffiava, più l’uomo si teneva stretta la coperta. Allora il vento continuò a soffiare e soffiare, ma l’uomo non voleva saperne di mollare la coperta, anzi, come dicevo, più il vento soffiava e più se la teneva stretta intorno al corpo. Alla fine il vento rinunciò. Venne quindi il turno del sole, che iniziò a splendere, dapprima piano e poi inviando raggi sempre più caldi… fino a quando l’uomo cominciò a pensare che in effetti la coperta non gli serviva più, perché faceva già abbastanza caldo. Così la allentò un po’, ma i raggi del sole si facevano sempre più intensi, tanto che a un certo punto il viaggiatore si sbarazzò della coperta. Ecco, questa è la parabola: con la pace è possibile fare cambiare idea anche alle persone più determinate, più votate alla violenza, ed è questo il metodo che dovremmo adottare».
È significativo che Mandela imposti tutta la questione in termini pragmatici, come un problema di far fare all’altro ciò che tu vorresti. Poi egli dimostra che questo compito è molto più agevole se si convince l’altro a lavorare con te anziché contro di te. I progressi sono impediti dalla diffidenza dell’altro, dalla sua paranoia difensiva. La rabbia non può far nulla per migliorare le cose: può solo aumentare l’ansia e la paranoia dell’altro. Un metodo affabile e gentile, invece, riesce gradualmente a indebolire le diffidenze fino a superare del tutto l’idea di rimanere sulla difensiva.
Mandela, naturalmente, non era né ingenuo né tanto ideologico da rifiutare la realtà: così non troveremo mai in lui proposte come quella di rinunciare alla resistenza armata contro Hitler o di cercare di conquistarlo con il fascino e la discrezione. La parabola è proposta in un contesto particolare, quello della fine di una lotta di emancipazione a volte violenta, con molti dall’altra parte che erano comunque patrioti genuini, desiderosi del bene futuro della nazione. Fin dall’inizio della sua carriera, egli aveva insistito che la non-violenza andasse usata solo strategicamente. Ma anche dietro al ricorso strategico alla violenza c’era sempre una visione transizionale del popolo, centrata non sulla vendetta ma sulla costruzione di un futuro condiviso.
Quindi Mandela ha una risposta pronta all’oppositore immaginario favorevole alla mentalità della restituzione, come alternativa appropriata alla non-rabbia. Il fatto è che la restituzione non porta nulla di buono. Un tale modo di rapportarsi agli avversari avrebbe rallentato la causa per cui stava combattendo. Egli accetta la critica che il suo modo di vedere gli avversari sia solo un’opzione, non dettata dalla moralità: così dicendo, avanza una motivazione più debole della mia. La sua replica è che il suo metodo funziona. (…)
Per Mandela, rabbia e risentimento semplicemente non sono consoni a un leader, perché la funzione del leader è di fare le cose, e il metodo generoso e collaborativo permette di riuscirci.
Suggeriva di fare così anche ai suoi alleati e seguaci. Quando un gruppo di prigionieri del movimento Black Consciousness giunse a Robben Island determinato a continuare la resistenza con attacchi alle guardie, egli li convinse pazientemente e gradualmente che la militanza può essere manifestata anche, e più proficuamente, con strategie non rabbiose . Molto più tardi, nei primi tempi della nazione, dopo l’omicidio del leader nero Chris Hani per mano di un bianco, ci fu davvero il pericolo che il desiderio di vendetta compromettesse l’unità. Mandela apparve in televisione esprimendo profondo dolore ma esortando alla calma con tono paterno, in modo che il popolo percepisse: «Se neppure “il padre” chiedeva vendetta, chi altro aveva diritto di reclamarla?» . Egli cercò poi di convogliare i sentimenti osservando che l’assassino era uno straniero e che una donna afrikaner si era comportata eroicamente, annotando la targa del killer e permettendo così alla polizia di rintracciarlo. Disse: «Questo è un momento decisivo per tutti noi […]Dobbiamo usare il dolore, il lutto e l’indignazione per proseguire il cammino verso quella che è l’unica soluzione durevole per il Paese, cioè un governo eletto dal popolo […]rimanendo una forza disciplinata per la pace». Non sarebbe facile trovare un esempio più commovente della transizione, giacché Mandela aveva amato Hani come un figlio ed evidentemente stava provando un profondo dolore per la sua morte.
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