“Nessuno stato, nessuna chiesa, nessun interesse costituito ha mai voluto che le persone avessero anime forti, perché una persona con una solida energia spirituale sarà inevitabilmente un ribelle.” ( Osho )
Negli ultimi giorni ho letto due articoli che mi hanno portato a riflettere sul futuro prossimo che potrebbe coinvolgerci direttamente: il report ISTAT nell’Annuario 2018 e un’intervista al prof. Luca Ricolfi (sociologo UNITO) di Gabriele Ferraresi (testi riportati in calce). L’uccisione ieri del generale iraniano Soleimani, su ordine del presidente USA, ha confermato alcuni di questi pensieri, che appunto sinteticamente in questo mio blog così da poterli rileggere e verificarne gli sviluppi nei prossimi anni.
Come ben affermò Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”: “tutto cambia perché nulla cambi”. Le famiglie e multinazionali che detengono il potere pianificano a lungo termine strategie di contenimento del malessere sociale e di evoluzione tecnologica così da migliorare la qualità e la durata dell’esistenza dei propri membri e di coloro che operano a loro diretto servizio. La generazione nata negli anni ’70 sarà oggetto di ben tre rivoluzioni uniche nella storia conosciuta del pianeta: la rivoluzione informatica digitale, quella del mercato del lavoro flessibile e una terza che non ha ancora un nome e una forma definita. Ma che sarà la risposta alle statistiche riportate nell’Annuario: per la prima volta nella storia il Paese è composto dal 66% ca di famiglie prive di figli (33% ca single + 33% ca coppie senza figli) a fronte di un 33% ca di famiglie con figli (di queste solo il 5% è composta da 5 o più soggetti).
Fare figli è insito del DNA umano, la sopravvivenza della specie deriva unicamente da questa abilità. E sin dalla notte dei tempi i figli sono stati il cuore di ogni economia e di ogni società. La riproduzione è stata poi strumentalizzata da chi ha detenuto e detiene il potere: sia come strumento di sviluppo (braccia per i campi, braccia per i fucili, braccia per le fabbriche, …) sia come strumento contenitivo del malessere e di eventuali rivolte dal basso. Perché i figli sono un patrimonio che costa sacrifici enormi in termini di denaro, di sforzo fisico e mentale alle proprie famiglie… che per far fronte a questo sforzo immane si auto-impongono mutui, carichi di lavoro eccezionali, accettazione tacita di soprusi quotidiani e responsabilità grandissime. Una sorta di schiavitù razionalmente auto-imposta che fiacca fisico e spirito e rende complice e/o ricattabile la popolazione attiva, facendo scemare qualsiasi velleità rivoluzionaria che intacchi lo status-quo.
Nei precedenti schemi sociali degli anni passati l’80% delle famiglie aveva figli, spesso ben più di due. Le lotte operaie che portarono allo Statuto dei Lavoratori furono anche e soprattutto volte alla tutela della maternità e della famiglia numerosa: ricordo mia madre che ripeteva spesso di essersi fasciata mesi la pancia così da non far sapere al datore di lavoro di essere incinta (di me), altrimenti sarebbe stata licenziata. In questo ambiente chi, per qualche motivo, non faceva figli era considerato “accessorio strumentale” alla famiglia alfa e collaborava esteriormente allo sviluppo della progenie (quante zie hanno ricoperto egregiamente questo ruolo negli anni ’80-’90 ?!). Ma oggi che il 33% delle famiglie è uni-personale e altrettante è senza figli, il Legislatore dovrà per forza di cosa adeguarsi alla realtà. E prima del Legislatore, come sempre, lo faranno gli schemi socio-lavorativi. Poiché l’impostazione attuale, così gravosa sia per le donne “madri” che per quelle “senza figli”, non può durare a lungo senza portare gravi tensioni sociali.
«Come» è difficile da dirsi: è una questione legata alla produttività dei processi e allo sviluppo economico dei Paesi. Se prevarrà una visione futuristica e tecnologica, con l’informatica digitale si potranno ridurre ore lavorative e/o de-localizzare le attività permettendo un’evoluzione degli schemi attuali (la versione 2030 di quando negli stessi anni del secolo scorso le nonne contadine tessevano o ricamavano in cascina dopo essersi prese cura di animali e figli), altrimenti se prevarrà una visione reazionaria torneremo a vecchi schemi superati che indurranno molte donne a rinunciare ai diritti di parità di genere conquistati negli ultimi cinquant’anni (e anche su questo ci sarebbe da scrivere interi volumi) e a tornare all’esclusivo ruolo di “angelo del focolare domestico”.
Comunque si svilupperà la questione, il “dividi et impera” orchestrato dalla regia di chi siede al timone di questa piccola astronave che vagabonda nel sistema solare, manterrà di massima gli stessi equilibri: “tutto cambia perché nulla cambi”. In fondo è arduo essere legato al remo, ma lo è parimenti essere in plancia di comando, dovendo scegliere continuamente la rotta migliore per preservare dal disastro bastimento, carico… e ciurma! 😉
Istat: l’Italia un paese di vecchi, famiglie in calo e sempre più single
L’Istituto nell’Annuario: ‘Minimo storico di nascite’. Ma crescono gli stipendi per la prima volta da nove anni
Nel 2018 gli stipendi sono tornanti a salire. Una crescita che mancava da quasi un decennio. Lo rileva l’Istat nell’Annuario. “Dopo una fase di decelerazione che perdurava da nove anni, le retribuzioni contrattuali orarie nel totale economia sono tornate ad aumentare (+1,5%). Tale variazione è stata determinata per più di due terzi dai miglioramenti economici intervenuti nell’anno. Il contributo maggiore è derivato dagli aumenti retributivi previsti per la quasi totalità dei dipendenti pubblici (+2,6%) dopo il blocco contrattuale che si protraeva dal 2010”.
“Le famiglie, 25 milioni e 700 mila, sono sempre più numerose e sempre più piccole”. Così l’Istat nell’Annuario. “Il numero medio di componenti è passato da 2,7 (media 1997-1998) a 2,3 (media 2017-2018), soprattutto per l’aumento delle famiglie unipersonali che in venti anni sono cresciute di oltre 10 punti: dal 21,5% nel 1997-98 al 33,0% nel 2017-2018, ovvero un terzo del totale delle famiglie”, spiega l’Istituto.
Minimo storico nascite, Paese tra più vecchi – “Nel 2018 continua il calo delle nascite: i nati vivi, che nel 2017 erano 458.151, nel 2018 passano a 439.747, nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia”. Lo conferma l’Istat nell’Annuario. Sempre nel 2018, sottolinea, “il numero dei decessi diminuisce e raggiunge le 633.133 unità”. La speranza di vita media alla nascita “riprende ad aumentare attestandosi su 80,8 anni per i maschi e 85,2 per le femmine nel 2018”. Tutto ciò rende “l’Italia uno dei Paesi più vecchi al mondo, con 173,1 persone con 65 anni e oltre ogni cento persone con meno di 15 anni al primo gennaio 2019”.
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FONTE
DOCUMENTO UFFICIALE ISTAT ANNUARIO 2018 FAMIGLIE
SIGNORILI SI NASCE
Luca Ricolfi racconta l’Italia: un Paese diventato società signorile di massa e che vive al di sopra delle proprie possibilità. Ma fino a quando?
Ricolfi, La società signorile di massa si regge su tre pilastri. Il primo è la ricchezza accumulata dalle generazioni dei nonni e dei padri: come hanno fatto ad accumularla?
Le condizioni fondamentali che nel secondo dopoguerra hanno permesso di accumulare ricchezza sono essenzialmente tre. La prima è la disponibilità della popolazione a fare sacrifici in vista di benefici futuri, un fattore che è venuto meno già verso la fine degli anni ‘70. La seconda è la contenuta pressione fiscale, di cui abbiamo smesso definitivamente di beneficiare dalla metà degli anni ’80 in poi. La terza è il cocktail di svalutazioni competitive e indebitamento pubblico, che ha drogato la crescita economica nel ventennio 1972-1992. Quest’ultimo fattore è venuto meno con gli accordi di Maastricht (1992) e l’ingresso nell’euro (1999).
Le tre condizioni precedenti sono sostanzialmente irripetibili.
Salvo forse quella della pressione fiscale, che in teoria potrebbe scendere un po’, anche se difficilmente al livello dei primi anni ’80 (sotto il 35%, contro il 42% di oggi).
La Teoria della classe disagiata è probabilmente il testo più profondo, e libero da preconcetti ideologici, che io abbia letto sull’Italia di oggi, e sui giovani in particolare. Su questo punto, quello della condizione giovanile, il quadro che dipinge Ventura ha molti punti di contatto con quello che ho provato a tracciare io, una prima volta in un capitolo de L’enigma della crescita (Mondadori 2014), poi ne La società signorile di massa (La Nave di Teseo 2019). Lei mi chiede che cosa è andato storto, e dove si è sbagliato nella scuola. A me pare che gli errori capitali siano due, uno antico e mai corretto, l’altro moderno e orgogliosamente rivendicato.
L’errore antico è la svalutazione della cultura scientifica e del sapere pratico, un errore che – più che uno sbaglio vero e proprio – è un aspetto della nostra mentalità e della nostra cultura, che è sempre rimasta fondamentalmente e romanticamente anti-industriale e anti-moderna. L’errore più recente, invece, è la scelta di tutti – politici, insegnanti, genitori – di abbassare gli standard dell’istruzione, sia nel senso di diluire i programmi (più nell’università che nella scuola) sia, soprattutto, di abbassare l’asticella della sufficienza.
In concreto questo ha significato tre cose. Primo, svalutare e disincentivare la formazione professionale. Secondo, favorire gli studi più facili o ritenuti tale, a scapito delle materie scientifiche e delle materie umanistiche più impegnative come latino e greco. Terzo, rilasciare titoli di studio fasulli, illudendo i giovani di essere pronti per mestieri che la maggior parte di loro non era preparato a svolgere. Con una conseguenza drammatica: ai ceti subalterni è stata tolta l’unica risorsa – la cultura – che avrebbe loro permesso di competere sul mercato del lavoro con i ceti medi e alti.
Terzo pilastro è “l’immigrazione incontrollata, che ha favorito la formazione di un’infrastruttura para-schiavistica”. Ma a questo punto non converrebbe gettare la maschera? E accettare apertamente quanti più migranti possibile proprio per metterli in queste condizioni paraschiavistiche e proseguire nella nostra – infame, per carità – vita da rentier?
È quello che sta succedendo. I ceti popolari non amano gli immigrati perché li vedono – realisticamente – come concorrenti nell’accesso ai servizi pubblici, come rivali nella conquista dei pochi posti di lavoro disponibili con conseguente dumping salariale, come minacce alla sicurezza nelle periferie e nei quartieri degradati. I ricchi e i ceti medi, invece, li vedono un po’ cinicamente come candidati ideali ad occupare le posizioni più umili nella scala sociale: braccianti, muratori, magazzinieri, facchini, badanti, camerieri, lavapiatti, per non parlare dei servizi illegali, come lo spaccio di sostanze, la prostituzione, il gioco d’azzardo illegale.
Troppo spesso si dimentica che le differenze fra l’approccio ai problemi dell’immigrazione tipico dei “signori” e quello delle persone umili sono normalissime differenze di interessi materiali, e non differenze di cultura o di umanità. Chi è sotto non vuole concorrenti, chi è sopra è ben felice di disporre di servizi a basso costo. Questo punto, curiosamente, viene quasi sempre dimenticato dai mass media e dagli studiosi, che preferiscono pensare i ceti popolari come rozzi e sobillati dalla propaganda, e i “ceti medi riflessivi” come portatori di una superiore razionalità e coscienza morale. Non arrivo a dire, come fa il giovane filosofo Diego Fusaro, che la macchina dell’accoglienza è un sistema per effettuare “deportazioni di massa” a beneficio di imprenditori e signori di varia specie, ma è vero che in una società signorile di massa l’apertura ai flussi migratori ha due facce.
Quella umanitaria di chi, come i radicali, sogna un mondo senza frontiere in cui a tutti siano garantiti alcuni diritti fondamentali, e quella più prosaica di quanti, come i datori di lavoro e i membri della “classe agiata”, hanno bisogno di forza lavoro e servitù.
Nella società signorile di massa i giovani – diciamo i trenta, quarantenni – sono sia privilegiati che vittime. Privilegiati perché di certo non rischiano la vita: hanno un tetto, cibo, affetto genitoriale, meno spesso un lavoro. In fondo però più che vivere, sopravvivono. Si può arrivare così a cinquant’anni senza che si rompa qualcosa?
Sì e no. Si può andare avanti così nei ceti alti e medio-alti, non si può nei ceti medio-bassi. Tutto dipende da quanto è grande il patrimonio familiare, e quanto lunga è l’aspettativa di vita dei genitori.
Ma la conseguenza principale della dilazione delle scelte occupazionali, per cui si posticipa di 10 o 20 anni l’ingresso definitivo nel mercato del lavoro, è di tipo pensionistico: chi fino a 40 anni lavoricchia, e solo dopo i 50 ha un vero lavoro, inevitabilmente andrà in pensione con un reddito molto basso.
Ha detto che “Diventeremo come i nobili decaduti, nevroticamente impegnati a sostenere il nostro modo di vita facendo debiti, coscienti che tra un po’ il mondo dorato non esisterà più”. Sarà una discesa lenta o ci saranno degli strappi? Faremo la fine del conte Mascetti, “Non vi preoccupate: tra tre giorni mi ammazzo”?
Direi piuttosto, con Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Il declino dell’Italia è sufficientemente lento da permetterci di autoingannarci, pensando che i problemi verranno al pettine solo “nel lungo periodo”, ovvero quando non ci saremo più. Il guaio è che, fra 20, 30 o 40 anni i nostri figli e nipoti ci saranno eccome: sono loro che pagheranno il prezzo del nostro ostinato rifiuto di riconoscere il piano inclinato su cui stiamo scivolando.
La “condizione signorile” degli italiani è caratterizzata da consumi opulenti e non è una condizione felice: i soldi non danno la felicità, e lo sappiamo da qualche millennio. Quali sono le patologie e le dipendenze nella società signorile di massa?
Le dipendenze principali a mio parere sono quattro: consumo patologico di alcol e droghe leggere; consumo di cocaina e eroina; gioco d’azzardo, legale e illegale; ludopatia, sia su internet sia da giochi elettronici. A queste quattro dipendenze occorre però aggiungere una forma di dipendenza più sottile e forse più grave.
La patologica dipendenza dal giudizio degli altri, che ci porta a diventare – attraverso internet e i social – patetici gestori della nostra reputazione e della nostra immagine.
La “condizione signorile” non porta quindi a una società felice, ma allora cosa serve per avere una società felice?
La felicità va distinta dalla soddisfazione o dalla contentezza, e infatti la maggior parte delle lingue – ma curiosamente non l’inglese – hanno due parole distinte. Come ebbe una volta ad osservare Albert Hirschman la parola inglese “happiness” ha un significato molto più debole dei corrispondenti termini italiano (felicità), francese (bonheur), tedesco (glücklichkeit).
Se ci atteniamo alle analisi più profonde del concetto di felicità – ad esempio quella di Ortega y Gasset nel Discorso sulla caccia – alla felicità sono essenziali almeno tre cose: l’attesa, qualche tipo di sforzo, un certo grado di incertezza del risultato. Tutti elementi che una società signorile di massa tende a sopprimere.
Un portato abbastanza inevitabile in un Paese che consuma ma non produce è la decrescita: difficilmente quella sarà “felice”. Come potrebbe decrescere l’Italia?
Io vedo una grande continuità fra governi di destra e di sinistra, fra governi europeisti e populisti. E anche fra Conte 1 e Conte 2. Nessuno dei governi degli ultimi dieci anni ha seriamente affrontato i due problemi cruciali dell’Italia, l’esplosione del debito e la produttività ferma da vent’anni, tutti hanno preferito cercare consenso aumentando la spesa pubblica piuttosto che restituendo ossigeno all’economia. La verità, temo, è che in Italia il “partito del Pil”, che vorrebbe far ripartire la crescita, è maggioranza nel Paese ma non nei palazzi della politica, dove a prevalere sono le spinte assistenziali.
In queste condizioni lo scenario più probabile mi sembra quello che ho chiamato “argentinizzazione lenta”: un indebolimento dell’economia e una disgregazione del tessuto sociale sufficientemente lenti da non provocare alcuna reazione.
Sempre che una crisi finanziaria internazionale, o una mossa avventata dei nostri politici, non faccia improvvisamente precipitare le cose, gettandoci in una situazione simile a quella della Grecia.
Ha detto che anche Francia e Belgio sono avviate sulla nostra stessa strada: che cosa abbiamo in comune con loro? E con la Grecia?
In comune con Belgio e Francia abbiamo consumi opulenti, poco tempo dedicato al lavoro, crescita asfittica. Con la Grecia abbiamo in comune il tasso di occupazione più basso del mondo occidentale, ma divergiamo per il livello dei consumi e la crescita: noi siamo molto più ricchi dei greci, ma loro da un paio di anni sono tornati a crescere, mentre noi siamo in stagnazione, unico paese in Europa e più in generale nel mondo sviluppato.
Quando ci sveglieremo dal nostro sogno signorile?
Io credo che una parte minoritaria ma non trascurabile dei cittadini italiani già oggi si renda conto, più o meno confusamente, che viviamo in una società signorile, e che questa condizione non può durare. Tuttavia penso anche che questa minoranza sia destinata a restare tale, perché la maggioranza non ha la minima intenzione di risvegliarsi dal sogno, e la lentezza del nostro declino le permette di nascondere la testa sotto la sabbia.
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