Articolo veramente ben scritto. Condivido ogni parola… alla fin fine sono le conclusioni cui sono giunto io dopo 35 anni di riflessioni! 😉
La felicità è una scienza: istruzioni da mettere in pratica per sentirsi bene
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Innanzitutto: la felicità è una scienza, quindi si può imparare e metterla in pratica. Succede già, soprattutto in America, dove la psicologia positiva viene insegnata in molte università. A Yale il corso di Psychology and the Good Life, introdotto nel 2018 da Laurie Santos, è il più popolare dell’ateneo ed è frequentato da quasi un iscritto su quattro. Il successo è tale che il corso (adattato) è anche online: si chiama «la Scienza del benessere», dura sei settimane ed è seguito (gratuitamente) da oltre 4 milioni di persone nel mondo. Quest’estate verrà lanciata online una versione per adolescenti, («The Science of Well-Being for Teens»), tra i più colpiti da ansia e depressione, dopo la pandemia del Covid-19.
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Nella sua classe Santos insegna cosa dice la psicologia su come fare scelte più sagge e vivere una vita più appagante. Le ultime statistiche in America segnalano che il numero dei depressi è aumentato del 40%, la sensazione di ansia e solitudine del 66%, l’87% in più si sente sopraffatto dalla prestazione e cresce (+13%) il numero di chi considera seriamente il suicidio, sostiene la psicologa. E il malessere riguarda anche gli studenti. Ecco perché il suo corso accademico sulla felicità «non è soltanto scienza, ma anche strategia per una buona vita».
In un mondo che ci costringe a confrontarci costantemente con gli altri e dove siamo distratti di continuo da smartphone e altri dispositivi, il suggerimento di Santos è di essere «meno critici e avere più compassione verso noi stessi». Dobbiamo imparare a regolare le emozioni negative, dando spazio a quelle positive. «Rompete le cattive abitudini, costruite nuovi abitudini», consiglia. «La Science of Good Life è un percorso di ricablaggio (rewirement)»: include coltivare connessioni sociali, provare gratitudine, praticare la meditazione, fare esercizio fisico, concedersi 8 ore di sonno. E funziona. Avere gli strumenti ha un effetto di protezione che perdura nel tempo e permette di affrontare i momenti difficili».
Tutto si tiene. E comincia con Aristotele, il pioniere degli studi sulla felicità. Pathos, Ethos e Logos, che il filosofo greco indica come i tre modi per persuadere gli altri nell’Arte della Retorica, corrispondono infatti all’ABC del cambiamento secondo gli psicologi moderni, cioè Affect (le emozioni), Behavior (il comportamento) e Cognition (la conoscenza), spiega Tal Ben-Shahar, che ha insegnato psicologia positiva a Harvard e Happiness Studies alla Columbia University. E arriva al Nobel assegnato per l’Economia allo psicologo Daniel Kanheman, autore tra l’altro di «Economia della Felicità».
Oggi si parla di «time poverty», quella sensazione di non avere mai abbastanza tempo. Ma avere più tempo a disposizione non sempre è la soluzione, sostiene Cassie Holmes, docente alla Anderson School of Management di Ucla e autrice di «Happier Hour». Gli studi indicano che la felicità diminuisce da entrambi i lati della distribuzione: per chi ha troppo poco tempo e per chi ne ha troppo, perché avere tempo libero in abbondanza mina il nostro sense of purpose, i nostri obiettivi. E possiamo trovare lo scopo nel volontariato, in un hobby, ma anche in un lavoro che ci piace. Non si tratta di quantità quindi, ma di arricchire il tempo a disposizione.
Holmes usa l’esempio del «barattolo del tempo», per spiegare l’importanza di dare priorità al proprio tempo. Immaginiamo di avere un barattolo di vetro e riempirlo con delle palline da golf. Sembra pieno, ma non lo è, perché possiamo aggiungere dei sassolini. Nemmeno adesso è davvero pieno, perché possiamo poi della sabbia. Sembra saturo, ma in realtà è possibile versare ancora un’intera bottiglia di birra. La dimostrazione del barattolo ci insegna che possiamo riempire il nostro tempo, ma non sempre con le cose importanti, in questo caso le palline da golf.
Ecco un esercizio per tenere il proprio tempo sotto controllo: tracciamo, ora per ora, ciò che facciamo e come ci sentiamo (da 1 a 10) per una settimana. Alla fine, avremo un database per valutare se abbiamo usato il tempo sulle cose importanti, quelle a cui teniamo (le palline da golf) o per sabbia e sassolini. Ecco un altro esercizio per combattere quello che Holmes definisce «l’adattamento edonico», la propensione ad abituarci alle cose nel corso del tempo, smettendo di notarle, mentre dobbiamo esserne consapevoli per continuare a sentire la gioia. Evidenziamo nel database della settimana i momenti in cui siamo stati più felici e trasformiamo le attività gioiose in rituali. Per rafforzare il concetto, c’è un ulteriore compito a casa, l’esercizio del tempo rimasto. Funziona così: 1) identificate un’attività che vi porta gioia 2) calcolate il numero di volte che avete fatto tale attività in passato 3) calcolate il numero di volte che vi restano per farla ancora 4) pensate alla percentuale del vostro tempo che vi resta.
Il lavoro occupa un terzo della nostra vita, però non lo includiamo mai nel nostro «giorno perfetto», perciò cambiare la relazione con la nostra attività professionale può farci stare meglio. Il problema è che le aziende hanno ampiamente mancato l’obiettivo di creare organizzazioni dove tutti i dipendenti prosperano in modo equo, perché trattano la diversità, l’equità e l’inclusione come un programma da realizzare piuttosto che un percorso necessario e difficile, sostiene la psicologa Ella Washington, docente alla Georgetown University e autrice del libro «The necessary Journey».
Dopo la pandemia è esploso il caso delle «dimissioni silenziose» (quiet quitting), un fenomeno che nasconde datori di lavoro che non concedono aumenti e non offrono promozioni, o che bloccano la crescita professionale dei dipendenti. La settimana lavorativa di 4 giorni può essere un modo per avviare il cambiamento: gli studi indicano che ha «un impatto davvero potente sul benessere». E benessere dei lavoratori e successo aziendale vanno di pari passo, in termini di produttività, utili e performance azionaria sui mercati, ha mostrato l’economista belga Jan-Emmanuel De Neve, direttore del Well-Being Research Center dell’Università di Oxford.
Per una vita lunga e felice la cosa più importante sono relazioni sociali soddisfacenti, più di una buona dieta, dell’esercizio, di un buon sonno, sentenzia la psichiatra Kelli Harding. Studi mostrano che la qualità delle relazioni sociali da teenager hanno un impatto (+87%) sulle malattie croniche da adulti e che i più sani a 80 anni sono quelli che a 50 erano i più soddisfatti delle loro relazioni. Ecco le 8 regole per coltivare relazioni soddisfacenti secondo Harding: mostrate interesse per gli altri, chiedete per esempio come va la giornata; chiedete aiuto e poi date il meglio di voi stessi; aspettatevi un rifiuto, ma riprovateci; praticate la micro-gentilezza; comportatevi in modo etico; coltivate la pace interiore e create una comunità. E, infine, perdonate.
Fred Luskin, direttore dello Stanford Forgiveness Project, afferma che «il perdono è fare pace quando la vita fa schifo». Significa attenuare la colpa di ciò che ci ha ferito, prendere meno sul personale le nostre esperienze di vita e vedere il costo del rancore. Come ripeteva Desmond Tutu, l’arcivescovo attivista sudafricano contro apartheid, «senza perdono non c’è futuro», ricorda a Como lo psicologo, autore tra l’altro di «Forgive for Good: a Proven prescription for Health and Happiness». La sua terapia del perdono del Progetto dell’Università di Stanford è stata sperimentata con successo con le vittime di violenza nell’Irlanda del Nord, in Sierra Leone e perfino con i sopravvissuti dell’attacco dell’11 Settembre.
«Il perdono esiste in noi, perdoniamo non perché vogliamo accettare un comportamento orrendo, sbagliato, ma perché vogliamo avere accesso al nostro cuore. Ci diciamo: non è colpa mia. Ma più ci identifichiamo con questa affermazione, meno abbiamo accesso al nostro cuore. Il perdono è aprire il nostro cuore», sostiene Luskin. La gratitudine è un’àncora alla difficoltà di perdonare. «La gratitudine è riconoscere l’abbondanza in cui viviamo. Non troveremo mai pace dopo essere stati trattati male, se non proviamo gratitudine, se non lasciamo andare le cose. Lasciate andare le cose», raccomanda. «La gratitudine è una valutazione onesta della propria vita. È uno sguardo profondo alla propria esistenza», insiste.
«Quando mi sveglio e respiro, c’è del cibo nel frigorifero, e acqua corrente e persone che si prendono cura di me , devo essere grato per quello che ho. Invece cerchiamo le piccole cose che ci fanno arrabbiare e ci rendono infelici», dice Lusikin. Un altro fondamento del perdono è la compassione. «Siamo tutti sulla stessa barca. L’esistenza è sofferenza, perché tutto è temporaneo, invece ci aggrappiamo alle cose. A prescindere da ciò che avete sofferto, potete dire grazie per ciò che avete, sapendo che la vostra sofferenza non è unica. La vita è quella che è, siamo noi a renderci infelici».
L’insegnamento della terapia del perdono: possiamo lavorare su di noi e praticare la gratitudine e la compassione. « Senza perdono, non c’è futuro. Senza perdono, ripetiamo semplicemente il nostro passato. Il perdono non cancella la verità, ma ci riposiziona nel mondo dove siamo. Senza perdono non siamo aperti all’oggi, siamo bloccati nel nostro passato. Ogni volta che non perdoniamo e parliamo negativamente di una persona, contribuiamo alla sofferenza. E richiede grande coraggio interrompere quella sofferenza». Per guarire non dobbiamo nutrire il risentimento: «Siamo fatti per trattenerlo, per esprimerlo e poi lasciarlo andare. Conservate il ricordo, ma lasciate andare il dolore».
Ripensare alla regole del gioco, ridisegnare gli obiettivi delle aziende, riprogettare le politiche dei governi per tenere conto di un forte bisogno di benessere, perché ha impatti importanti e misurati sulla nostra felicità, diventa perciò una necessità sempre più urgente. Il faro non deve essere più solo il Pil per il governo o il profitto per le imprese o i voti per la scuola, sostiene , sostiene Lord Richard Layard, economista britannico, co-autore del World Happiness Report e co-fondatore di Action for Happiness. Preoccupato soprattutto del benessere delle generazioni future: «Nel Regno unito la prima causa dell’infelicità è la salute mentale. La salute emotiva di un ragazzo a 16 anni ci aiuta a prevedere quanto sarà soddisfacente la vita da adulti. Ecco perché un ragazzo felice e è un indicatore migliore delle sue qualifiche».