Gilbert Levin, che lavorò agli esperimenti delle sonde Viking, dà libero sfogo alla sua delusione: su Marte c’è vita e la Nasa tace (afferma).
L’equazione “Marte = possibilità di vita” è un ritornello ormai comune da quando è stato dimostrato che un tempo l’acqua scorreva abbondante sul Pianeta Rosso e che dal suolo viene rilasciato metano (che potrebbe forse avere origini organiche). Tuttavia, al momento, nessun Ente spaziale, nessuno studio, nessun ricercatore si è mai sbilanciato ad affermare con certezza che su Marte la vita c’era (o c’è). Con una eccezione.
Lo scienziato Gilbert Levin, che ha lavorato per realizzare gli esperimenti che vennero posti a bordo delle sonde Viking, che scesero su Marte negli anni Settanta, sostiene senza alcun remora che “su Marte c’è vita”. Lo ha sempre sostenuto, e ancora una volta difende le sue idee – in questa occasione dalle pagine pubbliche del Scientific American. Levin afferma che le analisi dei dati che giungevano dalla navicella, condotte sia allora, sia in tempi successivi, “segnalavano il rilevamento di respirazione microbica sul Pianeta Rosso: i dati erano simili a quelli prodotti da test condotti su suoli della Terra” dove, chiosa Levin, si è abbastanza sicuri che esista la vita.
PRO E CONTRO. Purtroppo uno degli esperimenti a bordo delle sonde, il Viking Molecular Analysis Experiment, non riuscì a rilevare materia organica e la NASA preferì concludere dichiarando che i Viking avevano trovato “una sostanza che imita la vita, non la vita”. Per seguire il ragionamento di Levin bisogna fare un salto indietro nel tempo di oltre 25 anni, e salire a bordo delle Viking per l’esperimento del rilascio di anidride carbonica marcata: «Tutti i microorganismi terrestri che metabolizzano sostanze organiche, liberano anidride carbonica», spiega Levin. «Pensai che se si fosse preso un campione di terreno marziano e lo si fosse spruzzato con acqua e sostanze nutrienti che contenessero carbonio radioattivo, eventuali organismi presenti nel campione se ne sarebbero nutriti, e di conseguenza avrebbero emesso anidride carbonica la cui molecola sarebbe stata composta anche dal carbonio radioattivo immesso, e quindi sarebbe stato facile da rilevare.»
In effetti avvenne proprio così, e a quel punto tutto faceva pensare che i “marziani” esistessero per davvero. Ma il gelo scese tra gli scienziati quando un altro esperimento, che aveva il compito di trovare molecole organiche nel suolo, non ne trovò neppure una.
Si cercarono perciò possibili spiegazioni all’esperimento di Levin che non coinvolgessero organismi viventi. Ne vennero trovate diverse, ma nessuna, a detta dello stesso Levin, è riuscita a spiegare nei dettagli quello che è successo veramente con le Viking su Marte: «Non si sono trovate tracce di composti organici solo perché il sistema di rilevazione di allora non era così evoluto da poter mettere in luce i microrganismi marziani», sostiene. A suo favore c’è quella che lui ritiene “la prova regina”: l’esperimento, replicato a Terra, non fu in grado di rilevare l’esistenza di microrganismi perché presenti in quantità troppo basse per il rilevatore.
PERSECUZIONE? Secondo Levin la Nasa non ha mai sostenuto le sue ipotesi «per il semplice fatto che sono un ingegnere e non uno scienziato», cosa che ancora oggi gli costerebbe un forzato confino ideologico: «ancor prima che il mio esperimento fosse scelto, la Nasa mi chiese di affidare la mia ricerca a uno scienziato, ma io mi opposi e per 3 anni studiai a tempo pieno per diventare “Dottore”», sostiene.
Di fatto, «inspiegabilmente, nei 43 anni trascorsi dalle missioni Viking, nessuna delle successive sonde della NASA ha portato su Marte uno strumento adeguato per rilevare la vita, così da dare seguito a quei risultati». Per mettere la parola “fine” (o “inizio”) a questa storia dobbiamo necessariamente attendere che il rover Rosalind Franklin (ESA), in partenza nel 2020, arrivi sul Pianeta Rosso: tra i suoi esperimenti ci sono infatti anche quelli adeguati per cercare tracce di vita.
NOTA SULL’IMMAGINE: Il famoso “volto” fotografato nel 1976 dalla Viking 1: ci sono voluti quasi trent’anni e una serie di immagini ad alta risoluzione per dimostrare che era solo il risultato di un gioco di luci e ombre.
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