Alcuni ricercatori dell’Università del Vermont hanno realizzato i primi robot viventi che utilizzano cellule della pelle e della fibra muscolare della rana africana

Nonostante il nome richiami i robot, e nonostante l’università parli di “robot viventi“, non si tratta di vere macchine ma di organismi biologici, fatti di cellule. In particolare di cellule staminali prelevate da embrioni di Xenopus laevis, una rana acquatica africana spesso usata come organismo modello negli studi di biologia evolutiva. Ma come stanno realmente le cose? Cosa sono questi “robot viventi” che i ricercatori del Vermont affermano di aver creato? E, soprattutto, stiamo per essere invasi da nuovi tipi di microrganismi progettati al computer?
Joshua Bongard, il ricercatore dell’Università del Vermont che ha guidato la ricerca, descrive gli Xenobot con i termini “Novel living machines“, cioè nuove macchine viventi. Secondo Bongard “Non sono né un robot tradizionale né una specie conosciuta di animali. È una nuova classe di artefatti: un organismo vivente, programmabile“. Bongard descrive gli Xenobot come programmabili perché li ha realizzati affinché portassero a termine compiti specifici: veicolare all’interno del corpo umano dei farmaci, ripulire il mare dalle microplastiche, bonificare siti contaminati dalle radiazioni.
Gli Xenobot sono lunghi circa un millimetro, hanno capacità basilari di movimento, possono vivere per qualche giorno senza alimentarsi e si auto riparano se vengono tagliati in due. Sono stati creati partendo dalle cellule della pelle e della fibra muscolare della rana africana, aggregate e modellate manualmente dal microchirurgo Douglas Blackiston seguendo un “design” scelto dal supercomputer Deep Green dopo mesi di calcoli. In vitro si è visto che gli Xenobot tendono a fare ciò per cui sono stati “programmati”: formano colonie, si muovono in circolo e tendono ad aggregare verso il centro della piastra di Petri in cui “abitano” eventuali particelle in sospensione.

Il supercomputer Deep Green

Per la tua privacy YouTube necessita di una tua approvazione prima di essere caricato. Per maggiori informazioni consulta la nostra PRIVACY & COOKIE POLICY.

Per arrivare al design definitivo di questa nuova forma di vita ci sono voluti mesi di calcolo con Deep Green, il supercomputer in dotazione dallo scorso luglio all’Università del Vermont. Si tratta di un calcolatore dotato di un cluster di 80 GPU Nvidia Tesla V100, per un totale di 460 mila core che lavorano in parallelo, fornendo una capacità di calcolo pari a 8 petaflops (8.000.000.000.000.000 di operazioni).
È costato un milione di dollari, ma ha fatto fare un grande salto in avanti alla ricerca dell’università americana grazie alla sua enorme potenza che è stata utilizzata per fargli sviluppare l’algoritmo evolutivo dal quale sono nati gli Xenobot. Un algoritmo che, semplificando moltissimo, si ispira all’evoluzione degli esseri viventi: effettua miliardi di modifiche casuali del modello iniziale, per poi calcolare la soluzione migliore.

L’inizio di una nuova era?

Come dicevamo questa notizia ha fatto molto discutere: non è certo la prima volta che si fanno esperimenti genetici in laboratorio, ma è la prima volta che si lasciano scegliere ad un computer la forma, le dimensioni e le funzioni di un nuovo organismo. Tuttavia c’è anche da ridimensionare la notizia a quello che è realmente: un esperimento che è ancora lontano dal poter uscire dal laboratorio in cui è nato.
Per diversi motivi, il primo dei quali è economico: il metodo usato per creare gli Xenobot in laboratorio è costosissimo perché prevede che un operatore ultraspecializzato li “costruisca” ad uno ad uno. Gli Xenobot, poi, difficilmente potrebbero sopravvivere al di fuori di una provetta, nell’ambiente: verrebbero presto fagocitati da qualche altro organismo a loro superiore. Se inseriti nel corpo umano, per svolgere una qualsiasi funzione terapeutica, verrebbero riconosciuti immediatamente come un corpo estraneo e fatti fuori dal sistema immunitario. O, nella peggiore delle ipotesi, causerebbero una crisi di rigetto come un trapianto di organo andato male. Certamente, però, gli Xenobot aprono una nuova frontiera nella ricerca i cui reali effetti, però, saranno visibili solo tra molti anni.

23 gennaio 2020
FONTE