Cesare Lombroso era un genio per i suoi contemporanei, poi è diventato un capro espiatorio della storia e della scienza. Le ricerche più recenti ci aiutano a capire e interpretare meglio questo protagonista del positivismo
Nell’agosto 2018 la corte di Cassazione ha stabilito che il cranio deve rimanere a Torino, ma il comitato ha annunciato di voler portare il caso alle corti internazionali. Una nuova polemica si è aperta a settembre per una mostra fotografica al Museo del Cinema. Anche al di là di questa contesa la figura di Cesare Lombroso dopo 110 anni è ancora molto dibattuta. Considerato prima un genio dai tanti suoi contemporanei, è poi diventato un capro espiatorio della storia e della scienza. Solo di recente il lavoro degli storici ci offre un ritratto più complesso e sfumato di questo simbolo, spesso stereotipato, del positivismo. Senza per questo riabilitarne le teorie screditate, ma restituendole al proprio contesto ed evidenziandone l’impatto sul pensiero, fino ai giorni nostri.
Eureka (?)
Cesare Lombroso, nato nel 1835 da una famiglia ebrea di Verona, studiò medicina all’università di Pavia laureandosi nel 1858 con una tesi sul cretinismo. Comincia la sua carriera l’anno successivo, come medico militare, durante la seconda guerra di indipendenza. I suoi anni nell’esercito lo porteranno in Calabria, durante la repressione del cosiddetto brigantaggio. Lombroso in quel periodo era già interessato al crimine, e aveva cominciato la sua attività di collezionista e catalogatore di reperti. Come medico stava anche studiando la pellagra, una malattia che credeva causata da un avvelenamento (es. muffe), invece che da una carenza alimentare (uso quasi esclusivo del mais come alimento). Teoria sbagliata, ma che gli diede un certo prestigio. Nel 1864, quando è docente a Pavia, pubblica Genio e follia, dove sostiene che i due estremi siano facce della stessa medaglia, entrambe sono deviazioni dalla normalità, causate da anomalie organiche. La svolta, se così si può chiamare, per la criminologia arrivò nel 1871 con una comunicazione di Lombroso al Reale istituto lombardo di scienze e lettere intitolata Esistenza di una fossa occipitale mediana nel cranio di un delinquente.
Lombroso, a quel tempo al manicomio di Pesaro, raccontò di aver esaminato il cranio del brigante Giuseppe Villella, col quale aveva anche parlato, e aver scoperto una serie di anomalie. Il cranio, secondo Lombroso, presentava tratti primitivi, riconducibili a specie e razze inferiori. In realtà Villella era morto nel 1864, non ci sono prove che ci abbia mai parlato e sicuramente non fece lui l’autopsia, come raccontò in seguito in varie sedi. Secondo l’antropologa Maria Teresa Milicia, ci sono dubbi anche sul fatto che quel cranio fosse di Villella (che, per la cronaca, era un pastore che aveva rubato del cibo) visto che sul cranio e sull’atto di morte ci sono date diverse. Da questo singolare momento eureka Lombroso formulò la sua teoria dell’atavismo. Il comportamento criminale è, in gran parte, biologico. L’uomo delinquente possiede caratteristiche anatomiche che li avvicinano più al mondo animale che a quello umano (ovviamente bianco). Infatti nello stesso anno scrisse anche L’uomo bianco e l’uomo di colore, dove citò nuovamente Villella.
Scienza, politica e carceri
La teoria di Lombroso non nasce dal nulla. Molte altre dottrine pseudoscientifiche erano allora mainstream, in particolare la fisiognomica (risale addirittura ad Aristotele) e la frenologia (dal ‘700). Il razzismo scientifico, che nasce con l’espansione coloniale, era anch’esso accademia. Il minimo comun denominataore è il determinismo biologico, secondo il quale il comportamento è innato. Lombroso riteneva quindi di poter identificare nella popolazione un tipo criminale, cioè un insieme di caratteristiche che definivano un criminale nato. Utilizzò per i suoi scopi anche il darwinismo, tuttavia al tempo il pensiero di Darwin in Italia era ancora ben poco compreso e Lombroso lo citò a proprio supporto più che usarlo per sviluppare la propria teorie.
Ottenuta la cattedra di medicina legale a Torino, dove trasferì la collezione che poi formerà il museo, Lombroso pubblica le sue teorie nel libro L’uomo delinquente (1876), un’opera che continuò a rifinire nelle successive quattro edizioni. Le sue idee, in quel contesto storico, sembravano sensate non solo punto di vista naturalistico, ma anche politico. L’antropologa Dina Siegel in The Cesare Lombroso Handbook (2013) nota che Lombroso scriveva dopo l’Unità d’Italia, quindi era stato esposto agli stereotipi sul nord e sul sud e sulle loro popolazioni. Tuttavia anche il pensiero di Lombroso è stato a sua volta molto stereotipato e decontestualizzato. Se l’atavismo di Lombroso era scientificamente ridicolo per i nostri standard, non si può liquidare allo stesso modo l’ambizione dell’epoca di studiare il crimine in modo materialista invece che metafisico, collezionando, catalogando e misurando non solo i corpi, ma anche la cultura e i comportamento dei criminali (veri o presunti).
Per questo la scuola di criminologia inaugurata da Lombroso è stata così influente. Pur non essendo stato il primo a cercare di rendere scientifica la criminologia, il suo sforzo multidisciplinare era all’epoca innovativo, anche se condotto con strumenti inappropriati e guidati da un’intuizione che cercava ossessivamente di dimostrare. Avendo portato dentro la criminologia il dibattito natura contro cultura ne ha anche esplorato le conseguenze dal punto di vista penale. Se, come riteneva, esisteva una predisposizione al crimine biologica più o meno accentuata, allora le pene dovevano essere adeguate al criminale, più che al crimine commesso. Da una parte, riteneva che i più volenti dovessero essere isolati o giustiziati per difesa della società, ma per altri tipi di criminale caldeggiò condizioni più umane e pene alternative al carcere, di fatto dei luoghi di tortura. Eppure queste opinioni (parzialmente) progressiste creano un nuovo paradosso secondo la storica Mary Gibson, tra i maggiori esperti di Lombroso. Se così com’erano le prigioni, assieme ai manicomi, erano state i suoi laboratori per definire il tipo il criminale, come poteva chiedere riforme così radicali senza riconoscere che la sua base dati, il suo campione, poteva non essere attendibile?
L’eredità di Lombroso
Ciò che ci distanzia di più da Lombroso oggi forse non è tanto il fatto che l’atavismo sia stato screditato, ma l’associazione del suo nome all’eugenetica. Lombroso non aveva mai invocato misure eugenetiche per sopprimere il crimine, come la sterilizzazione dei detenuti. Nella sua opinione la società doveva difendersi da certi individui, non impedire che questi si riproducessero e trasmettessero una componente ereditaria del crimine. Nel tempo aveva anche ridimensionato il ruolo dell’atavismo nella propensione al crimine. Ma è un fatto che dopo la sua morte, in alcuni paesi (Stati Uniti, Germania nazista) il suo lavoro e quello di altri scienziati (Darwin incluso) è stato usato per giustificare programmi eugenetici, anche applicati alla criminalità. Falso invece che abbia avuto un ruolo nella dottrina fascista: era ebreo. Nel 1938 la rivista La difesa della razza indicava Lombroso, Marx e Freud come “gli assertori della materialistica cultura giudaica del secolo XIX”.
La presa di distanza dalle teorie di Lombroso non ha impedito però di continuare a studiare il crimine anche da un punto di vista biologico. Esistono per esempio discipline come la neurocriminologia e biocriminologia. Sono campi a loro estremamente controversi: i critici, ragion veduta, puntano il dito verso i danni compiuti dal determinismo biologico; per i sostenitori si tratta di ampliare la criminologia, anche grazie a strumenti prima impensabili, e sostengono di essere ben lontani dalle grezze categorizzazioni del passato. Tuttavia, notano i criminologi Simon A. Cole Michael e C. Campbell: “I biocriminologi contemporanei che abbiano letto la storia dovrebbero sapere, come Lombroso stesso, che se scelgono di produrre conoscenza devono aspettarsi ben poco controllo sugli usi e le policy risultanti, che retoricamente invocano quella conoscenza come giustificazione“.
A questo proposito si possono ricordare anche i tentativi di alcuni imprenditori e informatici di identificare i criminali non più con la misura del cranio, ma con l’onnipresente intelligenza artificiale applicata al riconoscimento facciale. Un approccio immediatamente identificato come pseudoscientifico, pericoloso, e decisamente Lombrosiano, ma di cui purtroppo si sentirà ancora parlare.
Il ruolo del Museo Cesare Lombroso
Buona parte della nuova storiografia su Cesare Lombroso, compreso The Cesare Lombroso Handbook qui citato, è frutto di un rinnovato interesse sullo scienziato che deve molto al rinnovamento del Museo omonimo a Torino. Supportando il comitato No Lombroso, Beppe Grillo ne scrisse nel 2010 paragonandolo a un museo dedicato all’ideologo nazista Alfred Rosenberg. La reductio ad hitlerum è efficace, ma non ha basi. Il museo non celebra la pseudoscienza di Lombroso, ma la racconta e ne spiega l’inconsistenza. Allo stesso tempo racconta gli altri aspetti dello studioso, collocandolo nel contesto storico e filosofico che gli appartiene, il positivismo. Non un monumento, ma un museo di storia della scienza e della società. Allo stesso tempo il museo è luogo di ricerca. Nel 2018 sono state pubblicate on line 2650 delle sue lettere, professionali e private. Un lavoro immenso catalogazione, digitalizzazione e trascrizione del Progetto Lombroso (Università di Torino) che offre una finestra inedita sul positivismo e sulla mente complessa e contraddittoria di uno dei suoi protagonisti. Un materialista scettico che credeva agli spiriti, un socialista che col suo lavoro trincerava le classi sociali, un razzista che riconobbe il rischio dell’antisemitismo. Vista la missione del museo, sembra quindi ragionevole che, come il corpo dello stesso Lombroso, vi appartenga anche il cranio di Villella.
A questo proposito, quando la Cassazione ad agosto ha respinto il ricorso sul reperto conteso tra il museo e il comitato No Lombroso, ha riconosciuto le motivazioni della precedente sentenza di Appello. Secondo quest’ultima prevaleva l’interesse culturale e scientifico del reperto, quindi la detenzione era legittima. A questo proposito specificava “si può dunque negare la validità di una teoria scientifica, ma non la sua esistenza e l’interesse generale a conoscerne gli aspetti”.
FONTE