I cliché e le consuetudini da superare per “svecchiare” il nostro modo di coltivare piante e fiori in chiave più ecologica, nel mese della rinascita.
La consapevolezza ecologica degli ultimi anni, ma anche le risorse sempre più limitate, stanno portando i pollici verdi a una maggiore apertura verso la natura e i suoi meccanismi. I giardinieri più bravi agiscono con occhi da artista, mente da ecologo e molta empatia verso gli altri esseri viventi. Sappiamo che fare giardinaggio non è un semplice esercizio di decorazione, ma un primo passo di avvicinamento alla natura. In questo mese di rinascita, dunque, sfatiamo alcuni luoghi comuni per “svecchiare” il nostro modo di fare giardinaggio in chiave più sostenibile.
Elimino i sottovasi, così non proliferano le zanzare? No
Se il tam tam dell’eliminare i sottovasi per evitare la proliferazione di zanzare ci ha convinto, facciamo un passo indietro perché questo diktat è figlio di un ragionamento semplicistico che non tiene conto delle esigenze delle piante. Il vero problema sono i ristagni permanenti, dunque togliamo di mezzo ogni contenitore vuoto dimenticato in balcone (bottiglie e bicchieri delle bibite possono diventare un ricettacolo di larve). Quando annaffiamo l’acqua scorre velocemente attraverso il terreno e “scappa” via dai fori di drenaggio, perciò sprechiamo una risorsa preziosa, la pianta non ne trae giovamento e magari litighiamo con i vicini. Lasciamo il sottovaso, invece, perché trattiene la quantità di acqua che può essere riassorbita per capillarità dalla terra nel giro di un’ora, inzuppando bene la zolla e reidratando i tessuti vegetali. È importante, dunque, che il sottovaso “calzi” perfettamente: non dobbiamo sceglierlo troppo grande, superando al massimo di un centimetro il diametro del vaso, così ci basterà bagnare il giusto, senza sprechi e senza ristagni permanenti. Se piove, svuotiamo l’acqua.
Taglio le foglie dei bulbi per farli rifiorire? No
Non bisogna tagliare le foglie a tulipani, narcisi, crochi, iris o altre bulbose appena sfiorite. Il bulbo è la riserva che permette alla pianta di vegetare quando c’è abbondanza di risorse e poi di sopravvivere andando “in letargo”. Se il tubero è la pila della pianta, le foglie sono i suoi pannelli fotovoltaici; le dobbiamo lasciare lavorare per “ricaricare” le batterie. Cominceranno a ingiallire naturalmente dopo aver restituito tutte le energie alla radice e solo a quel punto le potremo eliminare. Tagliamo le foglie solo quando sono completamente secche. I giardinieri piantano i bulbi in mezzo a piante erbacee come nontiscordardimé e viole, così le loro foglie si camuffano tra gli altri colori dopo la fioritura. Teniamo conto che i bulbi possono rifiorire per anni, ma dobbiamo piantarli in terra o in un grande vaso (in esterno), dove si naturalizzano, con corolle più piccole e dall’aria spontanea.
Il terreno ai piedi delle rose e dei pomodori va pulito? Meglio di no.
Siamo abituati a vedere la terra nuda sotto le rose dei giardini condominiali e tra i filari dell’orto. Tenere pulito ogni centimetro di superficie è certamente un esercizio zen, ma fa aumentare l’evaporazione dell’acqua, esponendo le radici a continui sbalzi idrici e costringendoci a irrigare in continuazione. La terra, invece, dovremmo tenerla coperta sotto uno strato di paglia, foglie secche, cippato di legna o altro materiale organico, per proteggerla dal sole e limitare la traspirazione. Questa copertura si chiama pacciamatura naturale, impedisce anche lo sviluppo delle erbacce e protegge le radici dal caldo e dal freddo. L’umidità costante, oltretutto, permette ai microrganismi del suolo di lavorare in continuazione alla demolizione della sostanza organica per trasformarla in humus, concimando. Un terreno fertile, dunque, richiede sempre una copertura naturale.
L’erba di plastica è ecologica perché non va bagnata? No
Si sente dire anche questo, soprattutto dagli addetti alla vendita dei fai-da-te. Anche l’erba sintetica – che di solito ha foglie in polietilene e polipropilene e talvolta una base in gomma di pneumatici riciclata – richiede acqua, come tutti i prodotti provenienti da lavorazioni industriali. La plastica deriva dal petrolio, quindi da carbonio fossile rimesso in circolo, e solo una minima parte di essa viene riciclata. Non è il caso di aggiungerne di nuova, specialmente in un contesto esterno dove va ad accentuare l’inquinamento da microplastiche, che si diffondono facilmente nell’ambiente (lo stesso vale per i pannelli di edera sintetica). Peggio se parliamo del prato misto-sintetico, dove l’erba vera viene fatta crescere in mezzo a fili di plastica, su cui passiamo col tosaerba. Rende davvero di più? Il prato sintetico accumula calore e si scalda (mentre l’erba vera lo disperde) e “sa” di plastica. Forse, specialmente in terrazzo, basterà una stuoia, mentre in giardino potremo optare per della ghiaia, lasciando il suolo libero di respirare.
Le margherite sul prato “fanno disordine”? No
È questione di gusto? Falso. Se il nostro riferimento per il prato perfetto è un green da golf, dobbiamo sapere che quel tappeto verde richiede ettolitri di acqua (fino a 40 litri per metro quadrato a settimana), regolari trattamenti con anticrittogamici contro le macchie da funghi e anche diserbanti per le piantine a foglia larga (motivo per cui, dopo la perdita di Gianluca Vialli, Dino Baggio ha chiesto di far luce sui prodotti usati sui terreni di gioco). In termini attuali, il prato perfetto è quello che si mantiene quasi da solo e basta tagliarlo una volta per stagione. Possiamo attingere alla selezione offerta dalla natura, accogliendo ciò che arriva e poi tosando regolarmente per i primi due anni, in modo da selezionare le specie basse, oppure possiamo interrogare la rete sui “prati alternativi”, che fanno risparmiare fino all’80% di acqua e non vanno tagliati. Il muschio è un nemico del prato? No, perché può diventare un bel tappeto vegetale laddove l’ombra non fa crescere l’erba (sia chiaro, non è il muschio a uccidere l’erba). Ultima raccomandazione sul tema: buttare in discarica l’erba tagliata è quasi un sacrilegio, perché bisogna restituire al terreno quanto gli si toglie in termini di sostanza organica; acquistiamo i tosaerba con la funzione “mulching”, che trita finemente l’erba e la redistribuisce sul prato, proteggendo la terra dall’insolazione.
Acquisto piante già grandi, così guadagno tempo? Non sempre
Non è detto che partendo da piante di grandi dimensioni si guadagni tempo. È vero, c’è il vantaggio di una resa estetica immediata (pronto effetto), a fronte di un esborso ben maggiore, ed esiste persino una tecnica chiamata zollatura che permette di preparare al trapianto gli alberi adulti, attraverso ripetute potature delle radici. Tuttavia, se non abbiamo esigenze di “rappresentanza” immediate, ricordiamoci che le piante giovani (parliamo di alberi di 1-2 metri di altezza) patiscono poco il travaso, attecchiscono subito e soprattutto crescono velocemente, recuperando in fretta lo svantaggio. Quelle già grandi, viceversa, risentono molto di più del trapianto, richiedono più attenzioni per superare il trauma e restano “imbalsamate” per qualche anno prima di riprendere a crescere normalmente. In sintesi, le piante giovani ci fanno risparmiare soldi, fatica e acqua e in tre o quattro anni raggiungono dimensioni ragguardevoli. Ricordiamoci che un albero e un arbusto vanno accuditi regolarmente per i primi cinque anni dopo la messa a dimora, annaffiandoli nei periodi di siccità prolungata. Il periodo migliore per piantarli, in ambiente mediterraneo, non è la primavera, bensì l’autunno, perché daremo all’esemplare il tempo di sviluppare le radici prima del caldo estivo.
Scavo una buca profonda, così la pianta attecchisce meglio? Falso
Fissiamoci in mente l’immagine di re e artisti quando piantano un albero a favore di telecamere, con una bella montagnola di terra intorno al fusto: è quello che non dobbiamo fare noi. Le radici delle piante devono respirare o, come dicono i bravi giardinieri, “devono sentire le campane”. Inoltre, il loro colletto, cioè il punto di passaggio tra le radici e il fusto, deve stare a filo di terra, altrimenti rischia di ammalarsi. Vale per gli alberi, ma anche per molte piante erbacee da fioriera. Mai piantare troppo in profondità: smuoviamo a fondo il terreno, ma poi manteniamo le radici allo stesso livello in cui sono cresciute. Fanno eccezione a questa regola i pomodori e altri ortaggi che vanno “rincalzati”.
Scelgo lavanda e rosmarino perché resistono alla siccità? Dipende
Lavande, rosmarini, elicrisi e altri arbusti aromatici, ma anche le specie da “giardino secco” resistono all’asciutto se coltivati in piena terra e ben acclimatati, ma soffrono nelle cassettine di plastica sotto il sole cocente, per due motivi. Le piante appena acquistate provengono da serre dove ricevono l’acqua tutti i giorni, perciò il passaggio al secco dovrà avvenire gradualmente (anche le piante vanno “abituate” pian piano alle nuove condizioni). Le specie mediterranee vanno a riposo quando fa molto caldo e non piove grazie a un meccanismo di letargo estivo; a tale “estivazione” arrivano progressivamente, non dall’oggi al domani. Per farle vivere bene in balcone serve un vaso di 50 centimetri di diametro riempito con un terriccio argilloso (almeno il 60% della miscela), perché l’argilla aiuta a mantenere l’umidità. Questo, tuttavia, non significa che ci potremo dimenticare di loro, perché gli esemplari in vaso sono dipendenti dalle nostre cure.
Con l’impianto a goccia annaffio poco è spesso? Non sempre
È vero per le piante in vaso, dove basta bagnare la poca terra del contenitore, senza sprecare più acqua. È verissimo nelle serre tecnologiche di ortaggi, dove bastano poche gocce vicino alle radici per tenere in vita la pianta. È invece sbagliato bagnare poco e spesso nell’ottica di un giardino sostenibile che punti ad avere alberi e cespugli indipendenti dalle nostre cure e dall’irrigazione automatica (requisito fondamentale, per esempio, nei giardini delle seconde case). Per perseguire questo obbiettivo, gli impianti di irrigazione sono pensati come “soccorso” per accompagnare le piante nei primi anni di vita e durante i momenti di maggiore bisogno. In tal caso, dobbiamo programmare l’impianto per annaffiature molto abbondanti ma diradate nel tempo, per esempio una volta a settimana, in modo da bagnare bene e stimolare le radici a andarsi a cercare l’umidità in profondità. Bagnando poco, al contrario, le radici restano in superficie nell’area dove cade la goccia, rimanendo dipendenti dall’impianto. È il motivo per cui la scorsa estate tante piante grandi non ce l’hanno fatta da sole quando è mancata l’irrigazione.
Piante e buoi dei paesi tuoi? Non sempre
La frequente raccomandazione a un maggiore utilizzo delle specie autoctone nel verde pubblico non si può traslare in toto su un terrazzo e non è detto che sarebbe la scelta più ecologica. È molto difficile coltivare un balcone al sole nelle condizioni impossibili di una città con soltanto specie autoctone se ci aspettiamo verde e fiori, perché dovremmo quantomeno accontentarci di un effetto “secco” per molti mesi l’anno. L’erbavoglio non esiste, per cui possiamo fare questa scelta, che è già un’ottima conquista in termini ecologici. Tra i due estremi “tutto autoctono” e “tutto esotico”, esistono parecchie vie di mezzo. Potremmo per esempio decidere di mescolare qualche arbusto mediterraneo come fillirea e lentisco con specie non autoctone ma molto performanti dal punto di vista della resistenza alle condizioni climatiche, tenendo conto che il verde incoraggia la biodiversità urbana e migliora il microclima e il benessere. Basta guardarci intorno, andando a pescare tra le varietà che fanno già parte dei nostri paesaggi urbani.
In funzione del clima che cambia, per esempio, un nespolo giapponese o un rincospermo vivono molto meglio in vaso del pallon di maggio, mentre tulbaghia, garofani e piccole agavi possono mescolarsi egregiamente a erigeron e valeriane rosse per la felicità delle api. Se poi subentra il senso di colpa per i fiori, possiamo compensare le risorse richieste dal balcone con una doccia più breve (si risparmiano in media 16 litri al minuto), con una t-shirt in meno l’anno (servono 2.700 litri di acqua per farne una) o eliminando un hamburger dal menù (per produrne uno da 150 grammi sono necessari fino a 2.500 litri d’acqua secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente). Un ottimo esercizio per abituarci a ragionare in termini di impronta idrica.