Sulla fisiologica lubrificazione della cornea si sono cimentati antropologi e biologi, ma anche psicologi e psichiatri, studiosi di anatomia e di fisiologia. Uno studio italiano affronta il tema
NON IL CANE né il gatto, e nemmeno i nostri parenti più stretti, come oranghi e scimpanzé, ricorrono alle lacrime nel pianto. Un comportamento pressoché unico nell’intero regno animale, descritto da una stupefatta Dian Fossey in una singola ed eccezionale occasione anche in una giovane gorilla costretta alla cattività. Da Darwin in poi, la natura del pianto umano ha stregato intere generazioni di ricercatori. La fisiologica lubrificazione della cornea ha assunto nella nostra specie una profonda valenza emotiva, sulla cui spiegazione si sono cimentati antropologi e biologi, ma anche psicologi e psichiatri, studiosi di anatomia e di fisiologia. Tra loro vi è Carlo Bellieni, neonatologo dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, che da vent’anni studia il dolore nel bambino e ha pubblicato in New Ideas in Psychology un’imponente revisione della letteratura di settore.
«Nella lingua inglese esistono due verbi distinti per l’atto del piangere: crying e weeping», premette Bellieni. Il primo descrive l’espressione di dolore acuto o di rabbia, l’urlo che ci sfugge quando cerchiamo di appendere un quadro al muro e invece finiamo per centrare il dito con il martello. Diverso è il weeping, il pianto con le lacrime, capace di coinvolgere empaticamente chi ci è accanto tramite l’attivazione dei neuroni specchio e di trasmettere un messaggio di richiesta di aiuto immediatamente decifrabile. Uno stimolo non verbale estremamente potente, piazzato in quell’organo di senso che non a caso è definito lo specchio dell’anima. Ma non solo. «Analisi acustiche hanno rivelato che il pianto nasconde un protolinguaggio; oltre una certa soglia di dolore, si attiva il sistema simpatico che tende le corde vocali. Il lamento del neonato diventa costante e acuto, ma soprattutto ritmico: è il cosiddetto pianto a sirena», prosegue Bellieni. La regolarità del fenomeno è scandita da alcune centrali neuronali simili a quelle che regolano la respirazione o la motricità, promuovendo il rilassamento muscolare.
In altre parole, il proverbiale “pianto liberatorio” è a tutti gli effetti un meccanismo di autosollievo, e in quanto tale potrebbe giustificare anche la secrezione delle lacrime, un processo la cui funzione è tuttora sfuggente. Le teorie fisiologiche a riguardo sono infatti numerose, nessuna delle quali pienamente convincente. Alcuni ricercatori suggeriscono che lo schiacciamento del sacco lacrimale sia una semplice conseguenza della contrazione dei muscoli facciali, altri sposano l’idea che si tratti di un meccanismo per espellere le sostanze tossiche, altri ancora lo ritengono fondamentale per umettare le mucose di naso e faringe. Di certo, «al pari di una seduta di massaggi o di una doccia calda, lo scorrere delle lacrime sulla cute del volto innesca il rilascio di endorfine. Il pianto non è una forma di rifugio per i deboli, ma una forma raffinata di antistress. Ecco perché vi ricorriamo anche quando siamo soli», prosegue Bellieni. Numerosi studi ne hanno dimostrato l’efficacia nello stabilizzare l’umore e non a caso teorie come la psicodinamica ne sostengono i benefici, sconsigliando la repressione.
Questo approccio potrebbe inoltre contribuire a spiegare perché l’uomo pianga meno frequentemente della donna. Ormoni e modelli culturali hanno certamente il loro peso, tuttavia è innegabile che, sopratutto nel passato, il volto dell’uomo fosse meno sensibile alle lacrime perché coperto dalla barba e indurito da una maggiore esposizione solare. «Il ragionamento si può estendere anche ai neonati, nei quali le lacrime compaiono a partire dal terzo mese di vita: trascorrendo buona parte del tempo a diretto contatto con la madre o in posizione orizzontale, esse non avrebbero alcuna utilità nei primi mesi», riflette Bellieni. È meno chiaro perché la stessa reazione si accompagni alla risata o a momenti particolarmente felici come la vittoria di una medaglia o la nascita di un figlio. «Forse perché ogni gioia contiene un dispiacere, cioè il presagio della fine imminente dell’evento lieto. Ma al momento si tratta di speculazioni », avverte il neonatologo.