In questo testo ho condensato alcune mie meditazioni degli ultimi mesi. Il suo obiettivo è focalizzare l’attenzione del lettore sul concetto di “appartenenza” e sulla sua negazione a gran parte dell’umanità. Cerca di indagarne alcune cause, per poi focalizzarsi sulla mia esperienza personale, nella vita “reale” e in quella “virtuale”, proiezione nella letteratura e nel mondo videoludico. Scriverlo mi ha aiutato a centrare un argomento principale intorno al quale svilupperò la versione definitiva de “I racconti di Bron ElGram” e caratterizzerò ulteriormente la nostra “Gilda degli Esploratori Erranti”.
Ovunque è scritto e ripetuto che l’essere umano è un “animale sociale“.
Che l’uomo, per esistere, per autodeterminarsi, cerca di “appartenere” e, se possibile, di “contare” (ovvero di essere importante e autorevole). Appartenere a una famiglia, appartenere a una comunità, appartenere a un popolo o a una nazione, appartenere a una fede… appartenere per il desiderio e la necessità di essere in relazione, di essere interdipendente. “Appartenere” indica e integra l’identità. In buona sostanza, per la maggior parte delle fonti, indica la stessa esistenza.
In un testo letto tempo fa, un francescano di Avellino -Pietro Urcioli- definisce il “senso di appartenenza un sentimento di fondamentale importanza nella nostra vita quotidiana, un legame che si instaura tra individui coscienti di avere in comune una medesima matrice culturale, intellettuale, sociale, professionale, religiosa”.
Da più parti si evidenzia poi che il tempo in cui viviamo è un tempo di disgregazione, di ribaltamento culturale e valoriale, di assenza di relazioni. E si focalizza l’attenzione sulla problematica della progenie di “senza casta”, di persone che non appartengono a niente e a nessuno, che vengono escluse ed emarginate, che non contano nulla: le persone sole, le persone anziane, le persone disabili, le persone di altre razze o religioni, i bambini delle periferie, le famiglie che perdono lavoro, casa, e tutti coloro che non possono più curarsi, coloro che subiscono violenza, chi è costretto a lasciare la propria casa, i propri affetti, la propria terra, chi vive in strada, chi scompare nel nulla…
L’impegno di una parte di chi affronta queste realtà è quello di generare appartenenza fra gli esclusi, includendo chi si trova “fuori le mura”, con la capacità (laica, religiosa o spirituale) di credere che il benessere può appartenere a tutti, soprattutto a coloro che appaiono inutili o vulnerabili.
Altri sono invece caratterizzati da un senso di appartenenza troppo marcato, che può comportare effetti deleteri. In questi casi il gruppo si chiude in se stesso separandosi dal suo naturale contesto; finisce col prendere piede una logica di divisione di tipo “dentro/fuori” per la quale gli estranei vengono visti come diversi. È appena il caso di rilevare che questa è la stessa logica che ispira i settarismi, i fondamentalismi e i nazionalismi intolleranti.
Per rinnovarsi e rinnovare – conclude Urcioli nel suo testo – bisogna essere eretici. Per essere eretici bisogna essere liberi. E per essere liberi bisogna restare ai margini. (FONTE)
Una prima riflessione sulla questione ha focalizzato i miei pensieri sul perché cerco da sempre una posizione “eccentrica”, in cui l’appartenenza non è a una ideologia o a un partito o a un contesto sociale autoreferenziale, bensì attenta a conservare la propria indipendenza di azione e di pensiero, per mantenere integra (il più possibile) la propria obiettività di giudizio.
Ne ho concluso la riconferma di un modo di essere che mi caratterizza profondamente e nel quale mi rispecchio consapevolmente. Certo probabilmente questo non mi garantirà mai la partecipazione alla gestione della “catena del potere” (obiettivo che non occupa sicuramente un posto sul podio delle mie ambizioni), ma continuerà a garantirmi un’attenzione profonda e sincera a chiunque si metta in relazione con me, a prescindere da “quanto conta socialmente”. Con il verosimile arricchimento esperienziale di entrambi i soggetti coinvolti (“esplorare, conoscere, sapere, comprendere”… questi sì che sono obiettivi sul podio delle mie ambizioni personali 😉).
Poi però l’analisi è andata oltre. Le meditazioni sono proseguite alla ricerca delle radici di questo modo di essere. E, scavato, ho trovato un profondo senso “di non appartenenza”, per certi versi simile, ma solo tangenziale a quello dei “senza casta” sopra descritti.
Il pensiero si è focalizzato disegnando un nuovo ex libris con il quale decorare i futuri volumi della mia biblioteca. Per celebrare i 30 anni di emancipazione dalla mia famiglia natia ho infatti deciso di rinnovare la grafica di quello che disegnai a 17 anni e, definiti i simboli, mi sono soffermato sul motto.
Adolescente scelsi “UIUSQUE FABER IPSIUS FORTUNAE” (ognuno è artefice del proprio destino), a significare la mia volontà di indipendenza e autodeterminazione.
Nella maturità i motti che più ripeto sono “NUMQUAM QUIESCERE” (mai fermarsi) e “NON ESISTE IL BENE O IL MALE, SOLO DECISIONI E CONSEGUENZE”. Il primo, di latina memoria, evidenzia la volontà di non farsi abbattere dai problemi che ci ostacolano e dal non soffermarsi su visioni parziali dei problemi, ma di proseguire il proprio cammino, certi che il tempo chiarisce, risolve e cura tante situazioni e offre tante nuove impensate possibilità. Il secondo, invece, era presente sulla retro-copertina del CD del primo episodio (2007) della saga “THE WITCHER” e lo ritroviamo, rielaborato ma con il sostanziale significato, nella saga “ASSASSIN’S CREED”.
I brocardi e le storie dei protagonisti delle due saghe videoludiche evidenziano un profondo senso di non appartenenza al loro contesto esistenziale e una intensa coscienza della relatività di ogni situazione, valore, principio o strumento. In un’ottica la cui origine si trova certamente nel pensiero della fazione duale/manichea della nostra “cultura occidentale”, ma che la trascende e oltrepassa.
Ampliando l’analisi ho poi trovato conferma di questi pensieri nei tanti altri personaggi letterari, cinematografici e videoludici che hanno attirato le mie simpatie nel tempo: ranger/bardi/druidi in “D&D”, il mio esercito di mercenari ed elfi silvani in “Warhammer Fantasy”, Aragorn nel “Signore degli Anelli”, Dandelion e lo strigo in “The Witcher”, Connor/Adewale/Edward/Shay nella seconda serie di “Assassin’s Creed” e ora Alexios/Kassandra nella terza, Nathan Drake in “Uncharted”, Rost/Sylens in “Horizon Zero Dawn”, Joel in “The last of us”, Arthur Morgan/Jonn Marston in “Red Dead Redemption”, Boba Fett/Jango Fett/The Mandolarian in Star Wars e, per certi aspetti, anche Lara Croft, Han Solo e Kratos di “God of war”, etc.
Nell’arte, in ogni sua forma, rispecchiamo e ricerchiamo noi stessi. Per comprendere aspetti oscuri della nostra personalità e per trovare la nostra dimensione nell’universo. I personaggi sopra elencati sono tutti alla ricerca della propria autodeterminazione. Con se stessi e nella società. Alcuni scavando nel passato, altri costruendo il futuro. Narrazioni nelle quali, come centinaia di milioni di altri fan in tutto il pianeta, io mi identifico.
Ma chi sono “io”? Un favorito dalla sorte. Per quanto sudore, lacrime e sangue possa aver versato nel mio quasi mezzo secolo di esistenza, per quanti sacrifici e sforzi e dolori e umiliazioni abbia dovuto sopportare e ancora ne dovrò in futuro… sono nato in uno dei più belli e ricchi luoghi del pianeta, sano e in un ambiente comunque benestante, relativamente tollerante e culturalmente vivace. Qui, nella regione del pianeta chiamata”Alpi Mediterranee”, la nostra generazione può (forse) affermare di essere stata l’ultima a godere di buona parte del “boom economico” conseguente alla ricostruzione post-bellica. Infatti, pur senza poter verosimilmente ambire ai risultati eccezionali raggiunti da alcuni nostri nonni e genitori, sino ad oggi sono stati veramente pochi i limiti oggettivamente insuperabili che non ci hanno permesso di inseguire i nostri sogni e perseguire i nostri obiettivi. Possibilità negata, oggi, a oltre l’80% della popolazione umana residente nelle altre regioni del pianeta e chissà domani a quante persone anche qui!
Il prezzo di queste immense opportunità in potenza e in atto, però, si paga (anche) con il “senso di non appartenenza” di cui sopra. Viviamo in una “terra di mezzo”, un campo di battaglia tra forze contrapposte. Ognuna importante, ma nessuna a sufficienza per sovrastare le altre. E ciò porta a equilibri precari fortemente instabili. A favore, ma anche per la disperazione, della maggior parte dei residenti.
Solo pochi soggetti sono ormai profondamente legati a una singola cultura espressione di una specifica comunità. Tutti gli altri sono immigrati o ibridati. “Raminghi” che vagano nel territorio per bisogno o interesse, accolti per tornaconto politico o utilità in gruppi che col tempo, cambiata la situazione contingente, non avranno alcun rimpianto o rimorso nell’escluderli o persino nel combatterli o perseguitarli. Salvo, evolutesi ulteriormente le dinamiche sociali, riabbracciarli come fratelli. In cammino su una spirale senza fine che può essere la tua fortuna o la tua maledizione, in base alla direzione in cui la percorri.
La mia è la storia del figlio di un italiano della Magna Grecia ionica migrato al nord e sposatosi con una francese savoiarda di seconda generazione, in terre italiane protestanti valdesi. Per i francesi, italiano. Per gli italiani, francese. Per i cattolici, valdese. Per i valdesi, cattolico. Per gli oriundi, “fieul del tarun“. Per gli immigrati, “figghju della muntàgnina barotta“. Senza considerare le sottodivisioni regionali e locali che imperano nei sottogruppi: tra calabresi e pugliesi, tra lucani e tarantini, tra comunità campanilistiche di valli adiacenti (es. occitane e valdesi), tra provincia di Torino e Cuneo, tra la pianura dell’agricoltura intensiva e la montagna dedita a orticoltura, silvicultura e pastorizia. Tra la realtà dei paesi di provincia e quella delle città metropolitane.
Come affermavo sopra, la complessità di questo ecosistema è la sua fortuna e il suo limite: non permette a nessuna cultura locale di imporsi come dominante su tutto il territorio, a favore delle libertà e delle possibilità individuali. Ma parallelamente le profonde lacerazioni non permettono le sinergie necessarie per concretizzare progetti su larga scala ne di creare una cultura omogenea diffusa. Anche se, ben guardando, l’omogenizzazione avviene. Basta ricordare che vent’anni fa per acquistare un po’ di sidro dovevo sconfinare a Briançon, ricordandomi prima di cambiare le lire in franchi e di controllare la validità della carta d’identità da mostrare alla frontiera. Ora abbiamo la moneta unica, non vi sono più controlli alla frontiera e vado a Briançon solo più per il piacere di farlo… perché il sidro lo posso acquistare al supermercato della catena francese sotto casa! Le sottoculture locali si stanno amalgamando, ma il processo ha bisogno dei suoi tempi. Tempi lunghi che stridono con quanto corre la società contemporanea. Oggi tutto cambia così rapidamente: non hai il tempo di far attecchire le radici che dovresti già produrre i tuoi frutti e farli maturare. Subisci troppe pressioni da ogni parte. Ed è praticamente impossibile adattarsi concretamente e solidamente a questa realtà perennamene mutevole!
Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri, altri mulini. (Proverbio Cinese)
In un primo momento ho creduto che la problematica fosse endemica della mia terra natia, allora ho cercato un po’ di equilibrio altrove e per oltre dieci anni ho vagato in diverse altre regioni del Vecchio Continente. Ma ho poi compreso che ero solo giovane e che vi è tanta verità nel detto popolare “tutto il mondo è paese”: cambiano i nomi, le situazioni, le soluzioni adottate… ma le problematiche sono connaturate alla psicologia umana e si ripropongono ognidove.
Ho quindi stabilizzato residenza e attività lavorativa. Ho consolidato il rapporto di coppia con una donna con la quale condivido molte esperienze e visioni dell’esistenza. Mi sono adoperato per creare una comunità di raminghi, la Gilda degli Esploratori Erranti, nella quale diluire il senso di non appartenenza. E, infine, ho maturato una filosofia di vita a metà strada, tanto per rimanere in tema ludico, tra gli allineamenti Neutrale Buono e Caotico Buono delle vecchie edizioni di Dungeons & Dragons.
Un druido – bardo – ranger che segue la propria coscienza orientata a ciò che considera “bene” ma è insofferente a leggi imposte arbitrariamente e al giudizio sociale. Ricordo una descrizione dell’allineamento Neutrale Buono letto su un vecchio manuale che recitava (più o meno): “Come un druido che aiuta il conte locale a difendere il villaggio dagli attacchi degli orchi ma che non ci pensa due volte a schierarsi con questi ultimi quando, tronfi del successo, i soldati devastano l’accampamento orchesco per sollazzo“.
Neutrale Buono (NB): il Benefattore, fa sempre del suo meglio per aiutare gli altri nei limiti delle sue possibilità. Si sente meglio nel prestare aiuto ai bisognosi, lavora volentieri con regnanti e tutori dell’ordine, ma non sente alcun legame verso di loro. È in realtà il personaggio dominato maggiormente dal “bene incondizionato” poiché il suo istinto di fare del bene difficilmente verrà ostacolato da alcunché.
Caotico Buono (CB): il Ribelle, segue solo la propria coscienza benevola, senza preoccuparsi di ciò che si aspettano gli altri da lui, anche se ciò comporta l’infrangere una o più leggi che a lui sembrano ingiuste. Segue la vita del fuorilegge, ma riesce comunque ad essere gentile e ben disposto. Odia quando qualcuno intimorisce o vuole imporre le proprie regole agli altri. È un anarchico votato al bene, il Robin Hood del gioco. FONTE
Proseguiamo, quindi, su questa via: «Mai fermarsi!», consapevoli che «Non esiste il bene o il male, solo decisioni e conseguenze». Sono certo che ci porterà fortuna.