ANTEPRIMA/CON «TERRE SELVAGGE» (RIZZOLI) UN CONFLITTO LONTANO TRASFORMATO IN UNA NARRAZIONE EPICA
Il sogno dei Cimbri nel far west di Vassalli
Lo scrittore dà voce a un popolo dimenticato, sconfitto in Piemonte duemila anni fa
Forse nessuno in Italia, meglio di Sebastiano Vassalli, conosce l’arte del raccontare. Il dominio della, anzi sulla narrazione di Grandi Storie è la sua qualità straordinaria. Gli si dà in mano una vicenda minima, un personaggio e lui li trasforma, come per magia, in una Grande Storia. La capacità di trasformare il minuscolo, l’apparentemente insignificante in una vicenda italiana esemplare è il suo talento, che si nutre della dedizione umile dell’artigiano.
Lo sa bene chi ha letto, negli ultimi trent’anni, romanzi come La notte della cometa, L’oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Le due chiese. Non staremo ad approfondire come Vassalli sia riuscito ad arrivare a tutto ciò partendo dagli esordi neosperimentali, che certo agiscono ancora, quasi impercettibilmente, nella sua prosa.
Il nuovo Terre selvagge, che esce da Rizzoli dopo la lunga fedeltà einaudiana, ne è la prova più clamorosa. Parafrasando un bel verso di Valerio Magrelli, si può dire che Vassalli abita le sue storie come un ricco possidente le sue terre. E dentro quelle storie, come un Virgilio (personaggio di un altro suo romanzo, Un infinito numero), accompagna il suo lettore, prendendolo per mano: lo avverte di continuo dei tranelli, lo accudisce, lo rassicura, lo esorta ad andare avanti e indietro, gli ricorda un particolare o un riferimento che potrebbe sfuggirgli. Ha un enorme rispetto del suo lettore, a volte verrebbe da dire persino troppo, specie quando si preoccupa di segnalare le analogie con l’oggi.
Terre selvagge racconta di un popolo nordico annientato dai Romani nell’anno 652 dalla fondazione di Roma, cioè nel 101 avanti Cristo. È il popolo dei Cimbri, sconfitto in una battaglia campale tra le più feroci che si siano conosciute. Il sottotitolo, Campi Raudii, ci dice quali sono le terre del titolo: siamo nel «far west» della pianura piemontese attraversata dalla Dora, dal Sesia, dal Tanaro e da un tratto di Po. Siamo nella geografia cara a Vassalli, con la sua toponomastica carica di storia, una geografia intessuta di mille vicende sotterranee, quella dentro cui sono vissuti i personaggi memorabili di altri romanzi, primo tra tutti Antonia, la strega di Zardino.
C’è il Monte Rosa che dall’alto osserva le grandi imprese e i fallimenti degli uomini e delle donne che si agitano ai suoi piedi. Come sempre accade in Vassalli, all’inizio c’è una speranza, anzi un’utopia, forse ingenua e pressoché irrealizzabile: il motore della Storia è un sogno, un’illusione individuale o collettiva, forse retaggio di quelle che sono state le grandi battaglie ideali della generazione dello stesso Vassalli. È questo il suo rovello: il disincanto dopo l’incanto. Qui il progetto dei Cimbri, dopo aver percorso l’Europa in lungo e in largo, dal Danubio alla Penisola iberica, è sbaragliare i Romani, compiendo una manovra a tenaglia con gli alleati, i Teutoni e gli Ambroni, e marciare su Roma per distruggerla: non conoscono la paura e hanno una fiducia eccessiva nella propria forza. Hanno sgominato nemici su nemici e non si fermano neanche dopo aver subìto una prima sconfitta in Provenza, grazie all’abilità bellica di Caio Mario.
Il terrore dei Romani rispetto all’avanzata irresistibile dei Cimbri è alleviato proprio dalla presenza dell’«uomo nuovo», il popolarissimo console Mario, idolo delle legioni, cui il Senato ha affidato il destino dell’esercito e in definitiva anche del suo popolo. Era stato quell’uomo piccolo, tarchiato, scuro di capelli a ricostruire le truppe, era stato lui a proporre di arruolare plebei ed ex schiavi per l’emergenza. Il proposito di Vassalli è di «rimetterlo, vivo, nel suo tempo». E rimettergli, vivi, accanto, i suoi fedelissimi e anche il suo antagonista, il luogotenente Lucio Cornelio Silla, preoccupato del crescente consenso di cui gode Mario. È nel loro rapporto che si gioca uno dei motivi che percorrono il romanzo: lo scambio ambiguo tra vero e falso, tra verità e menzogna, tra storia, memoria e leggenda.
L’accampamento dei soldati romani, sempre più affamati, in attesa della prima mossa dei Cimbri, è uno dei molteplici fili della treccia narrativa che Vassalli va incrociando. L’altro fascio è quello che ci restituisce la vita tra i Cimbri, i loro riti, il delirio di onnipotenza che li spinge ad aggredire, i conflitti che dividono la prudenza della vecchia generazione (incarnata dall’anziano capo Agilo, detto l’Orso) e l’impulsività feroce dei più giovani (l’energumeno fiero Boiorige): è qui che incontreremo due meravigliose figure femminili, le sorelle Rhamis e Sigrun, figlie dell’Orso, separate tra loro da una diversa visione della vita, e proiettate verso un destino opposto (quello di Sigrun si incrocerà con storie che stanno al di fuori della claustrofobica tribù cui appartiene).
La narrazione di Vassalli ha un andamento sinuoso, si allarga a grandangolo a considerare da lontano le sorti dell’umanità e si restringe sul particolare che solo una lente macro può cogliere, afferrando i dettagli del costume straniero, di un vestito, di un’arma, di una maschera rituale, di una fortificazione, dei gamberi nei ruscelli, del muso mostruoso dell’esox (il pescecane dei fiumi), di una primula, della coltura del frumento per la placenta (la focaccia dell’epoca), della polvere che si alza sul campo di battaglia, della putredine e dell’afrore che esala dai cadaveri.
Il terzo filo è quello, più immaginativo, che ci porta a Proh, un villaggio da cui i Galli sono in fuga, terrorizzati dalla guerra imminente. Siamo al capitolo primo, dove già si può degustare la trasparenza cristallina della prosa di Vassalli, accesa di contenuto lirismo nelle pagine che si aprono alla natura, al passaggio delle nuvole, al cambiamento dei cieli e delle stagioni: «Era maggio, il mese più bello dell’anno. Era il settimo giorno del mese: le nonae. C’era il sole. C’erano i fiori sugli alberi e nei prati, c’erano, a chiudere l’orizzonte, le grandi montagne: le Alpi, ancora bianche di neve. C’erano gli uccelli che tornavano dai paesi lontani. Su tutto quello che si vedeva, però, e anche su quella parte del paesaggio che rimaneva nascosta dietro le colline coperte di boschi, incombeva l’ombra di una minaccia: così grande, da occupare tutti i pensieri degli uomini e da determinare tutti i loro comportamenti. La gente scappava».
Viene introdotta così la microstoria parallela del giovane fabbro Tasgezio, che con sua madre Lunilla, fiducioso nelle qualità strategiche del comandante Mario, resiste alla paura e decide di restare in casa ad aspettare gli eventi. È lui, in realtà, il protagonista del libro e con lui Vassalli dà il meglio di sé. Specie nelle pagine in cui un cavallino bianco, sacro ai Cimbri, capita dalle sue parti portando auspici propizi. Si aprono nel racconto spiragli di realismo magico e quasi di favola antica, con Tasgezio che vive il suo eremitaggio dal mondo circostante in una sorta di simbiosi idilliaca con la natura, dialogando a suo modo con gli alberi e con gli uccelli: è questa visione panica la sola capace di riscattare i mali della Storia. La resistenza del Monte Rosa guarda beffarda l’agitarsi inutile degli uomini. Tra la geografia e la storia, Vassalli sta dalla parte dei luoghi. E le pagine naturali fanno da controcanto alla durezza del massacro che si va consumando, ricostruito anche con l’aiuto delle fonti antiche (Plutarco, Livio, Tacito), ma soprattutto reso epico e ancora più vero dall’immaginazione dello scrittore.
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