Selvaggi. Il rewilding della terra, dei mari e della vita umana
Rewilding è un termine entrato di recente nel dizionario, nel 2011, rendendosi oggetto di immediate forti contestazioni. Fu considerato nell’accezione di liberare gli animali in cattività per reintrodurli e restituirli alla selvaticità, per poi ampliare la visuale ad interi ecosistemi in grado di preconizzare una piena restaurazione dell’ambiente selvaggio.
Per George Monbiot, – giornalista, scrittore e ambientalista britannico – rewilding è molto di più della semplice «rinaturalizzazione» poichè si basa sull’assioma che la natura non è costituita solo da un insieme di specie, ma dalle sempre mutevoli relazioni tra ciascuna di esse e l’ambiente fisico. Dice Monbiot: «il rewilding riconosce che mantenere un ecosistema in uno stato di sviluppo bloccato, preservandolo come se si trattasse di un barattolo di sottaceti, è proteggere qualcosa che ha ben poco a che fare con il mondo naturale». L’uomo (e gli stessi ambientalisti) hanno sempre pensato di poter gestire la natura come si bada un giardino. Ma la storia del nostro pianeta ci dice che i predatori e i grandi erbivori possono trasformare i luoghi in cui vivono e cambiare non solo l’ecosistema ma la natura del terreno, il comportamento dei fiumi, la chimica degli oceani, la composizione dell’atmosfera. Molti dei nostri alberi e arbusti europei si sono evoluti per resistere, ad esempio, agli attacchi degli elefanti.
Occorre quindi immaginare il rewilding evitando la pulsione di voler controllare la natura. Reintroducendo animali e piante assenti, abbattendo quelle esotiche che non possono essere controllate dalla fauna selvatica, facendo dunque un autentico «passo indietro». Processo essenziale per un rewilding della intera vita umana. Non un distacco dalla civiltà, ma un uso opportuno della tecnologia per beneficiare di una vita più ricca di avventure e sorprese.
Ma rewilding significa anche, e soprattutto, «non avere un obiettivo fisso: non è guidato dai gestori umani ma dai processi naturali, non cerca di controllare i fenomeni naturali e di ricreare un particolare ecosistema o paesaggio ma – dopo avere reintrodotto alcune specie scomparse – di consentirgli di trovare la propria dimensione».
Nel mondo esempi di rewilding iniziano a farsi strada, come nei Carpazi e nel bacino del Danubio, dove il WWF sta contribuendo a proteggere circa un milione di ettari che connettono parchi naturali già esistenti e terre rinaturalizzate in Serbia e Romania. O come in Germania, dove il governo ha promesso di sottoporre a rewilding il due per cento del proprio territorio entro il 2020.
E’ questo il leitmotiv di “Selvaggi. Il rewilding della terra, dei mari e della vita umana», in cui George Monbiot utilizza la narrazione come farebbe uno scrittore di puri romanzi di avventura, annoverando storie di personali scoperte naturali tanto in terra quanto in mare e lungo i fiumi. In un territorio che spazia dall’Africa orientale all’Europa centrale, con grande e partecipata emozione critica per i luoghi delle isole britanniche.
Difficile capire dove il racconto sia aneddoto e dove studio ecologico, biologico, antropologico: si resta ammaliati dalle sue parole che scandiscono immagini e scoperte, recitano pillole di scienza, suggeriscono lenti nuove per la nostra percezione poco allenata a decifrare frammenti di un respiro naturale che non più ci appartiene. Percezione che lo stesso Monbiot ammette di non avere avuto all’avvio dei suoi percorsi di scoperta, fino a rendersi conto di trovarsi a fare qualcosa che aveva già eseguito mille volte, di conoscere già tutto ciò che stava facendo all’interno di quell’ «Io-guscio» che solo nella natura vera l’uomo può riportare a galla, facendo «scivolare via la civiltà, leggera, come un accappatoio». Memorie genetiche trascurate, ma elementi irriducibili della nostra identità.
Nel suo libro Monbiot parla di bambini e di educazione («mi piacerebbe vedere ogni scuola portare i propri allievi, per un pomeriggio alla settimana, a correre nei boschi»), di cambiamento climatico, di agricoltura aggressiva e di coinvolgimento degli agricoltori nelle trasformazioni anche sociali necessarie, di sussidi e di scelte.
E, ovviamente, di lupi che favoriscono la rigenerazione di foreste millenarie e di ghiandaie («ogni ghiandaia può seppellire fino a 4000 ghiande ogni autunno, anche a chilometri di distanza dall’albero madre»), di castori che costruiscono dighe naturali che contribuiscono alla creazione di un habitat perfetto per molte specie animali e una difesa idrogeologica per l’uomo.
Di linci, leopardi, orsi, salmoni, granceole dai gusci inespressivi e somiglianti a gnu d’acqua, bisonti, granchi, cavalli selvatici, rinoceronti neri, balene che possono rilasciare fino a 200 mila tonnellate di carbonio attraverso la respirazione («l’industria baleniera ha spostato oltre cento milioni di tonnellate di carbonio dagli oceani all’atmosfera semplicemente trasformando le balene in olio e in altri prodotti che vengono bruciati o altrimenti ossidati»), di campanule prevaricatrici sulle altre assenze in quanto risparmiate dal sempre più minimo vagare dei cinghiali.
Oggi, anche in Italia, «rinaturalizzare» pare essere diventato il punto cruciale di una nuova presa di coscienza dell’uomo all’interno del proprio contesto ambientale; si parla sempre più spesso di città con tetti verdi, verde verticale, orti urbani, verde fluviale in ambito urbano.
Ovviamente è un tema (un primo tema, diciamo di «approccio») differente dalle suggestioni che Monbiot ci offre, ovvero riportare l’ecosistema ad una situazione “primitiva” o “storica” (che può essere diversa da quella “naturale” o “originale”), ripristinare le comunità storiche (vegetali e animali) di una determinata area, riportare l’ecosistema (con buona approssimazione) alle condizioni in cui si trovava prima che fosse oggetto di una qualsiasi azione di disturbo.
Luoghi e ambienti selvaggi, appunto.
E la domanda cruciale è proprio quella dell’avere il coraggio di porsi la domanda: è questo il nostro miglior mondo possibile oppure dobbiamo e possiamo ricostruire un sistema-ganglio davvero vitale (e non limitarci a conservare ciò che crediamo essere il nostro unico spazio) ?
Monbiot risponderebbe senza indugi. E ora i suoi stimoli sono qui ad interrogare anche i nostri intorpiditi sensi e valori genetici. Senza dimenticarci la nostra intelligenza …