C. G. Jung
Introduzione all’inconscio
L’importanza dei sogni
L’uomo usa la parola parlata o scritta per esprimere il significato di quello che egli vuole comunicare. Il suo linguaggio è pieno di simboli, ma egli spesso fa uso anche di segni o di immagini che non sono descrittivi in senso stretto. Alcuni sono semplici abbreviazioni o successioni di iniziali, come ONU, Unicef, o UNESCO; altri sono familiari marchi di fabbrica, nomi di specialità medicinali, simboli o insegne. Sebbene siano in se stessi privi di significato, essi hanno acquistato un significato riconoscibile attraverso l’uso comune o per un intento convenzionale. Tutti questi non sono simboli. Essi sono segni e non hanno altro compito che quello di denotare gli oggetti a cui sono riferiti.
Ciò che noi chiamiamo simbolo è un termine, un nome, o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale. Esso implica qualcosa di vago, di sconosciuto o di inaccessibile per noi. Per esempio, molti monumenti cretesi sono contraddistinti dal disegno della doppia ascia. Si tratta di un oggetto che ci è familiare ma di cui non conosciamo le implicazioni simboliche. Per fare un altro esempio, prendiamo il caso di quell’indiano che, dopo aver visitato l’Inghilterra, tornato in patria raccontò ai suoi amici che gli Inglesi venerano gli animali dal momento che egli aveva trovato aquile, leoni e buoi nelle vecchie chiese che aveva visitato. Egli non sapeva, né lo sanno molti cristiani, che questi animali simboleggiano gli Evangelisti e derivano dalla visione di Ezechiele e che questa, a sua volta, ha un’analogia con la divinità egiziana del sole, Horus, e i suoi quattro figli. Ci sono poi altri oggetti, come la ruota e la croce, che sono conosciuti in tutto il mondo e che tuttavia hanno un significato simbolico in certe particolari condizioni. Ciò che essi simboleggino di preciso è ancora materia di controversia.
Perciò una parola o un’immagine è simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato. Essa possiede un aspetto più ampio, «inconscio», che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato. Né si può sperare di definirlo o spiegarlo. Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata a contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali. La ruota può condurre i nostri pensieri al concetto di un sole «divino», ma a questo punto la ragione deve ammettere la propria incompetenza: l’uomo è incapace di definire un essere “divino”. Quando, con tutte le nostre limitazioni intellettuali, noi chiamiamo qualcosa “divino”, non abbiamo fatto altro che attribuirgli un nome che al massimo può esser fondato sopra un credo, non su prove di fatto.
Poiché ci sono innumerevoli cose che oltrepassano l’orizzonte della comprensione umana, noi ricorriamo costantemente all’uso di termini simbolici per rappresentare concetti che ci è impossibile definire o comprendere completamente. Questa è una delle ragioni per cui tutte le religioni impiegano un linguaggio simbolico o delle immagini. Tuttavia questo uso consapevole dei simboli è soltanto un aspetto di un fatto psicologico di grande importanza: anche l’uomo produce simboli inconsciamente e spontaneamente sotto forma di sogni.
Non è facile afferrare questo punto, ma è necessario arrivare a farlo se vogliamo conoscere qualcosa di più sul modo in cui opera la mente umana. Se riflettiamo un momento ci rendiamo subito conto che l’uomo non percepisce o comprende mai nulla completamente. Egli può vedere, udire, toccare e gustare, ma la capacità della sua vista e del suo udito, come pure ciò che gli viene rivelato dal tatto o dal gusto, tutto dipende dal numero e dalla qualità dei suoi sensi. Questi limitano la sua percezione del mondo che lo circonda. Usando strumenti scientifici egli può compensare in parte le deficienze dei propri sensi. Per esempio egli può estendere il suo campo visivo ricorrendo al binocolo o il suo campo uditivo attraverso l’amplificazione elettrica; tuttavia anche i più complessi apparati non possono far di più che trasportare oggetti distanti o di piccole dimensioni nel suo campo visivo o rendere più udibili suoni deboli. A prescindere dagli strumenti da lui usati, a un certo punto l’uomo raggiunge un limite di certezza al di là del quale la sua conoscenza non può procedere.
Ci sono, poi, aspetti inconsci della nostra percezione della realtà. Il primo è costituito dal fatto che anche quando i nostri sensi reagiscono a fenomeni reali, a visioni, a suoni, essi vengono in qualche modo tradotti dal piano della realtà a quello della mente. Qui essi diventano eventi psichici la cui sostanziale natura è inconoscibile, in quanto la psiche non può conoscere la propria sostanza psichica. In tal modo ogni esperienza contiene un numero infinito di fattori sconosciuti, per non dire del fatto che ogni oggetto concreto è sempre sconosciuto sotto certi aspetti dal momento che non siamo in grado di conoscere la natura sostanziale della materia in sé.
Perciò esistono certi eventi che noi non abbiamo registrato consapevolmente: essi sono rimasti, per così dire, al di sotto della soglia della coscienza. Essi sono accaduti ma sono stati assorbiti subliminalmente senza la partecipazione della nostra conoscenza consapevole. Noi possiamo prender coscienza di questi avvenimenti solo in un momento di intuizione o tramite un processo profondo di pensiero che ci porti in un secondo momento alla consapevolezza del fatto che essi debbono essersi necessariamente realizzati. E benché si possa averne inizialmente ignorata l’importanza emotiva e vitale, essa riaffiora dall’inconscio come una specie di fenomeno riflesso.
Essa può apparire, ad esempio, sotto forma di un sogno. Di regola, l’aspetto inconscio di ogni evento si rivela a noi nei sogni, dove esso appare non come pensiero razionale ma sotto forma di immagine simbolica. Storicamente è stato lo studio dei sogni a porre gli psicologi in condizione di investigare l’aspetto inconscio degli eventi psichici manifestantisi al livello della coscienza.
È sulla base di questa evidenza che gli psicologi suppongono l’esistenza di una psiche inconscia, sebbene molti scienziati e filosofi neghino la sua esistenza. Essi argomentano ingenuamente che una posizione di questo tipo implica l’esistenza di due “soggetti”, o, per dirla in linguaggio comune, di due personalità all’interno dello stesso individuo. Ma è proprio questa la sua precisa implicazione ed è una delle più drammatiche caratteristiche dell’uomo moderno il fatto che egli soffra di questa divisione della propria personalità. Non si tratta assolutamente di un sintomo patologico: è un fatto perfettamente normale che può essere osservato ovunque e in ogni tempo. Non accade solo al nevrotico che la propria mano destra non sappia che cosa fa la sinistra. Questa drammatica situazione è un sintomo della condizione generale di incoscienza che costituisce l’innegabile eredità comune di tutto il genere umano.
L’uomo ha sviluppato la coscienza con lentezza e laboriosamente in un processo che condusse dopo numerosissimi secoli allo stadio della civiltà (che arbitrariamente viene fatta risalire all’invenzione della scrittura intorno al 4000 a.C.). Questa evoluzione è tutt’altro che completa dal momento che larghe zone della mente umana sono ancora avvolte dall’oscurità. Ciò che noi chiamiamo “psiche” non corrisponde affatto alla coscienza e ai suoi contenuti.
Chiunque neghi l’esistenza dell’inconscio suppone di fatto che la nostra attuale conoscenza della psiche sia totale. Questa opinione è altrettanto falsa quanto la supposizione che noi si conosca ormai tutto ciò che c’è da conoscere dell’universo naturale. La nostra psiche è parte della natura e i suoi enigmi sono infiniti. Ci è pertanto impossibile definire sia la psiche che la natura: noi possiamo dire solo ciò che esse sono per noi e descrivere, come meglio possiamo, il loro funzionamento. Di conseguenza, a prescindere dall’evidenza accumulata dalla ricerca medica, sussistono notevoli fondamenti logici per respingere affermazioni come quelle secondo cui “l’inconscio non esiste”. Coloro che fanno simili affermazioni denunciano un antiquato “misoneismo”, cioè la paura del nuovo e dello sconosciuto.
Ci sono ragioni storiche che giustificano questa resistenza all’idea di una parte sconosciuta della psiche umana. La coscienza è una recentissima acquisizione della natura ed è tuttora nella sua fase “sperimentale”. Essa è fragile, sottoposta alla minaccia di rischi specifici e facilmente danneggiabile. Come hanno osservato gli antropologi, una delle più comuni forme di alienazione mentale che si manifesta fra i popoli primitivi è quella che essi chiamano “la perdita dell’anima”: ciò significa, come indica il nome, una notevole spaccatura (o, più tecnicamente, una dissociazione) della coscienza.
Fra questi popoli, in cui la coscienza si trova a un livello di sviluppo diverso dal nostro, l’“anima” (o psiche) non è concepita come un’unità. Molti primitivi sostengono che l’uomo possiede un’“anima della foresta” oltre alla propria e chequest’anima è incarnata in un animale selvaggio o in un albero, con i quali l’individuo umano ha una specie di identità psichica. Questo è il fenomeno che il celebre etnologo francese Lucien Lévy-Brùhl ha* definito “partecipazione mistica”. Successivamente egli ha eliminato questo termine sotto la pressione di una critica avversa, ma ritengo che i suoi critici fossero in errore. È risaputo che, dal punto di vista psicologico, l’individuo può possedere una identità inconscia di questo tipo con qualche altra persona od oggetto.
Questa identità assume varie forme differenti tra i primitivi. Se l’anima della foresta è quella di un animale, questo viene considerato come una specie di fratello dell’uomo. L’uomo che sia fratello di un coccodrillo, per esempio, viene considerato immune dagli assalti dei coccodrilli quando nuota in un fiume. Se l’anima della foresta è un albero, si suppone che questo possegga una specie di autorità paterna sull’individuo in questione. In entrambi i casi un’offesa recata all’anima della foresta viene interpretata come un’offesa rivolta all’uomo.
In alcune tribù si suppone che l’uomo possegga numerose anime; tale opinione esprime il sentimento di alcuni individui primitivi, secondo il quale ognuno di essi è composto di diverse unità fra loro collegate, ma singolarmente distinte. Ciò significa che la psiche dell’individuo è tutt’altro che una unità perfettamente sintetica; al contrario essa rischia di frantumarsi anche troppo facilmente sotto l’urto di emozioni violente.
Mentre da una parte questa situazione ci è divenuta ormai familiare per gli studi antropologici, dall’altra non manca di esercitare tuttora il suo peso nella nostra avanzata civiltà, contro ogni supposizione. Anche noi possiamo subire una dissociazione e perdere la nostra identità. Possiamo esser posseduti e alterati dagli stati d’animo o diventare irragionevoli e incapaci di ricordare fatti importanti relativi a noi stessi o ad altre persone. A questo punto la gente ci domanda: “che diavolo stai combinando?” Spendiamo parole intorno all’autocontrollo, ma si tratta di una qualità rara ed eccezionale; possiamo pensare di tenerci sotto controllo e tuttavia un amico può dirci facilmente alcune cose sul nostro conto che noi non conosciamo minimamente.
Senza dubbio la coscienza umana non ha raggiunto, neppure a quello che noi chiamiamo un alto livello di civiltà, un grado ragionevole di continuità. Essa è ancora vulnerabile e suscettibile di sgretolarsi. In effetti questa capacità di isolare singole parti della propria mente è una caratteristica notevole: essa ci mette in grado di concentrarci volta a volta su una singola cosa, escludendo qualunque altra cosa che possa attirare la nostra attenzione. Tuttavia c’è una profonda differenza fra l’atto di prendere consapevolmente la decisione di espungere e sopprimere temporaneamente una parte della nostra psiche e la condizione in cui ciò avviene spontaneamente, senza la partecipazione della nostra conoscenza e della nostra volontà e magari contro le nostre stesse intenzioni. Il primo è un prodotto della civiltà, la seconda è una “perdita dell’anima” al livello primitivo o la causa patologica di una nevrosi.
Perciò anche ai nostri giorni l’unità della coscienza è un fatto incerto: essa può essere spezzata anche troppo facilmente. La capacità di controllare le proprie emozioni, se è una qualità desiderabile da un certo punto di vista, dall’altro può rappresentare un risultato discutibile nella misura in cui viene a togliere ai rapporti sociali ogni varietà, colore, o calore umano.
È in questa prospettiva che noi dobbiamo riprendere in considerazione l’importanza dei sogni, di queste fantasie inconsistenti, evasive, incerte e vaghe. Per spiegare il mio punto di vista descriverò il modo in cui esso si è venuto elaborando in me per un lungo arco di anni e in che modo sono stato portato a concludere che i sogni costituiscono la fonte più frequente e universalmente accessibile per lo studio della facoltà di simbolizzazione dell’uomo.
Sigmund Freud è stato il pioniere che per primo ha tentato di esplorare il fondo inconscio della coscienza. Egli si basava sul presupposto generale che i sogni non sono eventi casuali, ma fatti strettamente associati ai pensieri e ai problemi del conscio. Questa supposizione non era del tutto arbitraria ed era fondata sulle conclusioni di eminenti neurologi (per esempio di Pierre lanet), secondo le quali i sintomi nevrotici sono collegati con qualche esperienza cosciente. Essi risultano essere aree distaccate della mente conscia che, in tempi e condizioni diverse, possono apparire nel conscio.
Prima dell’inizio del secolo, Freud e Joseph Breuer erano arrivati alla conclusione che i sintomi nevrotici – l’isteria, certi tipi di sofferenza e comportamento anormale – sono effettivamente significativi dal punto di vista simbolico. Si tratta di un modo nel quale la mente inconscia riesce a esprimersi, così come può avvenire nei sogni, che sono altrettanto simbolici. Per esempio, un paziente che si trovi di fronte a una situazione intollerabile può manifestare uno spasmo ogni qualvolta cerca di deglutire: egli “non può mandarlo giù”. In condizioni simili di tensione psicologica, un altro paziente ha un attacco di asma: egli “non può respirare l’atmosfera di casa”. Un altro soffre di una particolare paralisi alle gambe: egli non può camminare, cioè “non ce la fa più ad andare avanti”. Un altro ancora, che vomita quando mangia, “non può digerire” qualche fatto spiacevole. Potrei citare molti esempi di questo tipo, ma tali reazioni fisiche sono solo un modo attraverso il quale i problemi che ci travagliano inconsciamente possono trovare espressione. Più spesso essi si manifestano nei sogni.
Qualunque psicologo che abbia ascoltato numerose descrizioni di sogni sa bene che i simboli onirici hanno una varietà di gran lunga superiore a quella dei sintomi fisici della nevrosi. Essi sono spesso costituiti da elaborate e pittoresche fantasie. Ma se l’analista che si trova di fronte a questo materiale di sogni ricorre alla tecnica freudiana della “libera associazione”, egli trova che i sogni possono essere conclusivamente ridotti a certi modelli fondamentali. Questa tecnica ha svolto un ruolo importante nello sviluppo della psicoanalisi, poiché permise a Freud di utilizzare i sogni come il punto di partenza da cui intraprendere l’esplorazione del problema inconscio espresso dal paziente.
Freud fece la semplice ma penetrante osservazione che se colui che sogna viene incoraggiato a proseguire il suo racconto sulle immagini apparsegli in sogno e sui pensieri che queste suscitano nella sua mente, egli rivelerà esplicitamente la radice inconsapevole dei suoi disturbi, sia in ciò che dice sia in ciò che omette deliberatamente. Le sue idee possono apparire irrazionali e irrilevanti, ma in breve diventa relativamente facile scoprire che cosa egli cerca di evitare e afferrare il pensiero o l’esperienza spiacevole che egli sopprime. Non importa il modo in cui egli cerca di camuffare tutto questo: qualunque cosa egli dica essa si riferisce alle ragioni profonde della sua condizione. Un medico è talmente abituato a cogliere gli aspetti più reconditi della vita che raramente non colpisce nel vero quando interpreta gli elementi che il paziente manifesta come segni di una coscienza turbata. Sfortunatamente ciò che egli arriva a scoprire conferma le sue previsioni. In questi termini nessuno può opporsi alla teoria freudiana della rimozione e limitarsi a considerare il simbolismo dei sogni come un effetto di appagamento.
Freud attribuì una particolare importanza ai sogni, considerandoli come il punto di partenza di un processo di “libera associazione”. Tuttavia, dopo un po’ di tempo, cominciai a rendermi conto che questa era una utilizzazione erronea e inadeguata delle ricche fantasie che l’inconscio produce durante il sonno. Cominciai ad avere dei dubbi quando un collega mi disse di un’esperienza che egli aveva avuto durante un lungo viaggio in treno fatto in Russia. Benché egli non conoscesse la lingua e non sapesse neppure decifrare la scrittura cirillica, si trovò a fantasticare sulle strane lettere in cui erano scritti gli avvisi ferroviari e piombò in una rêverie durante la quale egli immaginava ogni sorta di significati.
Passando spontaneamente da un’idea all’altra, in questo stato d’animo rilassato, egli si accorse che questo tipo di “libera associazione” gli aveva ridestato molti vecchi ricordi. Fra questi egli trovò con disappunto alcuni avvenimenti da lungo tempo sepolti nella memoria: tutte cose che aveva voluto dimenticare e che di fatto aveva dimenticato consciamente. Egli era arrivato a ciò che gli psicologi chiamano “complessi”, cioè a temi emotivamente rimossi, che possono provocare continui disturbi psicologici e, in molti casi, persino i sintomi di una nevrosi.
Questo episodio mi rivelò che non era necessario usare il sogno come punto di partenza del processo di “libera associazione” per scoprire i complessi di un paziente. Esso mi dimostrò che si può arrivare al centro partendo da qualsiasi punto della circonferenza. Si poteva partire da alcune lettere cirilliche, da meditazioni su una sfera di cristallo, una “ruota di preghiera” o un dipinto moderno o anche prendendo le mosse da una conversazione casuale su qualche banale avvenimento. In questo senso il sogno non era più utile di qualsiasi altro possibile punto di partenza. Tuttavia, i sogni hanno un significato particolare, sebbene nascano spesso da un turbamento emotivo in cui sono coinvolti anche i complessi abituali. (I complessi abituali sono i punti deboli della psiche che reagiscono nel modo più rapido a uno stimolo esterno o a un disturbo.) È per questo motivo che la libera associazione può condurre dai sogni, qualunque essi siano, al segreto profondo dei pensieri.
A questo punto, tuttavia, riflettei che, se ero nel giusto, si poteva ragionevolmente dedurre che i sogni avessero qualche funzione speciale e più significativa. Molto spesso i sogni hanno una struttura definita, evidentemente intenzionale, che esprime un’idea recondita o un’intenzione, benché quest’ultima, di regola, non sia immediatamente comprensibile. Cominciai perciò a riflettere sull’opportunità di prestare una maggiore attenzione alla forma e al contenuto attuali del sogno, piuttosto che permettere alla “libera” associazione di sviarci, attraverso una catena di idee, verso i complessi che potevano essere facilmente raggiunti con altri mezzi.
Questa riflessione segnò un momento decisivo nello sviluppo della mia psicologia. Ciò significava che gradualmente io mi venivo distaccando dalle associazioni concatenate ritenendo che esse fuorviassero dal contesto del sogno. Io preferivo concentrarmi sul sogno piuttosto che sulle associazioni, ritenendo che il primo esprimesse qualcosa di specifico che l’inconscio tentava di manifestare.
Cambiando la mia interpretazione dei sogni dovetti cambiare anche il metodo: la nuova tecnica da me elaborata poteva prendere in considerazione tutti i vari aspetti del sogno. Una storia narrata dalla mente conscia ha un suo inizio, uno sviluppo e una conclusione, mentre la stessa cosa non è vera per il sogno. Le sue dimensioni spaziali e temporali sono assai diverse: per comprenderlo dobbiamo esaminarlo in tutti i suoi aspetti, così come siamo indotti a fare con un oggetto sconosciuto che, una volta pervenuto nelle nostre mani, viene da noi girato e rigirato fino a che ogni suo minimo dettaglio non ci è divenuto familiare.
A questo punto risulterà probabilmente chiaro il modo in cui io venni progressivamente distaccandomi dalla “libera” associazione, nel senso che Freud le aveva inizialmente attribuito. Il mio scopo era quello di avvicinarmi quanto più possibile al sogno in sé escludendo tutte quelle idee e associazioni superflue che esso poteva evocare. Ciò poteva condurre ai complessi del paziente, ma il mio scopo mirava al di là della scoperta dei semplici complessi responsabili dei disturbi nevrotici. Ci sono molti altri metodi per identificarli: ad esempio lo psicologo può rinvenire tutti i sintomi di cui ha bisogno per mezzo dei test di associazione di parole (cioè chiedendo al paziente che cosa egli è portato ad associare a determinate serie di parole e studiando le sue risposte). Tuttavia, per arrivare a conoscere e comprendere il processo psichico che è proprio dell’intera personalità individuale, è importante rendersi conto che i sogni dell’individuo e le loro rispettive immagini simboliche possono avere una funzione molto più importante di quella loro abitualmente attribuita.
Quasi tutti sanno, ad esempio, che l’atto sessuale può essere simboleggiato (o allegoricamente rappresentato) da una enorme varietà di immagini. Ciascuna di queste immagini può condurre, attraverso un processo associativo, all’idea del rapporto sessuale e ai complessi specifici che ciascun individuo può possedere nei riguardi dei propri atteggiamenti sessuali. Tuttavia è possibile che l’individuo possa mettere in evidenza tali complessi per mezzo di alcune riflessioni su un gruppo di lettere russe indecifrabili, lo fui perciò indotto a ritenere che il sogno può contenere qualche messaggio diverso da quelli dell’allegoria sessuale e che ciò possa avvenire per ben precise ragioni. Cerchiamo di illustrare questo punto.
Un uomo può sognare di infilare la chiave in una serratura, di brandire un pesante bastone, o di abbattere una porta a colpi di ariete. Ciascuna di queste immagini può essere considerata un’allegoria sessuale: tuttavia, il fatto che l’inconscio abbia scelto per esprimersi una di queste immagini specifiche – si tratti della chiave, del bastone, oppure dell’ariete – ha un significato di gran lunga più importante. Il problema è quello di capire perché la chiave sia stata preferita al bastone, o il bastone all’ariete. In alcuni casi ciò può portare a scoprire che il punto centrale della rappresentazione non è l’atto sessuale ma qualcos’altro di diversa portata psicologica.
Seguendo questo corso di ragionamenti arrivai alla conclusione che per interpretare il sogno si deve utilizzare solo il materiale di esso che è chiaramente e visibilmente disponibile.
Il sogno ha i suoi limiti: la sua stessa costruzione ci dice che cosa gli appartiene e che cosa non gli appartiene di fatto. Mentre la “libera” associazione distoglie dallo studio del materiale secondo una linea a zigzag, il metodo da me elaborato assomiglia di più a un’indagine circolare il cui centro è rappresentato dall’immagine del sogno. Io lavoro intorno a queste immagini e trascuro qualsiasi tentativo che l’autore del sogno compia per distogliersene. Progressivamente, a varie riprese, durante il mio lavoro professionale ho dovuto ripetere la frase: “Torniamo al vostro sogno. Che cosa diceva il vostro sogno?”
Ad esempio un mio paziente sognò una donna dall’aspetto volgare, ubriaca e scarmigliata. Nel sogno questa donna era identificata con la moglie, benché nella vita reale quest’ultima fosse del tutto diversa. In apparenza, quindi, il sogno era del tutto falso e il paziente lo rifiutava come una sciocca fantasticheria. Se io, come medico, gli avessi consentito di seguire un processo associativo, egli avrebbe inevitabilmente tentato di tirarsi il più lontano possibile dalla spiacevole suggestione del sogno. In tal caso egli sarebbe approdato a uno dei suoi complessi fondamentali – un complesso che probabilmente non avrebbe avuto nulla a che fare con sua moglie – e io non avrei appreso nulla intorno al significato particolare del sogno.
Qual era perciò il significato riposto di questo inconscio tentativo? Evidentemente esso esprimeva in qualche modo l’idea di una femmina degenerata, che era intimamente connessa con la vita dell’individuo; ma poiché la proiezione di quest’immagine sulla persona della moglie era ingiustificata e falsa in maniera palese, io dovevo cercare altrove il significato di questa immagine repellente.
Nel Medioevo, molto tempo prima che i fisiologi dimostrassero che, a causa della nostra struttura ghiandolare, noi possediamo elementi sia maschili che femminili, si diceva che “ciascun uomo porta una donna dentro di sé”. È questo elemento femminile presente in ciascun maschio che io ho definito “anima”.
Questo aspetto “femminile” costituisce essenzialmente una specie di rapporto inferiore verso l’ambiente circostante, e in particolare verso le donne, che viene mantenuto accuratamente nascosto sia agli altri che al soggetto medesimo. In altre parole, benché la personalità dell’individuo si mostri apparentemente normale, essa può tentare di nascondere agli altri – o addirittura al soggetto stesso – la deplorevole “presenza della donna nell’individuo”.
Questo era il caso del paziente in esame: il suo lato femminile non era gradevole. Il suo sogno sostanzialmente esprimeva quanto segue: “Sotto certi aspetti ti comporti come una femmina degenerata”, e di conseguenza il soggetto subiva una violenta emozione. (Naturalmente un esempio di questo tipo non deve essere preso come prova di qualche specie di imperativo “morale” inconscio. Il sogno non suggeriva al paziente di “comportarsi meglio”, ma cercava semplicemente di controbilanciare il lato squilibrato della mente conscia secondo il quale il paziente era fittiziamente un perfetto gentiluomo.)
È facile capire per quale ragione coloro che sognano tendono a ignorare o perfino a negare il messaggio dei loro sogni. Naturalmente la coscienza si oppone a tutto ciò che di inconscio e di sconosciuto può esistere. Ho già sottolineato il fatto che presso i popoli primitivi esiste un profondo e superstizioso timore delle cose nuove, ciò che gli antropologi definiscono “misoneismo”. I primitivi manifestano contro gli eventi sfavorevoli reazioni simili a quelle degli animali selvaggi. L’uomo “civile” reagisce verso le idee nuove più o meno nello stesso modo, erigendo barriere psicologiche capaci di proteggerlo dall’emozione di fronteggiare realtà insolite. Ciò può essere facilmente osservato nelle reazioni che qualunque individuo esprime nei riguardi dei propri sogni quando si trova costretto ad ammettere un pensiero particolarmente fastidioso. Molti precursori nel campo della filosofia, della scienza e della letteratura sono stati vittime dell’innato conservatorismo dei loro contemporanei. La psicologia è una delle scienze più giovani: poiché cerca di affrontare il problema dell’inconscio essa si è trovata inevitabilmente di fronte a una fortissima reazione misoneistica.
Passato e futuro nell’inconscio
Fino a questo punto son venuto delineando alcuni principi sulla base dei quali io affrontai il problema dei sogni: si tratta di una questione importante poiché, quando intendiamo indagare sulla facoltà simboleggiatrice dell’uomo, i sogni mostrano di essere il materiale fondamentale e più accessibile per questo tipo di ricerca.
Nell’interpretazione dei sogni i due punti principali sono i seguenti: prima di tutto il sogno deve essere considerato come un fatto intorno al quale non è lecito elaborare alcuna tesi preconcetta tranne quella che esso rivela qualche verità; in secondo luogo, il sogno costituisce essenzialmente un modo di espressione dell’inconscio.
Sarebbe difficile limitare ulteriormente la portata di questi principi. Per quanto possa essere limitata la valutazione della funzione positiva dell’inconscio, è necessario ammettere che esso è degno di essere esplorato; l’inconscio si trova per lo meno sul piano del pidocchio che, dopo tutto, costituisce il legittimo motivo di interesse per lo studio dell’entomologo. Se c’è chi ritiene, sulla base di una scarsa esperienza e di una limitata conoscenza, che i sogni siano semplicemente dei fatti casuali e caotici senza alcun significato, egli ha pieno diritto di pensare come vuole. Ma se si ammette che essi siano eventi normali (come, di fatto, è vero), si è costretti a ritenere che essi siano o causali cioè che posseggano qualche causa razionale a giustificazione della loro esistenza oppure intenzionali, o entrambe le cose insieme.
Soffermiamoci un po’ a considerare in che modo i contenuti consci e inconsci della mente si connettono reciprocamente. Prendiamo un esempio familiare a tutti: all’improvviso siete incapaci di ricordare ciò che avevate intenzione di dire, mentre un momento fa il pensiero vi era perfettamente chiaro. Oppure, per prendere un altro caso, state per presentare un amico, e il suo nome vi sfugge proprio nel momento di pronunciarlo. Voi dite che non ce la fate a ricordarlo, ma di fatto il pensiero è divenuto inconscio o, almeno momentaneamente. si è scisso dalla coscienza. Lo stesso fenomeno si verifica al livello dei sensi. Se ascoltiamo una nota continua alla soglia dell’udibilità, il suono sembra interrompersi a intervalli regolari per poi riprendere normalmente. Tali oscillazioni sono dovute a una diminuzione e a un aumento periodici della nostra attenzione, non a qualche cambiamento dell’intensità della nota.
Quando qualcosa esce dal campo della nostra coscienza, essa non cessa di esistere, allo stesso modo che un’auto scomparsa dietro l’angolo della via non è scomparsa nell’aria: essa è semplicemente inaccessibile alla nostra vista. Perciò, come è probabile che si possa di nuovo vedere quella stessa automobile, così possiamo incontrarci di nuovo con quei pensieri che temporaneamente sono venuti a mancare nella nostra mente.
In altri termini, una parte dell’inconscio è composta di una moltitudine di pensieri, impressioni e immagini, temporaneamente oscurati che, lungi dall’esser venuti meno completamente in noi, continuano a influenzare la nostra mente conscia.
Una persona distratta o “con la testa fra le nuvole” attraversa la stanza per prendere qualcosa. A un tratto si ferma, perplessa: ha dimenticato ciò che andava a prendere. Le sue mani tastano gli oggetti disposti sul tavolo, come farebbe un sonnambulo: l’individuo si è dimenticato il suo scopo originario, eppure continua a essere inconsciamente guidato da esso. In un secondo tempo si ricorda ciò che voleva: il suo inconscio glielo ha suggerito.
Se osserviamo il comportamento di un nevrotico vediamo che egli compie un certo numero di azioni e sembra che faccia tutto in maniera cosciente e intenzionale. Tuttavia se andiamo a chiedergliene la ragione scopriremo che è inconscio di esse o che ha qualcosa di molto diverso nella mente. Egli ascolta ma non ode, vede eppure è cieco, sa e tuttavia è ignorante. Gli esempi di questo tipo sono così comuni che lo specialista si rende subito conto del fatto che i contenuti inconsci della mente si comportano come se fossero coscienti e che in questi casi non si può mai essere certi se il pensiero, il linguaggio o l’azione siano coscienti o meno.
È sulla base di questo tipo di comportamento che molti medici respingono le affermazioni dei pazienti isterici come palesi menzogne. Certamente queste persone dicono molte più cose false di noi, ma il termine “menzogna” non è di uso appropriato in casi del genere. In realtà il loro stato mentale provoca un’incertezza di comportamento, poiché la loro coscienza è soggetta a eclissi imprevedibili provocate dall’interferenza dell’inconscio. Anche le loro sensazioni cutanee possono rivelare simili fluttuazioni di consapevolezza. In un determinato momento la persona isterica può avvertire una puntura d’ago nel braccio e un attimo dopo lo stesso fatto può passarle inosservato. Se la sua attenzione si appunta totalmente su un certo oggetto, tutto l’organismo può essere completamente anestetizzato, fino a che la tensione responsabile di questo annebbiamento dei sensi non si è rilassata. A questo punto la percezione si ricostituisce subito: tuttavia, per tutto il tempo precedente, l’individuo è stato inconsciamente consapevole di ciò che stava accadendo.
Il medico può osservare con estrema chiarezza tale processo quando ipnotizza un paziente del genere sopra descritto. È facile dimostrare che questi ha mantenuto una piena consapevolezza di ciascun dettaglio. La puntura d’ago nel braccio o l’osservazione fatta durante un’eclissi della coscienza possono essere accuratamente richiamate alla mente come se non ci fosse stata alcuna anestesia o “dimenticanza”. Ricordo una donna che venne un giorno ricoverata in clinica in preda a uno stato totale d’incoscienza. Il giorno dopo, allorché riprese coscienza, essa mostrò di conoscere la propria identità, ma non sapeva dove era, come o perché vi era capitata e neppure la data. Tuttavia, dopo che io l’ebbi ipnotizzata, essa mi raccontò le cause della sua malattia, il modo in cui era stata condotta alla clinica e chi l’aveva ricoverata. Tutti questi dettagli poterono essere verificati. Essa fu persino in grado di dirmi l’ora del suo ricovero poiché aveva veduto un orologio nell’atrio della clinica. In stato ipnotico la sua memoria era chiara come se non avesse mai cessato di essere conscia.
Affrontando argomenti di questo tipo, dobbiamo di solito fondarci sulle testimonianze fornite dalle osservazioni cliniche. Per questo motivo molti critici sostengono che l’inconscio e tutte le sottili manifestazioni a esso collegate appartengono unicamente alla sfera della psicopatologia. Essi considerano ogni espressione dell’inconscio come qualcosa di nevrotico o di psicotico che non ha nulla a che fare con il normale stato della mente. Tuttavia i fenomeni nevrotici non sono assolutamente prodotti esclusivi di disturbi: essi non costituiscono di fatto altro che delle esagerazioni patologiche di eventi normali e solo in grazia di questo essi risultano più evidenti dei loro corrispondenti stati normali. Sintomi isterici possono essere osservati in tutte le persone normali, ma essi sono così leggeri che di solito passano inosservati.
Ad esempio l’oblio è un processo normale nel corso del quale alcune idee consce vengono perdendo la loro specifica energia in seguito a uno spostamento della tensione su qualche oggetto diverso. Quando l’interesse si volge altrove, esso lascia in ombra le cose cui era precedentemente riferito, nello stesso modo in cui un riflettore va a illuminare un’area nuova lasciandone un’altra al buio. Tutto ciò è inevitabile, poiché la coscienza può mantenere in piena luce solo poche immagini contemporaneamente e anche questa luce è tutt’altro che uniforme.
Tuttavia le idee dimenticate non hanno cessato di esistere. Benché esse non possano venir riprodotte volontariamente, tuttavia sussistono a un livello subliminale – al di sotto della soglia della memoria – dal quale possono spontaneamente risorgere in ogni momento, spesso dopo molti anni di oblio apparentemente totale.
Io mi riferisco qui a cose consciamente viste o udite e successivamente dimenticate. Tuttavia, tutti noi vediamo, ascoltiamo, odoriamo e gustiamo molte cose senza prestar loro attenzione immediata, sia perché la nostra attenzione è sviata, sia perché lo stimolo che arriva ai nostri sensi è troppo leggero per lasciare un’impressione cosciente. In ogni modo, però, l’inconscio ha preso nota di tutto e queste percezioni sensoriali al livello subliminale svolgono un ruolo importante nella nostra vita di tutti i giorni. Senza che noi ce ne rendiamo conto, esse influenzano il nostro modo di reagire sia verso gli eventi che verso le persone.
Rinvenni un esempio particolarmente illuminante di questo fenomeno nel caso di un professore che aveva fatto una passeggiata in campagna con uno dei suoi allievi, tutto assorto in una impegnativa conversazione. Improvvisamente egli notò che i suoi pensieri venivano interrotti da un imprevisto flusso di ricordi della sua prima infanzia. Non riusciva a spiegarsi questa distrazione: nulla di ciò che era stato detto nella conversazione sembrava avere alcun rapporto con tali memorie. Voltandosi indietro egli si accorse di esser passato davanti a una fattoria proprio nel momento in cui il primo di questi ricordi dell’infanzia era affiorato nella sua mente. Egli propose all’allievo di tornare indietro fino al punto in cui era cominciata la sua fantasticheria. Una volta giuntovi egli avvertì un odore di oche e istantaneamente si rese conto che era stato proprio esso a liberare il flusso delle memorie.
Da ragazzo egli aveva vissuto in una fattoria in cui si teneva un allevamento di oche e il loro odore caratteristico gli aveva lasciato un’impressione permanente anche se dimenticata. Attraversando la fattoria nel corso della passeggiata egli aveva avvertito subliminalmente l’odore e questa percezione inconscia aveva richiamato esperienze infantili da lungo tempo dimenticate. La percezione era stata subliminale poiché l’attenzione era impegnata altrove e lo stimolo non era stato abbastanza forte da distoglierla e da raggiungere direttamente la coscienza. Tuttavia esso aveva riportato in superficie ricordi “dimenticati”.
Questo effetto “suggestivo” o “liberatore” può dar ragione dell’insorgenza di sintomi nevrotici meglio di ricordi piacevoli allorché una visione, un odore o un suono rievocano circostanze del passato. Per fare un esempio, una ragazza può essere intenta al proprio lavoro in ufficio, e godere apparentemente di buona salute e di un umore perfetto. Un momento dopo viene aggredita da un formidabile mal di testa e mostra altri sintomi di malessere. Senza avervi prestato consciamente attenzione, essa ha nel frattempo udito risuonare lontano la sirena di una nave e ciò le ha riportato inconsciamente il ricordo di una dolorosa separazione dal fidanzato, che essa aveva fatto di tutto, per dimenticare.
A parte i fatti di normale dimenticanza, Freud ha descritto numerosi casi che implicano l’“oblio” di ricordi spiacevoli, che gli individui fanno di tutto per dimenticare al più presto. Come osservò Nietzsche, quanto più forte è l’orgoglio, tanto più i ricordi sono sottoposti a scomparire. Perciò, fra le memorie perdute, non poche derivano il loro stato subliminale (e la loro incapacità di essere volontariamente riprodotte) dalla propria natura spiacevole e incompatibile. Gli psicologi le definiscono contenuti rimossi.
Un caso indicativo potrebbe esser quello di una segretaria gelosa di uno dei soci del suo principale. Essa dimentica abitualmente di invitarlo alle riunioni benché il suo nome sia chiaramente registrato nella lista degli invitati. Tuttavia, se viene costretta a giustificarsi di questo suo atteggiamento, essa dice semplicemente di “essersene dimenticata” o di “essere stata interrotta”. Non ammetterà mai, neppure a se stessa, i motivi reali di questa omissione.
Molti sopravvalutano erroneamente il ruolo della forza di volontà, ritenendo che tutto ciò che avviene nella loro mente venga deciso e voluto deliberatamente da essi. In realtà bisogna imparare a distinguere accuratamente fra i contenuti intenzionali e quelli non intenzionali della mente. I primi derivano dalla personalità dell’ego; i secondi nascono da una fonte che non è identica all’ego, ma costituisce l’“altro lato” di esso. È quest’“altro lato” a essere responsabile delle dimenticanze della segretaria.
Le ragioni per cui noi dimentichiamo cose osservate o sperimentate sono numerose ed esistono altrettanti modi per richiamarle alla mente. Un esempio interessante di ciò è rappresentato dalla criptoamnesia o “ricordo riposto”. Ad esempio, un autore può essere intento a scrivere di getto secondo un piano prestabilito, oppure a elaborare un ragionamento o la trama di un racconto, quando improvvisamente si perde in un argomento tangenziale. Probabilmente si tratta di un’idea nuova, di un’immagine differente, o di un intero intreccio secondario che gli si è presentato improvvisamente di fronte. Se gli domandate che cosa ha provocato questa digressione, egli sarà incapace di dirvelo. Può darsi che egli non abbia neppure notato il cambiamento, benché abbia attualmente elaborato un materiale completamente nuovo e che prima gli era almeno apparentemente ignoto. Tuttavia qualche volta è possibile dimostrare in maniera convincente che quanto egli è venuto scrivendo rivela una somiglianza sorprendente con l’opera di un autore diverso – un’opera, magari, che egli crede di non avere mai conosciuto.
Io stesso mi sono imbattuto in un esempio affascinante di questo fenomeno: si tratta del libro Così parlò Zarathustra di Nietzsche, dove l’autore riproduce quasi parola per parola un incidente registrato su un giornale di bordo del 1686. Per un puro caso io avevo letto questo episodio di vita marinara in un libro pubblicato intorno al 1835 (mezzo secolo prima che Nietzsche scrivesse la sua opera); quando trovai lo stesso passo in Così parlò Zarathustra, rimasi colpito dalla particolarità dello stile, che era diverso da quello abituale di Nietzsche. Mi convinsi che egli doveva aver visto quel libro, anche se non faceva riferimento a esso. Così scrissi a sua sorella ed essa mi confermò che lei e suo fratello avevano effettivamente letto insieme quel libro quando Nietzsche aveva circa undici anni. Dal contesto risulta, a mio parere, che Nietzsche non aveva alcuna idea di plagiare quel racconto: probabilmente dopo cinquant’anni esso era inaspettatamente caduto sotto l’attenzione della sua mente conscia.1
In casi di questo genere si assiste a un tipo di ricordo genuino anche se inconsapevole. Lo stesso fenomeno può capitare a un musicista che abbia ascoltato da giovane un motivo o una canzone popolare e che d’improvviso se lo veda ricomparire come tema di un movimento sinfonico che egli sta componendo in età adulta. Anche qui un’idea o un’immagine è risalita dall’inconscio al livello della mente conscia.
Quanto sono venuto dicendo fino a ora intorno all’inconscio non costituisce altro che un rapido profilo della natura e del funzionamento di questa complessa componente della psiche umana. Tuttavia ciò dovrebbe essere stato sufficiente a indicare il tipo di materiale subliminale da cui possono essere spontaneamente prodotti i simboli dei nostri sogni. Questo materiale può essere costituito da ogni specie di stimolo, impulso, intenzione, percezione, intuizione, pensiero razionale o irrazionale, conclusione, induzione, deduzione, premessa e da ogni specie di sentimento. Singolarmente, oppure tutti insieme, essi possono diventare inconsci parzialmente, temporaneamente, ovvero in modo totale e permanente.
Questo materiale è divenuto per la maggior parte inconscio perché, per così dire, non c’è più posto per esso nella mente conscia. Alcuni dei nostri pensieri perdono la loro energia emotiva e diventano subliminali (cioè non ricevono più la nostra attenzione conscia) per il fatto che ci sembrano poco interessanti o di scarsa importanza, oppure perché abbiamo qualche specifica ragione per perderli di vista.
In realtà, è per noi normale e necessario “dimenticare” in questo modo affinché si possa far posto, nella mente conscia, alle idee e impressioni nuove. Se ciò non avvenisse, tutto quello che noi sperimentiamo resterebbe al di sopra della soglia della coscienza e la nostra mente cadrebbe preda di una insopportabile confusione. Questo fenomeno è talmente riconosciuto oggigiorno che la maggior parte di coloro che abbiano qualche nozione di psicologia lo dà per scontato.
Come i contenuti consci possono svanire nell’inconscio, così nuovi contenuti, mai affiorati prima al livello della coscienza, possono emergere da esso. Si può avere, ad esempio, il presentimento che qualcosa sta per rivelarsi alla coscienza, che “qualcosa è nell’aria” o che “si avverte il sentore di qualcosa”. La scoperta del fatto che l’inconscio non è un semplice deposito del passato, ma che esso è altresì pieno dei germi di idee e di situazioni psichiche future, mi portò a elaborare una nuova teoria psicologica. Tale questione ha suscitato un gran numero di discussioni; tuttavia è un fatto incontestabile che, oltre a ricordi provenienti da un lontano passato conscio, possono affiorare dall’inconscio pensieri e idee creative completamente nuovi – pensieri e idee che non sono mai stati consci in precedenza. Essi crescono dalla buia profondità della psiche come piante di loto e costituiscono una parte importante della psiche subliminale.
Abbiamo esperienza di ciò nella vita di tutti i giorni, allorché i dilemmi che ci si propongono vengono talvolta risolti da proposte nuove e assolutamente sorprendenti; molti artisti, filosofi e perfino scienziati debbono alcune delle loro idee migliori all’ispirazione che emerge improvvisamente di fronte a loro dall’inconscio. La capacità di raggiungere una ricca vena di questo materiale e di tradurla compiutamente in un linguaggio filosofico, letterario, musicale o scientifico assolutamente nuovo è una delle qualità caratteristiche del cosiddetto genio.
Possiamo trovare chiare testimonianze di questo fatto nella storia della scienza. Per esempio, il matematico francese Poincaré e il chimico Kekulé giunsero a importanti scoperte scientifiche (secondo il loro stesso racconto) in seguito alla suggestione ricevuta da improvvise “rivelazioni” figurate dell’inconscio. La cosiddetta esperienza “mistica” del filosofo francese Descartes implicò un’improvvisa rivelazione di questo tipo, in cui egli scorse, per improvvisa illuminazione, l”ordine di tutte le scienze”. Robert Louis Stevenson aveva speso lunghi anni alla ricerca di un racconto che esprimesse compiutamente la sua “forte convinzione della duplicità della natura umana”, ed ecco che la trama de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde gli fu improvvisamente rivelata da un sogno.2
In seguito descriverò più dettagliatamente il modo in cui questo materiale emerge dall’inconscio ed esaminerò in che guisa esso si esprime. Per il momento mi limiterò a mettere in evidenza il fatto che la capacità, propria della psiche umana, di produrre questo materiale nuovo è particolarmente significativa nel caso del simbolismo dei sogni, in quanto ho personalmente riscontrato a più riprese, nel corso del mio lavoro professionale, che le immagini e le idee contenute nei sogni non possono essere spiegate solo in termini di memoria. Esse esprimono pensieri nuovi che non hanno ancora mai raggiunto la soglia della coscienza.
La funzione dei sogni
Sono entrato in qualche dettaglio nel descrivere le origini della nostra vita onirica per il fatto che essa costituisce il terreno da cui hanno origine la maggior parte dei simboli. Sfortunatamente, i sogni sono difficili da interpretare: come ho già sottolineato, non è possibile interpretare il sogno alla stessa stregua di un racconto della mente conscia. Nella vita di tutti i giorni l’individuo riflette su ciò che vuol dire, sceglie il modo più appropriato per dirlo e cerca di fare osservazioni logicamente coerenti. Una persona colta, per esempio, cercherà di evitare qualsiasi metafora confusa, poiché essa potrebbe esprimere non chiaramente il suo punto di vista. I sogni, invece, hanno una struttura diversa: colui che sogna si trova sommerso da immagini che sembrano contraddittorie e ridicole, il senso normale del tempo viene meno e le cose comuni possono assumere un aspetto affascinante o minaccioso.
Può sembrare strano che la mente inconscia imprima al suo materiale un ordine tanto diverso dalla struttura apparentemente disciplinata che noi possiamo imporre ai nostri pensieri in stato di veglia. Eppure, chiunque si soffermi per un attimo a rammentare un sogno si renderà conto di questo contrasto che, di fatto, costituisce una delle principali ragioni per cui ordinariamente i sogni sono ritenuti così difficili da capire. Essi non hanno senso nei termini della nostra esperienza cosciente di tutti i giorni e si è perciò indotti o a non prenderli in considerazione, o a confessare che ci mettono francamente in imbarazzo.
Forse questo punto risulterà più chiaramente comprensibile se ci rendiamo conto subito del fatto che le idee con cui abbiamo a che fare nella nostra vita cosciente apparentemente disciplinata non sono affatto così precise come noi vorremmo credere. Al contrario, quanto più da vicino le esaminiamo, tanto più impreciso diventa il loro significato (e quindi la loro portata emotiva nei nostri riguardi). La ragione di ciò consiste nel fatto che qualunque cosa abbiamo udito o sperimentato, può diventare subliminale, cioè può passare nell’inconscio. Inoltre, anche ciò che tratteniamo al livello della coscienza e che possiamo volontariamente riprodurre, ha acquistato una coloritura inconscia che caratterizzerà l’idea ogni qual volta essa sarà richiamata alla memoria. Le nostre impressioni consce, infatti, assumono rapidamente un elemento inconscio, che è per noi psichicamente significativo anche se non siamo consapevoli consciamente dell’esistenza di questo significato subliminale o del modo in cui esso interviene a estendere e a confondere, contemporaneamente, il significato convenzionale.
Naturalmente queste coloriture psichiche differiscono da persona a persona. Ciascuno di noi accoglie qualunque nozione astratta o generale nel contesto della propria mente individuale e quindi la interpreta e l’applica in modo personale. Quando, nel corso di una conversazione, io uso termini come “Stato”, “moneta”, “salute” o “società”, suppongo che i miei ascoltatori li comprendano più o meno nello stesso senso in cui li intendo io. Ma è proprio la frase “più o meno” a dimostrare quanto dicevo prima. Ogni parola assume, da persona a persona, un significato leggermente diverso, anche nel contesto della medesima tradizione culturale. La ragione di questa variazione sta nel fatto che una nozione generale viene accolta in un contesto individuale ed è quindi interpretata e applicata in termini leggermente individuali. Naturalmente, la differenza di significato è grandissima quando le singole persone posseggono esperienze sociali, politiche, religiose o psicologiche sensibilmente diverse.
Fino a che i concetti si identificano semplicemente con le parole, le variazioni sono pressoché impercettibili e non hanno conseguenze pratiche. Ma quando è necessaria una definizione esatta o un’accurata spiegazione, si possono occasionalmente scoprire le variazioni più sorprendenti, non solo nella pura interpretazione intellettuale del termine, ma anche, in particolare, nella sua coloritura emotiva e nella sua applicazione. Di regola, queste variazioni sono subliminali e non possono essere perciò registrate.
Alcuni, probabilmente, sono portati a trascurare queste differenze, considerandole alla stregua di superflue e trascurabili sfumature di significato che non hanno alcuna rilevanza per le necessità quotidiane. Ma il fatto che esse esistano dimostra che anche i contenuti più reali della coscienza sono avvolti da una penombra d’incertezza. Anche il concetto filosofico o matematico più accuratamente definito, che sicuramente, a nostro parere, non contiene nulla in più di quello che gli abbiamo attribuito, è pur sempre qualcosa di più di quello che noi pensiamo. Esso è un evento psichico, e come tale parzialmente inconoscibile. Anche gli stessi numeri che usiamo per contare sono qualcosa di più di quello che si è soliti credere. Essi sono contemporaneamente elementi mitologici (per i Pitagorici erano anche divini), però quando adoperiamo i numeri per scopi pratici noi siamo del tutto inconsapevoli di ciò.
In breve, ciascun concetto presente nella mente conscia possiede sue particolari associazioni psichiche. Queste possono variare d’intensità (in rapporto all’importanza relativa del concetto verso la nostra personalità nel suo complesso, o in rapporto alle altre idee e ai complessi cui esso è associato nel nostro inconscio), e possono mutare il carattere “normale” del concetto. Questo può anche divenire qualcosa di completamente diverso quando si immerge al di sotto del livello della coscienza.
Questi aspetti subliminali di tutto ciò che ci accade possono sembrare pressoché insignificanti nella nostra vita di tutti i giorni. Eppure nell’analisi dei sogni, nel corso della quale lo psicologo interpreta le espressioni dell’inconscio, essi assumono una grande importanza poiché costituiscono le radici pressoché invisibili dei nostri pensieri consci. Questa è la ragione per cui oggetti o idee comuni possono assumere durante il sogno un significato psichico così potente da provocarci un risveglio seriamente turbato, anche se ci siamo limitati a sognare semplicemente una stanza chiusa a chiave o un treno perduto.
Le immagini che si producono nei sogni sono molto più pittoresche e vivide dei concetti e delle esperienze che rappresentano le loro controparti al livello della coscienza. Una delle ragioni di questo fenomeno è che, in sogno, questi concetti sono in grado di esprimere il loro significato inconscio. Quando pensiamo consciamente noi ci restringiamo invece entro i limiti di affermazioni razionali, che sono molto meno colorite per essere state private da noi della maggior parte delle loro associazioni psichiche.
Mi ricordo di un mio sogno che mi riuscì difficile interpretare. In esso un uomo cercava di prendermi alle spalle e di saltarmi addosso. Io non sapevo nulla di costui tranne il fatto che egli aveva raccolto una mia osservazione e l’aveva deformata grottescamente distorcendo il significato che io le avevo attribuito. Non riuscivo a vedere il rapporto tra questo fatto e il tentativo di quest’uomo di saltarmi addosso. Tuttavia, nel corso della mia carriera professionale, mi è spesso capitato che qualcuno abbia distorto il senso di quanto avevo detto e ciò si è verificato tante volte che mi sono raramente preoccupato di domandarmi se questo genere di distorsioni mi facesse irritare. Ora, è cosa di una certa importanza quella di mantenere un controllo cosciente delle proprie reazioni emotive e questo, a quanto mi apparve subito evidente, era l’indicazione fondamentale del sogno. Esso aveva assunto una espressione familiare in lingua austriaca e l’aveva tradotta in immagine. Questa frase, abbastanza comune nel linguaggio parlato, è Du kannst mir auf den Buckel steigen (puoi saltarmi sulle spalle), che significa “non m’importa di quel che dici sul mio conto”. Un equivalente americano, che potrebbe facilmente comparire in un sogno come questo, è Go jump in the lake.
Si può dire che la rappresentazione di questo sogno era simbolica, poiché essa non definiva direttamente la situazione, ma esprimeva il suo contenuto indirettamente per mezzo di una metafora che lì per lì non seppi interpretare. Quando ciò accade (e ciò avviene non di rado) non si tratta di una “finzione” deliberata introdotta dal sogno: ciò riflette semplicemente le nostre deficienze nell’interpretare un linguaggio figurato con implicazioni emotive. Nella nostra esperienza quotidiana noi abbiamo bisogno di definire le cose il più accuratamente possibile e abbiamo imparato perciò a scartare gli orpelli della fantasia sia nel linguaggio che nei pensieri, venendo a perdere in tal modo una qualità che è tuttora caratteristica della mentalità primitiva. La maggior parte di noi ha depositato nell’inconscio tutte le associazioni psichiche fantastiche che ogni oggetto o idea possiede. D’altra parte, il primitivo è ancora consapevole di queste proprietà psichiche e attribuisce ad animali, piante o pietre alcuni poteri che ai nostri occhi appaiono strani e inaccettabili.
Per esempio, un abitatore della giungla africana scorge di giorno un animale notturno e ritiene che si tratti di uno stregone che abbia temporaneamente assunto quella sembianza. Oppure può considerarlo come l’anima della foresta o lo spirito ancestrale di uno della sua tribù. Un albero può svolgere un ruolo vitale nell’esistenza di un primitivo in quanto esso possiede la sua anima e la sua voce e l’individuo in questione sarà convinto di condividerne il destino. Nel Sudamerica ci sono alcuni indiani che vi assicurano di essere pappagalli Arara rossi benché siano ben consapevoli di non avere né penne né ali né rostro. Ciò dipende dal fatto che nel mondo dei primitivi le cose non hanno gli stessi netti contorni che esse possiedono nelle nostre società “razionali”.
Ciò che gli psicologi chiamano identità psichica o “partecipazione mistica” è stato tagliato fuori dal mondo della nostra esperienza. Tuttavia è proprio questo alone di associazioni inconsce a fornire un aspetto colorito e fantastico al mondo dei primitivi. Noi lo abbiamo perduto a tal punto che, anche quando ci ritroviamo in sua presenza, non siamo in grado di riconoscerlo. In noi queste cose risiedono al di sotto della soglia della coscienza; quando tornano occasionalmente ad affiorare insistiamo nel dire che c’è qualcosa che non funziona.
Più di una volta sono stato consultato da persone colte e intelligenti che avevano avuto sogni particolari, fantasie o perfino visioni da cui erano rimaste profondamente impressionate. Esse partivano dal presupposto che nessun essere normale di mente può soffrire di questi disturbi e che chiunque abbia una visione deve inevitabilmente soffrire di uno stato patologico. Un teologo mi disse una volta che le visioni di Ezechiele altro non erano che sintomi morbosi e che quando Mosè e gli altri profeti udivano “voci”, essi soffrivano di allucinazioni. Potete immaginare il panico in cui cadde quando gli capitò personalmente e in modo del tutto “spontaneo” un fenomeno di questo tipo. Noi siamo talmente abituati alla natura apparentemente razionale del mondo in cui viviamo, che ci è difficile immaginare il verificarsi di un evento che non possa venire spiegato sulla base del senso comune. Di fronte a un’impressione di questa specie, l’uomo primitivo non dubiterebbe della sua integrità mentale, ma attribuirebbe il fenomeno a feticci, spiriti o divinità.
Eppure le emozioni da noi provate sono esattamente le stesse. In realtà i terrori che si sprigionano dalla nostra avanzata civiltà possono essere molto più minacciosi di quelli che i popoli primitivi attribuiscono ai demoni. L’atteggiamento caratteristico dell’uomo moderno civilizzato mi riporta alla mente il caso di un paziente psicotico, anch’egli medico, che fu ricoverato nella mia clinica. Una mattina gli chiesi come stava. Egli mi rispose che aveva passato una splendida nottata a disinfettare il cielo con cloruro di mercurio, ma nel corso di questa disinfestazione integrale non aveva trovato alcuna traccia di Dio. In questo caso ci troviamo di fronte a una nevrosi o a qualcosa di peggio: invece di Dio o della “paura di Dio”, qui è presente una nevrosi da ansia o qualche specie di fobia. L’emozione è rimasta la stessa, ma l’oggetto di essa ha modificato in peggio il suo nome e la sua natura.
Mi ricordo di un professore di filosofia che un giorno venne a consultarmi intorno alla sua fobia causata dall’idea di avere un cancro. Egli soffriva per l’assillante convinzione di essere affetto da un tumore maligno, benché da una dozzina di radiografie non fosse mai risultato nulla di simile. “So bene di non aver nulla”, diceva, “ma potrebbe esserci qualcosa”. Cosa produceva quest’idea? Ovviamente essa derivava da una forma di paura che non era suggerita da una convinzione consapevole. Improvvisamente il pensiero morboso aveva preso il sopravvento raggiungendo una tale forza che il soggetto non riusciva più a controllarlo.
Era più diffìcile per questo uomo colto giungere a una ammissione di questo tipo che per un primitivo affermare di essere stato contagiato di peste da uno spirito. Mentre in una cultura primitiva l’influenza maligna degli spiriti costituisce almeno un’ipotesi ammissibile, per un uomo civilizzato è una esperienza sconvolgente ammettere che i suoi disturbi non dipendono da altro che da uno sciocco scherzo dell’immaginazione. Il fenomeno primitivo dell ‘ossessione non è scomparso ed è rimasto lo stesso di sempre: esso viene solo interpretato in maniera diversa e molto più spiacevole.
Io ho compiuto molti confronti di questo tipo fra l’uomo moderno e quello primitivo. Come mostrerò in seguito, tali confronti sono essenziali per comprendere le inclinazioni simboleggiatrici dell’uomo e del ruolo svolto dai sogni nell ‘esprimerle. È facile riscontrare, infatti, che molti sogni presentano immagini e associazioni analoghe a idee, miti e riti primitivi. Queste immagini oniriche furono definite da Freud “resti arcaici”: l’espressione implica che si tratta di elementi psichici sopravvissuti nella mente umana da epoche remote. Questo punto di vista è caratteristico di coloro che considerano l’inconscio come una semplice appendice della coscienza (o, più pittorescamente, come un bidone di immondizie che raccoglie tutti gli scarti della mente conscia).
Ulteriori ricerche mi portarono alla convinzione che questa posizione è insostenibile e da scartare. Mi resi conto che le associazioni e le immagini di questo tipo costituiscono una parte integrale dell’inconscio e possono essere osservate, ovunque, sia che il sognante sia colto o illetterato, intelligente o sciocco. Esse non sono in alcun modo “resti” senza vita o senza significato, ma svolgono ancora una loro funzione e hanno un’importanza notevole proprio a causa della loro natura “storica” (come viene dimostrato dal dottor Henderson in un successivo capitolo di questo libro). Esse costituiscono un tramite fra le guise in cui consciamente esprimiamo i nostri pensieri e un genere di espressione più primitivo, colorito e pittoresco. È proprio questa forma di espressione, del resto, che attrae direttamente il sentimento e l’emozione. Queste associazioni “storiche” costituiscono il legame fra il mondo razionale della coscienza e il mondo dell’istinto.
Ho già discusso l’interessante contrasto fra i pensieri “controllati” da noi posseduti in stato di veglia e la ricchezza delle immagini prodotte dai sogni. A questo punto è possibile scorgere un’altra ragione di questa diversità: dal momento che, nella nostra vita civilizzata, abbiamo privato tante idee della loro energia emotiva, finiamo per non rispondere più a esse in maniera effettiva. Noi usiamo tali idee nel parlare e mostriamo una reazione convenzionale quando altri le usano, ma in realtà esse non producono in noi alcuna impressione profonda. Occorre ben altro per farci aprire gli occhi davanti a certe cose e per costringerci a cambiare in conseguenza di ciò il nostro atteggiamento e il nostro comportamento. Ciò è compito del “linguaggio dei sogni”: il suo simbolismo possiede tanta energia da costringerci a prestargli attenzione.
Per esempio, una signora era ben nota per i suoi stupidi pregiudizi e per la sua ottusa resistenza a qualunque argomento ragionato. Si sarebbe potuto discutere con lei un giorno intero senza ottenere alcun risultato: essa non avrebbe imparato la benché minima cosa. Tuttavia i suoi sogni rivelavano un atteggiamento ben diverso. Una notte essa sognò di intervenire a una importante riunione mondana. Essa venne salutata dalla padrona di casa con queste parole: “È stato gentile da parte sua venire. Tutti i suoi amici sono già qui e la stanno aspettando”. Quindi la padrona di casa la condusse alla porta, l’aprì e la signora fu introdotta in una… stalla!
Il linguaggio di questo sogno era tanto semplice da poter essere compreso anche da uno sciocco. Inizialmente la donna non voleva ammettere il significato effettivo di un sogno che ledeva in maniera così diretta il suo prestigio personale. Tuttavia il messaggio del sogno aveva raggiunto il segno e dopo un po’ di tempo essa dovette accettarlo perché non sopportava la vista della burla di cui era rimasta vittima per suo stesso mezzo.
Questi messaggi dell’inconscio sono più importanti di quello che si pensi comunemente. Al livello della vita conscia noi siamo esposti a influenze di ogni specie: le altre persone ci stimolano o ci deprimono, il lavoro d’ufficio o la vita sociale ci distraggono. Tutto ciò ci porta ad assumere atteggiamenti che non si adattano alla nostra personalità. Possiamo essere consapevoli o meno degli effetti subiti dalla nostra coscienza: tuttavia essa ne è disturbata ed è esposta a essi quasi senza alcuna possibilità di difesa. Ciò si verifica specialmente nel caso di persone il cui atteggiamento mentale estroverso è tutto assorbito dagli oggetti esterni, o di coloro che nutrono sentimenti di inferiorità e di dubbio sul conto della propria personalità interiore.
Quanto più la coscienza viene influenzata da pregiudizi, errori, fantasie e desideri infantili, tanto più la lacuna già esistente tenderà ad assumere le proporzioni di una dissociazione nevrotica e a condurre a un genere di vita più o meno artificiale, lungi da ogni sano istinto, dalla natura e dalla verità.
La funzione generale dei sogni consiste nel restaurare il nostro normale status psicologico attraverso la produzione di materiale onirico che ristabilisce, con una sottile operazione, il nostro totale equilibrio psichico. Questo è ciò che io chiamo il ruolo complementare (o compensatorio) dei sogni nell’ambito della nostra struttura psichica. Ciò spiega perché le persone che hanno idee non realistiche o una troppo alta opinione sul proprio conto, o che fanno progetti grandiosi del tutto sproporzionati alle loro effettive capacità, sognano di volare o di cadere. Il sogno compensa le deficienze della loro personalità e contemporaneamente mette in guardia queste persone contro i pericoli del loro comportamento. Se gli avvertimenti dei sogni non vengono presi in considerazione, possono accadere veri e propri incidenti; la vittima può cadere dalle scale o avere un incidente d’auto.
Ricordo il caso di un uomo che era immerso fino ai capelli in un gran numero di affari poco puliti. Egli maturò una passione pressoché morbosa per le rischiose scalate alpinistiche, come una specie di compensazione. Egli cercava “di superare se stesso”. Una notte sognò di precipitare nel vuoto dalla sommità di un’alta montagna. Quando mi raccontò il sogno compresi subito il pericolo cui andava incontro; cercai perciò di fargli capire l’avvertimento del sogno e di persuaderlo a contenersi. Gli dissi anche che il sogno prediceva la sua morte in un incidente alpinistico. Tutto fu invano. Sei mesi dopo egli “precipitò nel vuoto”. Una guida di montagna lo osservava mentre, insieme a un amico, si stava calando con la corda in un tratto difficile. L’amico aveva trovato un appiglio provvisorio su una sporgenza della parete e il mio cliente lo seguiva. Improvvisamente, secondo il racconto della guida, egli si staccò dalla corda “come se saltasse nel vuoto”. Cadde addosso all’amico e precipitarono insieme. Tutti e due morirono.
Un altro caso tipico fu quello di una signora che aveva un gran concetto di sé. Nella vita di tutti i giorni era molto orgogliosa, ma faceva sogni impressionanti che le portavano alla mente ogni sorta di cose disgustose. Quando io le scoprii, essa rifiutò con indignazione di ammetterle. Allora i sogni si fecero minacciosi e pieni di riferimenti alle passeggiate che essa era solita fare tutta sola nei boschi, dove si abbandonava a fantasie sentimentali. Io compresi il pericolo cui andava incontro, ma essa non volle prestare ascolto ai miei ripetuti avvertimenti. Poco tempo dopo essa venne selvaggiamente aggredita in un bosco da un pervertito sessuale e, se non fosse stato per l’intervento di alcune persone che avevano udito le sue grida, sarebbe stata uccisa.
In tutto questo non c’è nulla di magico. Dai suoi sogni avevo capito che essa nutriva la voglia segreta di vivere una simile avventura, allo stesso modo che lo scalatore inconsciamente andava alla ricerca di un modo definitivo di risolvere le sue difficoltà. Ovviamente, nessuno dei due si aspettava di dover pagare un prezzo così duro; la signora si ritrovò con varie ossa fratturate e lo scalatore perdette la vita.
I sogni, perciò, possono talvolta annunciare certe situazioni molto tempo prima che esse si verifichino attualmente. Non si tratta necessariamente né di un miracolo né di una forma di prescienza. Molte crisi della nostra vita hanno una lunga storia inconscia: noi avanziamo verso di loro a poco a poco, inconsapevoli dei pericoli che si stanno accumulando. Ma ciò che non riusciamo a vedere consciamente viene spesso percepito dall’inconscio, che può trasmetterci l’informazione attraverso i sogni.
I sogni possono spesso avvertirci in questo modo, ma in molte occasioni sembra che ciò non avvenga. Di conseguenza la supposizione dell’esistenza di una mano benevola che sopraggiunge in tempo a trattenerci è discutibile. Ovvero, per dirla in termini più positivi, sembra che una forza benevola di questo tipo a volte intervenga e a volte no. La mano misteriosa può anche indicare la via della perdizione: talvolta i sogni risultano trappole, o almeno tali hanno l’aria di essere. A volte essi si comportano come l’oracolo di Delfo quando disse al re Creso che se avesse attraversato il fiume Halys avrebbe abbattuto un grande regno. Fu solo dopo averlo attraversato ed essere stato completamente sconfìtto in battaglia, che Creso scoprì che il regno indicato dall’oracolo era il suo.
Non possiamo permetterci di essere ingenui nell’interpretazione dei sogni. Essi hanno origine in uno spirito che non è affatto umano, ma che costituisce piuttosto un respiro della natura: uno spirito di questa divinità altrettanto bella e generosa quanto crudele. Se vogliamo caratterizzare tale spirito, dovremo andarlo a studiare, più che nella coscienza dell’uomo moderno, nella sfera delle antiche mitologie o nelle leggende primordiali della foresta. Non voglio certo negare che siano risultati grandi vantaggi dall’evoluzione della società civilizzata, ma tali vantaggi sono stati ottenuti al prezzo di perdite enormi della cui entità abbiamo appena cominciato a renderci conto. Facendo confronti tra lo stato primitivo e quello civilizzato dell’uomo ho avuto per scopo, in parte, quello di mostrare il rapporto tra le perdite e i vantaggi acquisiti.
L’uomo primitivo era governato dai propri istinti molto più profondamente dei suoi moderni discendenti “razionali”, che hanno imparato a “controllarsi”. Nel corso di questo processo di civilizzazione noi siamo venuti scindendo sempre di più la nostra coscienza dagli strati profondi istintivi della psiche umana e infine anche dalla base somatica del fenomeno psichico. Fortunatamente non abbiamo perduto questi strati istintivi di fondo: essi continuano a far parte dell’inconscio anche se possono trovare espressione solo sotto forma di immagini oniriche. Questi fenomeni istintivi, che possono anche non venire sempre riconosciuti per quello che sono, dato il loro carattere simbolico, svolgono un ruolo vitale in quella che io ho definito la funzione compensatrice dei sogni.
Perché si abbiano stabilità mentale e salute fisiologica, l’inconscio e il conscio debbono essere integralmente connessi fra loro e muoversi su piani paralleli. Se vengono scissi o “dissociati”, si crea un disturbo psicologico. Da questo punto di vista i simboli onirici sono i principali portatori di simboli dalle parti istintive a quelle razionali della mente umana e la loro interpretazione arricchisce la coscienza, che in tal modo apprende a capire nuovamente il linguaggio dimenticato degli istinti.
Naturalmente si è portati in generale a mettere in dubbio questa funzione poiché i suoi simboli passano troppo spesso inosservati e restano incompresi. Nella vita normale, l’interpretazione dei sogni viene spesso considerata come una cosa superflua. Sono in grado di illustrare questo punto sulla base di un’esperienza da me fatta in una tribù primitiva dell’Africa Orientale. Con mio grande divertimento quei selvaggi negavano di avere mai avuto sogni: tuttavia, attraverso pazienti colloqui indiretti, scoprii ben presto che anche essi avevano i loro sogni come qualunque altra persona, però erano convinti che essi non avessero alcun significato. “I sogni degli uomini comuni non hanno alcun significato”, mi dissero. Erano convinti che i soli sogni importanti fossero quelli dei capi tribù e degli stregoni: questi ultimi, in particolare, erano assai apprezzati in quanto da essi dipendeva il benessere dell’intera tribù. L’unico inconveniente era che tanto il capo quanto lo stregone andavano dicendo di aver smesso di avere sogni significativi e facevano risalire questo cambiamento all’arrivo degli Inglesi nel loro paese. Il commissario del distretto – l’ufficiale inglese incaricato dell’amministrazione del territorio – aveva assunto la funzione di avere i “grandi sogni” che fino a quel momento avevano guidato il comportamento della tribù.
Quando gli uomini della tribù ammettevano di avere sogni, ma aggiungevano di considerarli del tutto insignificanti, si comportavano nello stesso modo dell’uomo moderno, per il quale un sogno non ha alcun significato solo perché non riesce a comprenderlo. Tuttavia, anche un uomo civilizzato può talvolta osservare che un sogno (da lui magari del tutto dimenticato) è capace di alterare il suo stato d’animo in meglio o in peggio. Il sogno è stato “acquisito”, ma solo al livello subliminale. Questo è il caso più frequente; solo nelle rare occasioni in cui un sogno si presenti con un risalto particolare o si ripeta a intervalli regolari, la maggior parte delle persone propendono a tentarne un’interpretazione.
A questo punto debbo aggiungere una parola di avvertimento contro i tentativi sciocchi o incompetenti di analisi dei sogni. Alcune persone si trovano in condizioni mentali così squilibrate che l’interpretazione dei loro sogni può essere estremamente rischiosa; in casi di questo tipo la coscienza è molto unilaterale e tagliata fuori dall’inconscio che, a sua volta, è altrettanto irrazionale o “irregolare”, cosicché essi non possono venire associati senza prendere speciali precauzioni.
In termini più generali, è una pura sciocchezza riporre fede in guide prefabbricate all’interpretazione dei sogni: ciò equivarrebbe a comprare un libro di consultazione e ricercarvi un simbolo particolare. Nessun simbolo onirico può essere separato dall’individuo che lo sogna e non esiste alcun criterio definitivo o diretto di interpretazione dei sogni individuali. Le persone si differenziano tanto l’una dall’altra nel modo in cui l’inconscio completa o compensa il conscio di ciascuna, che è impossibile stabilire fino a che punto i sogni e i loro simboli possano venire rigorosamente classificati.
È vero che alcuni sogni e simboli singoli (io preferirei chiamarli “motivi”) sono tipici e ricorrono spesso. Fra questi motivi c’è quello della caduta, del volo, la sensazione di essere perseguitati da animali feroci o da persone ostili, di essere vestiti in maniera insufficiente o assurda in luoghi pubblici, di aver fretta o di perdersi tra una folla assiepata, di combattere con armi inutili o di trovarsi completamente indifesi, di correre a perdifiato senza arrivare in nessun luogo. Un motivo tipicamente infantile è costituito dal sogno di diventare infinitamente piccoli o infinitamente grandi, oppure di essere trasformati dalla prima dimensione nella seconda, come si legge, ad esempio, nel libro di Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie. Occorre tuttavia insistere sul fatto che questi motivi debbono essere considerati nel contesto individuale del sogno, non come elementi che si spieghino da soli.
Il sogno ricorrente è un fenomeno interessante. Ci sono casi di persone che hanno continuato ad avere lo stesso sogno dall’infanzia fino all’età adulta. Un sogno di questo tipo rappresenta di solito un tentativo di compensazione di qualche difetto particolare dell’atteggiamento dell’individuo nei riguardi della vita; oppure può avere avuto origine da qualche evento traumatizzante che ha lasciato dietro di sé un pregiudizio specifico. Esso può talvolta anticipare un importante evento del futuro.
Io stesso ho sognato il medesimo motivo per molti anni di seguito: mi trovavo a “scoprire” una parte della mia casa di cui avevo sempre ignorato l’esistenza. Qualche volta si trattava delle stanze in cui avevano vissuto i miei genitori, morti da lungo tempo, e in cui mio padre, con mia grande sorpresa, teneva un laboratorio dove studiava l’anatomia comparata dei pesci e mia madre gestiva un albergo per ospiti dell’aldilà. Di solito quest’ala sconosciuta era un antico edificio storico, da gran tempo dimenticato eppure di mia proprietà ereditaria. Esso conteneva un interessante arredamento antico e verso la fine di questa serie di sogni scoprii una vecchia libreria contenente libri a me sconosciuti. Finalmente, nell’ultimo sogno, aprii uno dei libri e vi trovai riprodotte una grande quantità di figurazioni simboliche che suscitarono la mia più profonda meraviglia. Quando mi svegliai, il cuore mi batteva per l’eccitazione.
Poco tempo prima di fare questo sogno particolare, ultimo della serie, avevo ordinato a un libraio antiquario una delle classiche compilazioni di alchimisti medievali. Nel corso dei miei studi sull’argomento avevo trovato una citazione che, a mio parere, aveva qualche rapporto con l’antica alchimia bizantina e desideravo controllarla. Alcune settimane dopo il sogno in cui mi era apparso quel libro sconosciuto, ricevetti un pacco dal libraio. Esso conteneva un volume del XVI secolo rilegato in pergamena. Era illustrato da affascinanti rappresentazioni simboliche che istantaneamente mi riportarono alla mente quelle che avevo visto nel sogno. Poiché la riscoperta dei principi dell’alchimia venne a costituire una parte importante del mio lavoro pionieristico nel campo della psicologia, il motivo del mio sogno ricorrente può essere facilmente compreso. Naturalmente la casa simboleggiava la mia personalità e l’area conscia dei suoi interessi; l’ala sconosciuta dell’edificio rappresentava l’anticipazione di un nuovo campo di interesse e di ricerca di cui la mia mente conscia era a quel tempo inconsapevole. Da quel momento in poi, cioè trent’anni fa, non ho più avuto quel sogno.
L’analisi dei sogni
All’inizio di questo saggio ho notato la differenza fra segno e simbolo. Il segno è sempre qualcosa di meno rispetto al concetto da esso rappresentato, mentre il simbolo rappresenta qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato. Inoltre, i simboli sono prodotti naturali e spontanei. Nessun genio ha mai preso in mano la penna o il pennello dicendo: “Ora inventerò un simbolo”. Nessuno può prendere un pensiero più o meno razionale, raggiunto come logica conclusione o per intento deliberato, e dargli una forma “simbolica”. Per quanto si possa rivestire un’idea di questo tipo con orpelli fantastici, essa rimarrà pur sempre un segno, legato al pensiero conscio da cui deriva e non sarà mai un simbolo suggestivo di qualcosa non ancora conosciuto. Nei sogni i simboli si presentano spontaneamente poiché i sogni si offrono da soli senza il soccorso dell’invenzione: perciò essi costituiscono la nostra fonte principale per la conoscenza del simbolismo.
Tuttavia devo sottolineare il fatto che i simboli non si presentano solo nei sogni. Essi compaiono in ogni sorta di manifestazioni psichiche: ci sono pensieri, sentimenti, atti e situazioni simbolici. Spesso anche gli oggetti inanimati sembrano cooperare con l’inconscio nella elaborazione di modelli simbolici. Sono numerosi i racconti del tutto autentici secondo i quali alcuni orologi si sono fermati nell’attimo stesso della morte del loro proprietario; uno di questi fu l’orologio a pendolo del palazzo di Federico il Grande a Sans-Souci, che si fermò quando l’imperatore morì. Altri esempi comuni sono quelli dello specchio che si rompe o del quadro che cade nell’attimo stesso di una morte; oppure quello, di minore rilievo ma altrettanto inspiegabile, di oggetti che si rompono improvvisamente in una casa dove ci sia qualcuno assalito da una crisi emotiva. Anche se gli scettici si rifiutano di dar credito a storie come queste, esse si ripetono continuamente e l’alone da cui sono circondate è un indice significativo della loro importanza psicologica.
Ci sono tuttavia molti simboli (fra cui i più importanti) che non sono individuali, ma collettivi nella loro origine e nella loro natura. Si tratta soprattutto di immagini religiose. Il credente suppone che esse abbiano provenienza divina, cioè che siano state rivelate all’uomo. Lo scettico sostiene recisamente che esse sono puro frutto di invenzione. Entrambi sono in errore. È vero, come osserva lo scettico, che i simboli e i concetti religiosi sono stati oggetto per secoli di una elaborazione accurata e del tutto consapevole. D’altra parte, è altrettanto vero, come nota il credente, che la loro origine è a tal punto sepolta nel mistero del passato che essi non sembrano avere un’origine umana. In realtà essi non sono altro che “rappresentazioni collettive” emananti dai sogni primordiali e dalle fantasie creative. In questi termini tali immagini sono manifestazioni del tutto spontanee e non invenzioni intenzionali.
Questo fatto, come spiegherò in seguito, incide direttamente e in misura rilevante sull’interpretazione dei sogni. È ovvio che se si ammette la natura simbolica dei sogni, li interpreteremo in maniera diversa da coloro per i quali il pensiero o l’emozione essenziale e stimolante sono già noti precedentemente e vengono semplicemente “camuffati” dal sogno. In questo caso l’interpretazione dei sogni ha scarso significato poiché porta a scoprire solo ciò che si conosce di già.
È per questa ragione che io non mi sono mai stancato di ripetere ai miei allievi: “Imparate quanto più potete intorno al simbolismo e poi dimenticatevi di tutto quando analizzate un sogno”. Questo consiglio si è rivelato di una così grande importanza pratica che io l’ho assunto come regola per ricordare a me stesso che non è mai possibile comprendere tanto bene il sogno di una persona da essere in grado di interpretarlo correttamente. Mi sono posto in quest’ordine di idee per controllare il flusso delle mie stesse associazioni e reazioni, che altrimenti potrebbero prendere il sopravvento sulle incertezze e le esitazioni dei miei pazienti. Come è della massima importanza terapeutica per l’analista cogliere quanto più accuratamente è possibile il messaggio particolare di un sogno (cioè il contributo fornito dall’inconscio al conscio), così è essenziale per lui esplorare il contenuto di un sogno in tutta la sua totalità.
Quando lavoravo con Freud, feci un sogno che illustra bene quanto sono venuto dicendo. Sognai di trovarmi “a casa mia” apparentemente al primo piano, in un comodo e piacevole salotto arredato in stile settecentesco. Mi stupivo di non avere mai visto prima questa stanza e cominciai a chiedermi come fosse disposto il piano terreno. Scesi dabbasso e mi trovai in un luogo piuttosto buio, dalle pareti rivestite e con un arredamento cinquecentesco o anche di epoca anteriore. La mia sorpresa e la mia curiosità aumentarono. Mi venne la voglia di esplorare ulteriormente tutta la casa. Così scesi in cantina dove trovai una porta che si apriva su una scalinata che conduceva in una grande stanza coperta da una volta. Il pavimento era formato da grandi lastre di pietra e le pareti sembravano molto antiche. Esaminai la malta e mi accorsi che essa era mescolata a schegge di mattone. Ovviamente le pareti erano di origine romana. La mia eccitazione cresceva a dismisura. In un angolo vidi un anello di ferro infìsso in una lastra di pietra. Sollevai la lastra e vidi un’altra scala stretta che portava a una specie di caverna, simile a una tomba preistorica, contenente due teschi, alcune ossa e cocci di ceramica frantumati. A questo punto mi svegliai.3
Se Freud, analizzando questo sogno, avesse seguito il mio metodo di esplorazione del suo contesto e delle sue associazioni specifiche, avrebbe scoperto un racconto di grande importanza. Tuttavia temo che egli lo avrebbe rifiutato nel tentativo di sfuggire a un problema che era tipicamente suo. Il sogno rappresenta di fatto un breve sommario della mia vita, o, più specificamente, del mio sviluppo mentale. Io fui allevato in una casa vecchia di duecento anni, il cui arredamento era composto da mobili antichi dì tre secoli e intellettualmente la mia più grande avventura spirituale era stata, fino a quel momento, lo studio della filosofia di Kant e di Schopenhauer. La novità sensazionale del momento era la teoria di Charles Darwin. Fino a poco tempo prima ero vissuto sotto il peso dei concetti medievali dei miei genitori per i quali il mondo e l’umanità erano regolati dall’onnipotenza e dalla provvidenza divine. Questa concezione ora appariva antiquata e anacronistica. La mia fede cristiana si era relativizzata a contatto con le religioni orientali e la filosofia greca. È per questo motivo che il piano terreno era così silenzioso, oscuro e ovviamente disabitato.
I miei interessi storici di allora si erano sviluppati sulla base di una fondamentale inclinazione per l’anatomia comparata e la paleontologia, mentre lavoravo come assistente presso l’istituto di anatomia. Ero affascinato dalle ossa dei fossili umani, in particolare dal molto discusso uomo di Neanderthal e dall’ancor più dibattuto teschio del Pithecanthropus di Dubois. Queste erano le mie effettive associazioni col sogno, ma non ebbi il coraggio di far menzione dei teschi, degli scheletri e dei cadaveri in presenza di Freud, poiché mi ero reso conto che questo tema non gli era gradito. Egli aveva l’idea fìssa che io prevedessi la sua morte prematura. Arrivò a questa conclusione quando mostrai un grande interesse per le mummie del museo Bleikeller di Brema, che visitammo insieme nel 1909 prima di imbarcarci per l’America.
Mi sentivo riluttante a rivelare i miei pensieri a Freud, poiché di recente mi aveva profondamente impressionato la constatazione che fra la sua concezione e i suoi presupposti mentali e i miei esisteva un abisso pressoché incolmabile. Temevo di perdere la sua amicizia se gli avessi rivelato il mio intimo che, a quanto supponevo, gli sarebbe sembrato in preda ad assurde fantasie. Sentendomi ancora assai incerto sul conto della mia psicologia, quasi automaticamente gli raccontai una bugia sulle mie “libere associazioni” con il proposito di sottrarmi all’impossibile compito di illustrargli la mia situazione estremamente personale e del tutto diversa dalla sua.
È necessario che mi scusi per questa narrazione piuttosto estesa del pasticcio in cui mi cacciai raccontando il mio sogno a Freud. Tuttavia si tratta di un significativo esempio delle difficoltà a cui si va incontro nel corso di una analisi accurata del significato dei sogni. Esse dipendono dalle differenze personali esistenti fra analista e analizzato.
Mi resi subito conto che Freud andava alla ricerca di qualche mio desiderio incompatibile e perciò suggerii come ipotesi che i teschi da me sognati potessero riferirsi ad alcuni membri della mia famiglia di cui desiderassi, per qualche motivo, la morte. La mia proposta incontrò la sua approvazione, ma io non rimasi soddisfatto di questa soluzione “fittizia”.
Mentre cercavo di trovare una risposta adatta agli interrogativi di Freud, mi trovai improvvisamente disorientato da un’intuizione circa il ruolo che i fattori soggettivi occupano nella interpretazione psicologica. La mia intuizione si era imposta con tanta forza che ebbi solo la preoccupazione di cavarmi il più facilmente possibile da quella delicata situazione e mi rifugiai nella menzogna. Ciò non era né elegante né moralmente giustificabile, ma se mi fossi comportato diversamente avrei rischiato di urtarmi fatalmente con Freud e io non me la sentivo per molte ragioni.
La mia intuizione mi aveva rivelato improvvisamente e in maniera del tutto imprevista la consapevolezza che il sogno da me fatto si riferiva solo a me, alla mia vita, al mio mondo, alla mia intera realtà in contrapposizione a una struttura teoretica che era stata costruita dalla mente di un altro, di un estraneo, per ragioni e scopi suoi personali. Il sogno era mio, non di Freud, e d’un colpo compresi il suo significato, come in un’illuminazione.
Questo conflitto illustra un punto vitale dell’analisi dei sogni. Non si tratta di una tecnica che possa essere appresa e applicata secondo regole prestabilite come uno scambio dialettico fra due personalità. Se essa viene utilizzata come una tecnica meccanica, la personalità psichica dell’individuo che sogna va perduta e il problema terapeutico si riduce semplicemente al problema di sapere quale fra le due persone interessate – l’analista o l’analizzato – finirà col prevalere sull’altra. Rinunciai proprio per questa ragione al trattamento ipnotico poiché non volevo imporre agli altri la mia volontà. Il mio scopo era quello di far sì che il processo di guarigione maturasse dalla personalità stessa del paziente e non dalle mie suggestioni che avrebbero avuto solo un effetto temporaneo. Miravo essenzialmente a proteggere e preservare la dignità e la libertà del mio paziente affinché egli potesse vivere la propria vita secondo i suoi desideri. In questa fase dei miei rapporti con Freud mi resi conto per la prima volta che prima di costruire teorie generali sull’uomo e la sua psiche, dobbiamo imparare un gran numero di cose in più sulla realtà dell’essere umano che è oggetto del nostro studio.
L’individuo è l’unica realtà. Quanto più ci allontaniamo dall’individuo nell’elaborazione di idee astratte sull’Homo sapiens, tanto più siamo sottoposti all’errore. In quest’epoca di sconvolgimenti sociali e di rapidi mutamenti, è desiderabile arrivare a sapere molto di più di quanto sappiamo attualmente sul conto dell’essere umano individuale, dal momento che dalle sue qualità mentali e morali dipendono tante cose importanti. Tuttavia, se vogliamo vedere ogni cosa nella sua giusta prospettiva, dobbiamo metterci in grado di capire il passato dell’uomo altrettanto bene del suo presente. È per questa ragione che l’interpretazione dei miti e dei simboli è d’importanza fondamentale.
Il problema dei tipi
In tutte le altre branche della scienza, è legittimo applicare un’ipotesi a un argomento impersonale. Invece la psicologia si trova ad avere a che fare inevitabilmente con le relazioni vive di due individui, nessuno dei quali può essere spogliato della sua personalità soggettiva né spersonalizzato in qualche altro modo. L’analista e il paziente possono trovarsi d’accordo nell’affrontare un particolare problema scelto da entrambi in modo impersonale e oggettivo; ma una volta che essi abbiano intrapreso l’analisi, le loro personalità sono interamente impegnate nella discussione. A questo punto è possibile fare dei progressi solo a patto che venga raggiunto un accordo reciproco.
È possibile esprimere un giudizio oggettivo sul risultato finale? Solo se facciamo un confronto fra le nostre conclusioni e i criteri generali che sono validi nel milieu sociale a cui gli individui singolarmente appartengono. Anche in questa fase di giudizio dobbiamo tener presente l’equilibrio mentale dell’individuo analizzato. Infatti il risultato non può approdare a un livellamento collettivo integrale dell’individuo per adattarlo alle “norme” della società in cui vive. Ciò corrisponderebbe a una condizione del tutto innaturale. Una società sana e normale deve essere composta da persone che non condividono abitualmente i reciproci punti di vista, poiché l’accordo generale è relativamente raro al di fuori della sfera delle qualità umane istintive.
Il disaccordo ha una funzione strumentale nella vita mentale di una società e non rappresenta lo scopo principale: l’accordo, infatti, è altrettanto importante. Siccome la psicologia dipende fondamentalmente dal gioco degli opposti che si equilibrano reciprocamente, nessun giudizio può essere considerato definitivo se non implica un criterio di reversibilità. La ragione di ciò consiste nel fatto che al di sopra o al di fuori della psicologia non esiste alcun principio che ci consenta di esprimere un giudizio definitivo intorno alla natura della psiche.
Nonostante che i sogni richiedano un trattamento individuale, sono necessari alcuni criteri generali per classificare e chiarire il materiale che lo psicologo viene raccogliendo attraverso lo studio di molti individui. Naturalmente sarebbe impossibile formulare una qualunque teoria psicologica, o insegnarla, attraverso la semplice descrizione di un gran numero di casi separati senza che ci si preoccupasse di scorgere i loro elementi comuni e quelli differenzianti. Qualsiasi caratteristica generale deve essere scelta sulla base di un criterio fondamentale. Per esempio si può adire a una distinzione relativamente semplice fra individui con personalità “estroverse” e altri individui con personalità “introverse”. Questa è solo una delle molte generalizzazioni possibili, ma permette di scorgere immediatamente le difficoltà che possono presentarsi nel caso che l’analista appartenga a un tipo e il paziente all’altro.
Poiché un’analisi più approfondita dei sogni comporta il confronto di due individui, ci sarà ovviamente una grande differenza a seconda che essi abbiano lo stesso tipo di atteggiamento oppure no. Se entrambi appartengono allo stesso tipo, essi possono collaborare insieme felicemente per molto tempo. Ma se uno di loro è un estroverso e l’altro un introverso, i loro diversi e contraddittori atteggiamenti possono contrastarsi reciprocamente, soprattutto nel caso che essi siano rispettivamente inconsapevoli del loro tipo di personalità o che siano convinti di essere ciascuno dalla parte esclusiva della ragione. L’estroverso, per esempio, sceglierà il punto di vista più comune e l’introverso lo rifiuterà perché si tratta di un atteggiamento alla moda. Una incomprensione di questo tipo è piuttosto frequente poiché ciò che per l’uno è un valore, per l’altro è il contrario. Ad esempio, Freud, interpretò il tipo introverso come un individuo morbosamente interessato a se stesso. Tuttavia, l’introspezione e la conoscenza di sé possono essere della massima importanza.
È necessario nel modo più assoluto prendere in considerazione queste differenze di personalità nel corso dell’interpretazione dei sogni. L’analista non deve essere considerato come una specie di superuomo al di sopra di tutte queste differenze, solo per il fatto che è un medico e che ha elaborato una teoria psicologica e una tecnica corrispondente. Egli può ritenersi superiore solo nella misura in cui supponga che la teoria e la tecnica da lui elaborate siano verità assolute capaci di abbracciare l’intera psiche umana. Tuttavia, siccome una supposizione di questo tipo è più che discutibile, egli non può farvi sicuro affidamento. Di conseguenza egli verrà segretamente assalito da dubbi nell’atto di confrontare la personalità umana globale del suo paziente con una teoria o una tecnica (che rappresentano esclusivamente ipotesi o tentativi) invece che con la sua vivente personalità globale.
La personalità globale dell’analista è l’unico equivalente adeguato della personalità del paziente. L’esperienza e la conoscenza psicologiche pongono l’analista su un piano di mera superiorità pratica. Esse non lo pongono al di fuori della mischia nella quale, anzi, si trova implicato al pari del paziente. Perciò è un fattore di estrema importanza che le loro personalità si armonizzino, ovvero siano in conflitto o complementari.
L’estroversione e l’introversione costituiscono solo due fra le molte particolarità del comportamento umano; tuttavia esse sono spesso piuttosto ovvie e facilmente identificabili. Se si studia, per esempio, l’individuo estroverso, ci si rende subito conto che esso si differenzia sotto molti punti di vista dagli altri individui del suo stesso tipo e che perciò quello dell’estroversione è un criterio troppo superficiale e generico per costituire una caratteristica indicativa. Per questo motivo, molto tempo fa, io ho cercato di rinvenire altre peculiarità fondamentali che fossero in grado di fornire qualche limite alle variazioni apparentemente infinite dell’individualità u mana.
Mi ha sempre colpito il fatto che un numero sorprendentemente elevato di individui non facciano uso della mente se possono farne a meno e che un numero equivalente di essi usino la mente in un modo sorprendentemente stupido. Io fui altresì sorpreso dal fatto che molte persone intelligenti e aperte vivessero, almeno nella misura in cui era possibile rilevarlo, come se non avessero mai appreso l’uso dei loro organi sensoriali: non vedevano le cose più evidenti, non udivano le parole che risuonavano loro negli orecchi, o non percepivano ciò che toccavano o gustavano. Alcuni di loro vivevano senza esser consapevoli della condizione del loro corpo.
C’erano poi altri che davano l’impressione di vivere in una curiosissima condizione di coscienza, come se lo stato in cui si trovavano attualmente dovesse essere definitivo, senza alcuna possibilità di cambiamento, o come se il mondo e la psiche fossero statici e immutabili per sempre. Essi sembravano privi di ogni immaginazione e sensibili, in maniera totale ed esclusiva, alla percezione dei sensi. Nel loro mondo non esistevano fattori casuali o possibilità e nel loro “oggi” non era presupposto alcun effettivo “domani”. Per essi il futuro era una semplice ripetizione del passato.
Io cerco qui di fornire al lettore un rapido panorama delle prime impressioni da me provate quando cominciai a osservare le molte persone che si presentavano alla mia attenzione. Mi apparve subito chiaro, tuttavia, che a usare la mente erano solo le persone che pensavano, cioè quelle che applicavano le loro facoltà intellettuali nel tentativo di adattarsi alle altre persone e alle circostanze. Coloro che, pur essendo dotati della medesima intelligenza, non ne facevano uso, cercavano e trovavano la loro strada al livello del sentimento (feeling).
“Sentimento” è una parola che ha bisogno di qualche spiegazione. Per esempio c’è chi parla di “sentimento” quando è in gioco il “sentimentalismo” (corrispondente alla parola francese sentiment). Altri applicano la stessa parola per definire un’opinione: per esempio, una comunicazione della Casa Bianca può cominciare nel seguente modo: “Il Presidente sente…” Inoltre la parola può essere usata per esprimere una intuizione: “Io sentivo che…”
Quando io uso la parola “sentimento” in contrasto con “pensiero”, mi riferisco a un giudizio di valore – per esempio: piacevole o spiacevole, buono o cattivo, e via dicendo. Secondo questa definizione il sentimento non è un’emozione (che, come dice la parola, è involontaria). Il sentimento, come l’intendo io, è (come il pensiero) una funzione razionale (cioè imperativa), mentre l’intuizione è una funzione irrazionale (cioè percettiva). Nella misura in cui l’intuizione è una “impressione”, essa non costituisce il prodotto di un atto volontario; essa è piuttosto un evento involontario, dipendente da diverse circostanze esterne o interne, che un vero e proprio atto di giudizio. L’intuizione assomiglia piuttosto alla percezione sensoriale, che è un evento altrettanto irrazionale nella misura in cui dipende essenzialmente da stimoli oggettivi fondati su cause fisiche e non mentali.
Questi quattro tipi funzionali corrispondono ai mezzi naturali tramite i quali la coscienza viene orientandosi nel corso dell’esperienza. La sensazione (cioè la percezione sensoriale) ci dice che qualcosa esiste; il pensiero ci mette al corrente di che cosa si tratta; il sentimento ci rivela se si tratta di una cosa più o meno piacevole; l’intuizione ci fa capire la provenienza e il fine di essa.
Il lettore si renderà conto che questi quattro criteri su cui si fondano i corrispondenti tipi di comportamento umano sono solo concetti relativi, come la volontà di potenza, il temperamento, l’immaginazione, la memoria e così via. Essi non sono affatto dogmatici, ma per la loro natura si rivelano validi criteri di classificazione, lo li trovo particolarmente utili quando debbo spiegare il comportamento dei figli ai genitori, quello delle mogli ai mariti, e viceversa. Essi si rivelano utili anche per la comprensione dei nostri pregiudizi personali.
Perciò, se vogliamo comprendere il sogno di un’altra persona, dobbiamo sacrificare le nostre predilezioni e sopprimere i nostri pregiudizi soggettivi. Ciò non è né facile né comodo poiché implica uno sforzo morale che non tutti sono capaci di compiere. Ma se l’analista non si sforza di criticare le proprie posizioni e di ammettere la relatività del proprio punto di vista, egli non arriverà ad avere né una corretta informazione né una comprensione sufficiente della mente del paziente. L’analista deve poter contare almeno sulla buona disposizione del paziente ad ascoltarlo e a prendere seriamente le sue parole, e lo stesso diritto deve essere assicurato al paziente. Benché questo tipo di rapporto sia indispensabile per una reciproca comprensione, e si dimostri palesemente necessario, non bisogna mai dimenticare che nel corso della terapia il fatto più importante è che il paziente capisca e non che vengano soddisfatte le previsioni teoriche dell’analista. La resistenza del paziente all’interpretazione dell’analista non è necessariamente errata; si tratta piuttosto di un sintomo sicuro che qualcosa non funziona. I casi sono due: o il paziente non ha ancora raggiunto un grado sufficiente di comprensione, oppure l’interpretazione non è adeguata.
I nostri tentativi di interpretazione dei simboli onirici di un’altra persona sono pressoché invariabilmente condizionati dalla nostra tendenza a colmare le inevitabili lacune dell’interpretazione ricorrendo alla proiezione, cioè alla supposizione che quanto viene percepito o pensato dall’analista sia ugualmente percepito o pensato dal paziente. Per evitare questa causa di errore, io ho sempre insistito sull’importanza di mirare direttamente al contesto del sogno particolare escludendo ogni implicazione teorica sui sogni in generale, fatta eccezione per quelle ipotesi che possono essere autorizzate esplicitamente dal sogno.
Da quanto sono venuto dicendo risulterà chiaro che non si possono assumere regole generali di interpretazione dei sogni. Quando suggerivo che la funzione dei sogni sembra esaurirsi completamente nella compensazione delle deficienze o delle distorsioni della mente conscia, intendevo dire che questa ipotesi era in grado di fornire il più adeguato procedimento per l’interpretazione della natura particolare dei singoli sogni. In alcuni casi la validità di questa ipotesi è chiaramente dimostrata.
Un mio paziente aveva una grande opinione di sé e non si rendeva conto che quasi tutti i suoi conoscenti erano irritati da questo suo atteggiamento di superiorità morale. Egli venne da me a raccontarmi un sogno in cui aveva visto un vagabondo ubriaco che rotolava in un fossato. Questa visione gli aveva suscitato solo questo commento moralistico: “È terribile vedere quanto in basso possa cadere un uomo”. Era chiaro che la spiacevole natura del sogno costituiva almeno in parte un tentativo per controbilanciare l’alta opinione che egli aveva dei suoi meriti. Tuttavia c’era di più: infatti venne fuori il fatto che egli aveva un fratello alcoolizzato cronico. Il sogno rivelava altresì che il suo atteggiamento di superiorità mirava a compensare il fratello sia sotto il profilo esteriore che interiore.
Ricordo un altro caso di una signora che andava fiera della sua conoscenza profonda della psicologia e che sognava ripetutamente una donna. Quando la incontrava nella vita di tutti i giorni non le piaceva e la considerava una intrigante fatua e disonesta. Invece in sogno la donna le appariva quasi come una sorella, una persona amica e piacevole. La mia paziente non riusciva a capire come mai potesse sognare in termini così favorevoli di una persona che essa disprezzava; il fatto è che questi sogni tendevano a significare che essa stessa possedeva inconsciamente un carattere simile a quello dell’altra donna. La mia paziente, che aveva idee ben chiare intorno alla propria personalità, riusciva difficilmente a rendersi conto che il sogno le rivelava il proprio complesso autoritario e le proprie motivazioni occulte: tutte influenze inconsce che, in più di un caso, l’avevano portata ad avere spiacevoli litigi con i suoi amici. Essa aveva sempre biasimato gli altri per questi litigi, mai se stessa.
Noi siamo portati a trascurare, a non prendere in considerazione e a rimuovere non soltanto l’aspetto recondito della nostra personalità: possiamo fare lo stesso con le nostre qualità positive. Mi viene in mente il caso di un uomo apparentemente modesto e schivo, di squisite maniere. Egli dava sempre l’impressione di volersi tenere in disparte, ma insisteva con discrezione per essere presente. Quando veniva richiesta la sua opinione egli si dimostrava sempre ben informato, ma non faceva nulla per imporre il proprio punto di vista. Tuttavia egli faceva a volte capire che una determinata questione avrebbe potuto essere affrontata molto meglio a un livello superiore (anche se non spiegava mai in che modo).
In sogno, tuttavia, egli si trovava di fronte costantemente a grandi personaggi storici, come Napoleone o Alessandro Magno. Questi sogni miravano chiaramente a compensare un complesso di inferiorità, ma avevano anche un’altra implicazione. Che razza d’uomo devo mai essere, implicava il sogno, per avere visitatori così illustri? Da questo punto di vista i sogni indicavano una megalomania segreta che controbilanciava il sentimento di inferiorità del soggetto. Questa idea inconscia di grandezza lo isolava dalla realtà del suo ambiente e gli consentiva di sottrarsi agli obblighi che sarebbero stati imperativi per altre persone. Egli non sentiva alcun bisogno di dimostrare, né a se stesso né agli altri, che il suo superiore giudizio era basato su una superiorità di meriti.
Egli, in realtà, giocava inconsciamente a un gioco insensato e i sogni tentavano di portare questo gioco al livello della coscienza in un modo curioso e ambiguo. Intrattenersi con Napoleone e parlare in termini confidenziali con Alessandro Magno costituiscono le tipiche fantasie prodotte da un complesso di inferiorità. Ci si potrebbe domandare, tuttavia, come mai il sogno non rivelava tutto ciò in maniera aperta e diretta, senza alcuna ambiguità.
Mi sono posto di frequente questo problema e sono arrivato a dargli una risposta. Spesso mi sorprende il modo tortuoso attraverso il quale i sogni sembrano sfuggire a una precisa informazione od omettere il dato decisivo. Freud aveva ipotizzato l’esistenza di una speciale funzione della psiche, da lui definita il “censore”. Secondo lui il “censore” deformava le immagini del sogno rendendole irriconoscibili o non più attendibili in modo da ingannare la coscienza del sognante intorno all’oggetto reale del sogno. Mascherando il pensiero critico al sognante, il “censore” proteggeva il suo sonno dall’emozione di ricordi spiacevoli. Io sono scettico nei confronti di questa teoria secondo la quale il sogno sarebbe un guardiano del sonno; in realtà, molto spesso i sogni disturbano il sonno.
È più verosimile che l’approccio alla coscienza abbia un effetto di “cancellamento” sopra i contenuti subliminali della psiche. Lo stato subliminale trattiene le idee e le immagini a un livello di tensione molto inferiore rispetto a quello che esse posseggono nella coscienza. Al livello subliminale esse perdono in chiarezza e definizione; le loro reciproche relazioni sono meno consequenziali e più vagamente analoghe, meno razionali e perciò più “incomprensibili”. Ciò può essere osservato anche in tutte le condizioni che si avvicinano allo stato onirico, sia che dipendano da affaticamento, da febbre o da tossine. Tuttavia se in qualche caso capita di fornire a qualcuna di queste immagini una tensione maggiore, esse divengono subliminali e, in quanto più prossime alla soglia della coscienza, meno vagamente definite.4
Da ciò si può capire come mai i sogni si esprimano sovente sotto forma di analogie, o perché un’immagine onirica si confonda con un’altra senza che sia possibile applicare né il criterio logico né quello temporale della nostra vita cosciente. La forma assunta dai sogni è naturale per l’inconscio in quanto il materiale da cui essi sono costituiti è trattenuto al livello subliminale esattamente in questo modo. I sogni non difendono il sonno da ciò che Freud chiamava il “desiderio incompatibile”. Ciò che egli definiva “camuffamento” costituisce di fatto la veste naturale assunta da tutti gli impulsi nell’inconscio. Per questi motivi il sogno non può produrre un pensiero definito. Quando comincia a farlo, esso cessa di essere un sogno perché varca la soglia della coscienza. È per questo motivo che i sogni sembrano schivare proprio quegli elementi che sono più importanti per la mente conscia e danno l’impressione di manifestare piuttosto la “frangia della coscienza”, simile al tenue luccichio delle stelle durante un’eclissi totale del sole.
È necessario rendersi conto che i simboli onirici sono per la maggior parte manifestazioni di una psiche che sta al di là del controllo della mente conscia. Il significato e l’intenzionalità non sono prerogative della mente: essi operano nel contesto totale della natura vivente. Non c’è alcuna differenza di principio fra lo sviluppo organico e quello psichico: come la pianta produce il fiore, così la psiche crea i propri simboli. Ciascun sogno costituisce una prova di questo processo.
Perciò, per mezzo dei sogni (oltre che attraverso ogni specie di intuizioni, impulsi e altri eventi spontanei), le forze istintive influenzano l’attività della coscienza. Il fatto che tale influenza si esprima positivamente o negativamente dipende dai contenuti attuali dell’inconscio. Se esso contiene troppe cose che normalmente dovrebbero esprimersi al livello della coscienza, la sua funzione viene distorta e pregiudicata; i moventi non risultano fondati su istinti autentici, ma derivano la loro ragion d’essere e la loro importanza psichica dal fatto di essere stati consegnati all’inconscio per rimozione o trascuratezza. Essi, per così dire, opprimono la normale psiche inconscia e deformano la sua tendenza naturale a esprimere i simboli emotivi di fondo. Perciò è legittimo, per uno psicoanalista che si occupi delle cause dei disturbi mentali, condurre il proprio paziente al punto di confessare o di rendersi conto più o meno consapevolmente di tutto ciò che costituisce per lui motivo di disagio o di timore.
Ciò assomiglia all’antica confessione della Chiesa che, sotto molti aspetti, ha anticipato le moderne tecniche psicologiche. Questa è, almeno, la regola generale. In pratica, tuttavia, ciò può rivelarsi controproducente: uno schiacciante senso di inferiorità o una grave forma di debolezza può rendere al paziente assai difficile, o persino impossibile, il compito di prendere direttamente coscienza della propria inadeguatezza. Perciò mi è sembrato spesso utile cominciare col fornire al paziente una visione positiva: ciò serve a dargli un utile senso di sicurezza quando si appresta a intraprendere un penoso lavoro di introspezione.
Si prenda, ad esempio, il caso di un sogno di “esaltazione personale”, in cui il soggetto si immagini di prendere il tè con la regina d’Inghilterra o di intrattenersi in intimo colloquio con il Papa. Se il sognante non è uno schizofrenico, l’interpretazione pratica del sogno dipende in misura decisiva dallo stato attuale della sua mente, cioè dalla condizione del suo ego. Se il sognante sopravvaluta le proprie capacità, è facile dimostrare (sulla base del materiale prodotto dall’associazione di idee) quanto inappropriate e infantili siano le sue intenzioni e quanto profondamente esse derivino da desideri infantili di essere alla pari o superiore rispetto ai suoi genitori. Ma se si tratta di un caso di inferiorità, in cui un sentimento integrale di inutilità abbia già sopraffatto tutti gli aspetti positivi della personalità del sognante, sarebbe un errore deprimerlo ancora di più mostrandogli quanto infantile, ridicola e perfino perversa sia la sua personalità. Ciò aumenterebbe crudelmente il suo complesso di inferiorità e provocherebbe un atteggiamento di resistenza al trattamento, non meno inopportuno che controproducente.
Non si tratta affatto di una tecnica terapeutica o di una dottrina di generale applicazione, poiché ogni singolo caso che l’analista si trova a sottoporre a trattamento è indicativo di condizioni individuali del tutto specifiche. Mi ricordo di un paziente che ebbi in trattamento per un periodo di nove anni. Lo vedevo solo per poche settimane all’anno poiché viveva all’estero. Fin dall’inizio compresi il suo problema reale, ma mi resi conto altrettanto bene che il minimo tentativo di affrontare la verità produceva una violenta reazione difensiva che minacciava di rompere completamente i nostri rapporti reciproci. Sia che mi piacesse o no, dovevo far di tutto per mantenere i nostri buoni rapporti e assecondare la sua inclinazione che era sostenuta dai sogni e che portava la nostra discussione al di fuori del campo in cui era radicata la sua nevrosi. Divagavamo a tal punto che spesso mi sono accusato di fuorviare il mio paziente. Mi tratteneva dal porlo brutalmente di fronte alla verità solo il fatto che la sua condizione migliorava nettamente anche se con lentezza.
Dopo dieci anni, tuttavia, il paziente dichiarò spontaneamente di essere guarito e di sentirsi liberato da tutti i sintomi. Io restai sorpreso poiché, teoricamente, la sua condizione era incurabile. Notando il mio stupore, egli sorrise dicendo: “Desidero ringraziarla soprattutto per il suo sicuro intuito e per la pazienza con cui mi ha aiutato ad aggirare la causa penosa della mia nevrosi. Sono disposto a dirle tutto. Se mi fosse stato possibile parlarne liberamente con lei, le avrei detto tutto nel corso della nostra prima consultazione; ma ciò avrebbe distrutto i nostri buoni rapporti. Come mi sarei ritrovato dopo una simile confessione? Di fronte a un fallimento morale. Durante questi dieci anni ho imparato ad avere fiducia in lei e quanto più cresceva la mia fiducia, tanto più le mie condizioni miglioravano. Io ho ottenuto questo miglioramento proprio in seguito a questo lento processo che mi ha restituito la fiducia in me stesso. Ora mi sento abbastanza forte da discutere con lei il problema che mi tormentava”.
Egli mi confessò quindi con spietata franchezza il suo problema, che mi fornì la giustificazione del particolare trattamento che avevamo dovuto seguire. Il suo shock iniziale era stato tanto forte da renderlo incapace di affrontarlo. Egli aveva bisogno dell’aiuto di un’altra persona e il compito della terapia era quello di portare alla lenta instaurazione di un rapporto di fiducia, piuttosto che alla dimostrazione di una teoria clinica.
Da casi come questi ho imparato a adattare i miei metodi alle necessità individuali del paziente, piuttosto che ad affidarmi a considerazioni teoriche generali che potrebbero risultare inapplicabili nei singoli casi individuali. La conoscenza della natura umana da me accumulata nel corso di sessant’anni di esperienza pratica mi ha insegnato a considerare ogni caso come un’esperienza nuova in cui, predominante sugli altri, si pone il problema dell’instaurazione di un rapporto personale. Talvolta non ho esitato a immergermi in uno studio accurato di avvenimenti e di fantasie infantili; altre volte ho cominciato dal fondo, anche se ciò significava immergersi direttamente nelle più remote speculazioni metafisiche. L’importante è capire il linguaggio individuale del paziente e seguire i suoi affannosi tentativi per emergere dall’inconscio alla luce. In alcuni casi è necessario applicare un certo metodo, in altri un metodo diverso.
Ciò è vero soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione dei simboli. Due diversi individui possono fare all’incirca lo stesso sogno. (Questo fenomeno è meno infrequente di quanto non si pensi comunemente e si manifesta ben presto nel corso dell’esperienza clinica.) Eppure se, per esempio, un paziente è giovane e l’altro vecchio, il problema che disturba ciascuno di loro è rispettivamente diverso e sarebbe assolutamente assurdo voler interpretare tutti e due i sogni nello stesso modo.
Mi viene alla mente un sogno in cui un gruppo di giovani cavalca in una vasta prateria. Il sognante guida il gruppo e cade in un fossato pieno d’acqua, rivelando agli altri il pericolo. Tuttavia anche gli altri cavalieri cadono nel fossato.
Il giovane che venne a raccontarmi questo sogno era un tipo cauto e introverso. Però io ascoltai lo stesso sogno da un vecchio di carattere avventuroso che aveva vissuto una vita attiva e movimentata. Quando egli fece questo sogno era ormai in una condizione di invalidità che richiedeva le cure assidue di un’infermiera e di un medico: egli si trovava in questo stato per aver trasgredito alle istruzioni del medico.
Chiaramente, questo sogno indicava al giovane ciò che egli avrebbe dovuto fare e al vecchio ciò che stava tuttora facendo. Mentre esso qui incoraggiava le esitazioni del giovane, non faceva altrettanto con il vecchio: lo spirito avventuroso da cui era ancora pervaso costituiva il suo maggior pericolo. Questo esempio dimostra come l’interpretazione dei sogni e dei simboli dipenda largamente dalle circostanze individuali in cui si trova il soggetto e dalle condizioni della sua mente.
L’archetipo nel simbolismo dei sogni
Ho già indicato che i sogni assolvono una funzione di compensazione. Ciò significa che il sogno è un normale fenomeno psichico che trasmette reazioni inconsce o impulsi spontanei alla coscienza. Molti sogni possono essere interpretati con la partecipazione del sognante che fornisce le necessarie associazioni e il contesto dell’immagine onirica per mezzo delle quali si può considerare il sogno in tutti i suoi aspetti.
Questo metodo risulta adeguato nei casi ordinari, cioè quelli in cui un parente, un amico o un paziente vi raccontano il proprio sogno sommariamente nel corso di una conversazione. Ma quando si tratta di sogni ossessivi o altamente emotivi, le associazioni personali fornite dal sognante di solito non servono a indicare le linee di una soddisfacente interpretazione. In questi casi dobbiamo prendere in considerazione il fatto (osservato e commentato originariamente da Freud) che in sogno ricorrono spesso elementi non individuali e non ricavabili dall’esperienza personale del sognante. Tali elementi, come ho indicato precedentemente, sono quelli che Freud chiamava “resti arcaici”, cioè forme mentali la cui presenza non può essere spiegata da alcun elemento della vita individuale del paziente e che si rivelano come dati primordiali, innati ed ereditari della mente umana.
Come il corpo umano costituisce un complesso museo di organi, ciascuno dei quali possiede una lunga storia evolutiva dietro di sé, così dobbiamo prevedere che la mente sia organizzata in modo simile. Essa deve essere un prodotto storico alla stessa stregua del corpo in cui si trova a esistere. Per “storia” non intendo il fatto che la mente si venga sviluppando da sola attraverso riferimenti coscienti al passato tramite il linguaggio e altre tradizioni culturali. Io mi riferisco bensì allo sviluppo biologico, preistorico e inconscio della mente nell’uomo arcaico, la cui psiche era altrettanto chiusa di quella dell’animale.
Questa psiche straordinariamente antica costituisce la base della nostra mente, così come la struttura del nostro corpo è fondata sul modello anatomico generale del mammifero. L’occhio esercitato dell’anatomista o del biologo rinviene nel nostro corpo molte tracce di questo modello originario. Lo studioso sperimentato della mente può ugualmente rinvenire analogie equivalenti fra le raffigurazioni oniriche dell’uomo moderno e i prodotti della mente primitiva, le sue “immagini collettive” e i suoi motivi mitologici.
Tuttavia, come il biologo ha necessità di far ricorso all’anatomia comparata, così lo psicologo non può fare a meno di un’“anatomia comparata della psiche”. In altri termini, lo psicologo non solo deve avere una sufficiente esperienza pratica dei sogni e degli altri prodotti dell’attività inconscia, ma anche della mitologia nella sua più larga accezione. Senza questa preparazione è impossibile cogliere le analogie importanti: per esempio, è impossibile scorgere l’analogia fra un caso di nevrosi da coercizione e quello classico di ossessione demoniaca, senza avere una effettiva conoscenza di entrambi.
La mia teoria sui “resti arcaici”, da me definiti “archetipi” o “immagini primordiali”, è stata sempre criticata da coloro che non hanno una conoscenza appropriata dei sogni e della mitologia. Il termine “archetipo” è spesso frainteso in quanto viene identificato con certe immagini definite o precisi motivi mitologici. Questi, in realtà, non sono altro che rappresentazioni consce; sarebbe assurdo pensare che tali rappresentazioni variabili fossero ereditarie.
L’archetipo è invece la tendenza a formare singole rappresentazioni di uno stesso motivo che, pur nelle loro variazioni individuali anche sensibili, continuano a derivare dal medesimo modello fondamentale. Esistono, per esempio, molte rappresentazioni del motivo dei fratelli nemici, ma il motivo rimane sempre lo stesso. I miei critici hanno sempre erroneamente sostenuto che io presupponga l’esistenza di “rappresentazioni ereditarie” e su questa base hanno liquidato l’idea di archetipo come mera superstizione. Essi non hanno preso in considerazione il fatto che se gli archetipi fossero veramente rappresentazioni create (o acquisite) dalla nostra coscienza, noi dovremmo essere sicuramente in grado di comprenderle senza trovarci stupefatti e perplessi quando essi si presentano alla coscienza. Essi, in realtà, sono tendenze istintive altrettanto marcate quanto lo è l’impulso degli uccelli a costruire il nido, o quello delle formiche a dar vita a colonie organizzate.
A questo punto è necessario chiarire la relazione fra istinti e archetipi. Quelli che noi chiamiamo propriamente istinti, sono costituiti da stimoli fisiologici e risultano percepibili dai sensi. Essi però si manifestano contemporaneamente anche in veste di fantasie e spesso rivelano la loro presenza solo per mezzo di immagini simboliche. Queste manifestazioni sono ciò che io chiamo archetipi. La loro origine è ignota e si riproducono in ogni tempo e in qualunque parte del mondo, anche laddove bisogna escludere qualsiasi fattore di trasmissione ereditaria diretta o per “incrocio”.
Mi ricordo numerosi casi di persone che sono venute a consultarmi perché erano sconcertate dai loro sogni o da quelli dei propri figli. Esse erano assolutamente incapaci di comprendere il loro significato. Ciò dipendeva dal fatto che i sogni contenevano immagini non riferibili ad alcuno dei loro ricordi o ad alcunché che potesse essere stato trasmesso ai figli dai genitori stessi. Eppure alcuni di questi pazienti erano individui di eccellente cultura; qualcuno era addirittura psichiatra.
Mi rammento assai bene il caso di un professore che, in seguito a un’improvvisa visione, si era messo in testa di essere matto. Egli venne a trovarmi in preda a un panico totale, lo mi limitai a prendere da uno scaffale un libro stampato quattro secoli prima e a mostrargli un’antica incisione che raffigurava esattamente la sua visione. “Lei non ha alcun motivo per ritenersi matto”, gli dissi. “La sua visione era già nota quattro secoli fa.” A queste mie parole, egli si lasciò cadere sopra una sedia completamente rilassato e di nuovo normale.
Un caso molto interessante mi venne offerto da uno psichiatra. Un giorno egli mi portò un quadernetto scritto a mano che aveva ricevuto in dono per Natale dalla propria figlia di 10 anni. Esso conteneva tutta una serie di sogni che la bambina aveva fatto all’età di otto anni, i sogni più misteriosi che mi fosse mai capitato di osservare. Mi rendevo ben conto dell’imbarazzo del padre: benché infantili, erano strani e inquietanti e contenevano immagini che egli non riusciva assolutamente a comprendere. I motivi principali erano i seguenti:
1. “l’animale infernale”, un mostro a forma di serpente provvisto di numerose corna, uccide e divora tutti gli altri animali. Ma Dio interviene dai quattro angoli (si tratta in realtà di quattro dèi separati) e resuscita tutti gli animali morti;
2. una ascesa al cielo, dove si stanno celebrando danze pagane, e una discesa all’inferno, dove si trovano angeli intenti a compiere buone azioni;
3. un’orda di animali atterrisce la sognante: essi assumono dimensioni spaventose e uno di loro divora la bambina;
4. in un topolino si introducono vermi, serpenti, pesci ed esseri umani, ed esso si trasforma in uomo: ciò raffigura le quattro fasi dell’origine del genere umano;
5. appare una goccia d’acqua, come vista attraverso il microscopio e la bambina vede che essa è piena di rami d’albero: ciò raffigura l’origine del mondo;
6. un ragazzo malvagio tiene in mano una zolla di terra e ne scaglia un po’ su tutti i passanti: in seguito a ciò anch’essi diventano cattivi;
7. una donna ubriaca cade nell’acqua e ne esce rinnovata e sobria;
8. la scena si svolge in America: un gran numero di persone si rotolano sopra una distesa di formiche e vengono da esse attaccate; la sognante, in preda al panico, cade in un fiume:
9. sulla luna c’è un deserto: la bambina vi sprofonda fino a raggiungere l’inferno;
10. in questo sogno la bambina ha la visione di una sfera luminosa; la tocca e ne emana vapore; sopraggiunge un uomo e la uccide;
11. la bambina sogna di essere gravemente ammalata; dalla sua pelle spuntano improvvisamente tanti uccelli che la ricoprono completamente;
12. sciami di zanzare oscurano il sole, la luna e tutte le altre stelle, tranne una: essa cade sulla sognante.
Nel testo completo originale, scritto in tedesco, ciascun sogno comincia con le antiche parole della favola: “C’era una volta…”. Esse stanno a significare che per la bambina ogni sogno è una specie di favola che essa vuole raccontare al padre come dono di Natale. Il padre cercò di spiegare i sogni sulla base del loro contesto, ma non vi riuscì perché erano privi di qualunque associazione personale.
Naturalmente la possibilità che questi sogni costituissero mere elaborazioni consapevoli può essere esclusa solo da chi abbia conosciuto la bambina sufficientemente a fondo da garantire della veridicità del suo racconto. (Tuttavia, anche se si trattasse di semplici fantasie, questi sogni esigerebbero pur sempre un’adeguata interpretazione.) Nel nostro caso, il padre era convinto che i sogni fossero autentici e io non ho alcuna ragione per dubitarne. Ho conosciuto personalmente la bambina, ma in epoca anteriore a quella in cui essa consegnò il quaderno dei sogni a suo padre e perciò non ho avuto la possibilità di farle domande in proposito. Essa viveva all’estero e morì di malattia infettiva circa un anno dopo quel Natale.
I suoi sogni hanno un carattere decisamente peculiare: i loro concetti fondamentali sono essenzialmente filosofici. Il primo, ad esempio, allude a un mostro infernale che uccide gli altri animali, ma Dio interviene a resuscitarli attraverso una restituzione divina o Apokatastasis. Nel mondo occidentale questa idea è conosciuta dalla tradizione cristiana. Essa è presente negli Atti degli Apostoli, in, 21: “[Cristo] che il cielo deve accogliere fino ai tempi della restituzione di tutte le cose…” I primi Padri greci della Chiesa (per esempio Origene) insisterono in particolare sull’idea che, alla fine dei tempi, ogni cosa verrà restaurata dal Redentore nel suo stato originario e perfetto. Tuttavia, secondo S. Matteo, XVI, 11, esisteva anche un’antica tradizione ebraica secondo la quale Elia “in verità verrà a restaurare tutte le cose”. Nella I Lettera ai Corinzi, XV, 22, si ritrova la stessa idea in questi termini: “Poiché come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo tutti torneranno a vivere”.
Qualcuno potrebbe sospettare che la bambina si sia imbattuta in questo pensiero nel corso della sua educazione religiosa. Ma essa aveva una ridottissima preparazione di questo genere. I suoi genitori erano formalmente protestanti, ma di fatto conoscevano la Bibbia solo per sentito dire. In particolare, è estremamente improbabile che l’immagine recondita dell’Apokatastasis sia stata spiegata alla bambina. È certo che suo padre non aveva mai sentito parlare di questa idea mitica.
Nove dei dodici sogni sono influenzati dal tema della distruzione e della restaurazione e nessuno di essi mostra tracce di una educazione o di qualche influenza specificamente cristiane. Al contrario, essi si rivelano strettamente connessi con i miti primitivi. Questa relazione è corroborata dall’altro motivo, quello del “mito cosmogonico” (cioè la creazione del mondo e dell’uomo), che appare nel quarto e nel quinto sogno. La stessa connessione si rinviene nella I Lettera ai Corinzi, XV, 22, da me già citata. Anche in questo passo Adamo e Cristo (cioè la morte e la resurrezione) sono legati fra loro.
L’idea generale del Cristo Redentore appartiene al tema universale e precristiano dell’eroe e del salvatore che, benché divorato da un mostro, torna di nuovo ad apparire in modo miracoloso, dopo aver sconfitto il mostro che lo aveva ingoiato. Nessuno sa quando e dove questo motivo abbia avuto origine. Noi non sappiamo neppure in che modo sia possibile affrontare il problema di questo tipo di ricerca. L’unico elemento certo è che tutte le generazioni hanno conosciuto questo motivo sotto forma di una tradizione tramandata dalle epoche precedenti. Perciò possiamo legittimamente supporre che esso “abbia avuto origine” in un periodo in cui l’uomo non sapeva ancora di possedere un mito eroico; in un’età cioè, in cui egli non era ancora in grado di riflettere consapevolmente su ciò che diceva. La figura dell’eroe è un archetipo che è esistito fin da tempo immemorabile.
La produzione di archetipi da parte di bambini è particolarmente significativa, poiché in alcuni casi si può essere assolutamente sicuri che il bambino non ha avuto alcun accesso alla tradizione concernente questo motivo.
Nel nostro caso la famiglia della bambina aveva solo una conoscenza superficiale della tradizione cristiana. Naturalmente i temi cristiani possono essere rappresentati da idee come quelle di Dio, degli angeli, del cielo, dell’inferno e del demonio. Però il modo in cui essi sono trattati dalla fantasia di questa bambina rivela un’origine assolutamente non cristiana.
Prendiamo il primo sogno in cui Dio compare nelle spoglie distinte di quattro dèi, ciascuno proveniente da uno dei “quattro angoli”. Gli angoli di che cosa? Nel sogno non si fa alcuna allusione a una stanza. D’altra parte l’immagine di una stanza non si sarebbe adeguata alla raffigurazione di quello che, in questo caso, è evidentemente un evento cosmico, in cui interviene direttamente l’Essere universale. Il motivo quaternario è in se stesso un’idea strana, ma occupa un ruolo molto importante in molte religioni e filosofie. Nella religione cristiana esso è stato soppiantato dalla Trinità, una nozione che dobbiamo supporre essere stata familiare alla bambina. Ma chi conosce, oggigiorno, in una ordinaria famiglia media, il concetto di una quadruplice divinità? È un’idea che un tempo era assai nota fra gli studiosi della filosofia ermetica medievale, ma che poi si esaurì verso l’inizio del XVI secolo e che ha continuato a restare nell’ombra per almeno altri duecento anni dopo di allora. E allora, da dove può averla ricavata la bambina? Forse dalla visione di Ezechiele? Ma non esiste alcun insegnamento cristiano che identifichi i Serafini con Dio.
La stessa questione può essere sollevata per quanto riguarda l’immagine del serpente cornuto. Nella Bibbia, è vero, ricorrono molti animali con le corna, per esempio nel libro della Rivelazione. Ma si tratta sempre, a quanto risulta, di quadrupedi, sebbene su tutti loro domini il dragone, parola questa che in greco significa anche serpente (drakon). Il serpente cornuto appare nei trattati latini di alchimia del XVI secolo come quadricornutus serpens (serpente a quattro corna), simbolo di Mercurio che si oppone a quello della Trinità cristiana. Tuttavia si tratta di un riferimento eccezionalmente insolito. Per quanto ho potuto saperne io, tale motivo ricorre in un solo autore e la bambina non ne sapeva nulla.
Nel secondo sogno appare un motivo decisamente non cristiano in cui i valori tradizionali sono rovesciati: per esempio il motivo delle danze pagane degli uomini in cielo e delle buone azioni degli angeli nell’inferno. Questo simbolo suggerisce il criterio della relatività dei valori morali. Dove ha potuto trovare la bambina un concetto così rivoluzionario, degno del genio di Nietzsche?
Si arriva così a un’altra questione: qual è il significato compensatorio di questi sogni, un significato cui la bambina ovviamente attribuiva una grande importanza dal momento che dette il suo quadernetto al padre come regalo di Natale?
Se il soggetto sognante fosse stato uno stregone primitivo, si sarebbe potuto ragionevolmente supporre che essi rappresentassero alcune variazioni dei temi filosofici della morte, della resurrezione o restituzione, dell’origine del mondo, della creazione dell’uomo e della relatività dei valori. Ma se si cerca di interpretare questi sogni da un punto di vista personale, bisogna rinunciare a ogni spiegazione, data la loro intrinseca, inestricabile difficoltà. Essi contengono indubbiamente alcune “immagini collettive”, e queste in un certo senso sono analoghe alle dottrine impartite ai giovani delle tribù primitive quando si accingono a essere iniziati come uomini. In quest’età essi imparano a conoscere ciò che Dio, o gli dèi, o gli animali “originari” hanno fatto, in che modo il mondo e l’uomo furono creati, come sopraggiungerà la fine del mondo e quale sia il significato della morte. Nella civiltà cristiana ci sono occasioni in cui riceviamo simili istruzioni? Sì, durante l’adolescenza. Ma molte persone cominciano a riflettere di nuovo a cose come queste durante la vecchiaia o nell’imminenza della morte.
La bambina si trovava in entrambe queste situazioni. Essa si avviava alla pubertà e, contemporaneamente, alla fine della vita. Nel simbolismo dei suoi sogni c’è poco o nulla che indichi l’inizio di una normale vita adulta, mentre invece si trovano molte allusioni alla distruzione e alla restaurazione. In verità, quando lessi per la prima volta i suoi sogni provai la strana sensazione che essi suggerissero una tragedia imminente. Derivai questa mia impressione dalla natura particolare della compensazione che ero riuscito a dedurre da quel genere di simbolismo. Essa era esattamente l’opposto di ciò che ci si sarebbe aspettati di trovare nella coscienza di una bambina di quell’età.
Sogni come questi rivelano un aspetto nuovo e terrorizzante della vita e della morte. Ci si aspetterebbe di trovare immagini di questo tipo in una persona adulta che si volga a riflettere retrospettivamente sulla propria vita, ma non in una bambina che normalmente dovrebbe guardare solo davanti a sé. La loro atmosfera riporta alla mente quel vecchio proverbio romano secondo il quale “la vita è un breve sogno”, piuttosto che la gioia e l’esuberanza della fanciullezza. La vita di questa bambina assomigliava davvero al ver sacrum vovendum del poeta romano. L’esperienza mostra che l’ignoto approssimarsi della morte getta una adumbratio sulla vita e i sogni della vittima. Anche l’altare delle chiese cristiane rappresenta da una parte la tomba e dall’altra il luogo della resurrezione, cioè la trasformazione della morte in vita eterna.
Queste erano le idee che in sogno si rivelarono alla bambina. Esse non erano altro che una preparazione alla morte espressa in brevi racconti, simili a quelli caratteristici delle iniziazioni primitive come i Koan del Buddismo Zen. Questo messaggio non assomiglia alla dottrina cristiana ortodossa, ma piuttosto all’antico pensiero primitivo. Si ha l’impressione che esso abbia avuto origine, al di fuori della tradizione storica, nei fondamenti psichici primordiali che, fin dalle epoche preistoriche, hanno fornito nutrimento alle speculazioni filosofiche e religiose intorno alla vita e alla morte. Era come se gli eventi futuri proiettassero all’indietro la loro ombra, facendo sorgere nella bambina certi pensieri che, sebbene normalmente restino assopiti, descrivono o accompagnano l’approssimarsi di un esito fatale. Benché le guise specifiche in cui essi si esprimono siano più o meno personali, il loro modello generale è collettivo. È possibile rinvenirli ovunque e in ogni epoca, così come gli istinti animali, pur variando notevolmente a seconda delle differenti specie, mirano allo stesso scopo generale. Noi non supponiamo che ogni animale, appena nato, crei i suoi propri istinti nei termini di un’acquisizione individuale e non dobbiamo neppure supporre che gli individui umani vengano inventando i loro specifici modi di condotta umana dopo ogni singola nascita. Allo stesso modo degli istinti, i modelli di pensiero collettivi della mente umana sono innati ed ereditari. Quando si presenta l’occasione, essi funzionano più o meno nello stesso modo in tutti noi.
Le manifestazioni emotive, cui questi modelli di pensiero appartengono, sono riconoscibili ovunque. Possiamo identificarle anche negli animali ed essi stessi si comprendono reciprocamente in questo modo anche se appartengono a specie differenti. E che dire degli insetti, con le loro complicate funzioni simbiotiche? La maggior parte di loro non conosce neppure i propri genitori e non hanno nessuno che li addestri. Perché dovremmo supporre allora che l’uomo sia l’unico essere vivente privo di istinti specifici o che la sua psiche non presenti alcuna traccia della propria evoluzione?
Naturalmente se identifichiamo la psiche con la coscienza, è facile cadere nel concetto erroneo che l’uomo faccia il suo ingresso nel mondo con la psiche nelle condizioni di una tabula rasa e che successivamente essa venga a contenere solo gli elementi appresi dall’esperienza individuale. Ma la psiche è qualcosa di più della coscienza. Gli animali hanno scarsa coscienza, ma in compenso molti impulsi e reazioni che denotano l’esistenza di una psiche; inoltre i primitivi compiono un gran numero di cose il cui significato è per essi sconosciuto.
Invano chiedereste a molte persone del cosiddetto mondo civilizzato il significato reale dell’albero di Natale o dell’uovo di Pasqua. Il fatto è che esse fanno cose di cui non conoscono la ragione. Io sono incline a ritenere che dapprima si siano fatte certe cose e che solo dopo molto tempo, in genere, qualcuno si sia chiesto il loro significato. Il medico psicologo si trova continuamente di fronte a pazienti indubbiamente intelligenti, che tuttavia si comportano in maniera tutta particolare e imprevedibile e che non hanno alcuna idea di ciò che fanno o di ciò che dicono. Essi si trovano improvvisamente assaliti da stati d’animo inspiegabili di cui essi per primi non sanno darsi ragione.
A un esame superficiale queste reazioni e questi impulsi sembrano possedere una natura del tutto personale e perciò siamo portati a trascurarli come indici di un comportamento idiosincratico. In realtà, tuttavia, essi sono fondati su un sistema preformato e assolutamente istintivo che è caratteristico dell’uomo. Le forme di pensiero, i gesti universalmente comprensibili e molti atteggiamenti corrispondono a un modello che è stato costituito molto prima che l’uomo sviluppasse una coscienza riflessiva.
Si può altresì pensare che le prime origini delle capacità riflessive dell’uomo siano derivate dalle conseguenze dolorose di violenti conflitti emotivi. A puro titolo di esempio, prendo il caso di un boscimano che, in un momento di rabbia e di delusione per non essere riuscito a pescare alcun pesce, strangola il suo adorato unico figlio e viene quindi assalito da un immenso rimpianto quando solleva con le braccia il piccolo corpo inanimato. Quest’uomo può essere indicativo in assoluto di questo attimo di angoscia.
Non siamo in grado di sapere se questo tipo di esperienza costituì veramente la causa iniziale dello sviluppo della coscienza umana. Tuttavia non c’è alcun dubbio sul fatto che l’impressione di una simile esperienza emotiva sia spesso necessaria per destare gli uomini e renderli sensibili a ciò che stanno facendo. Questa circostanza si rivela nel caso famoso di Raimondo Lullo, hidalgo spagnolo del XV secolo che, dopo lunghe peripezie, riuscì finalmente a incontrarsi con la donna da lui ammirata a un appuntamento segreto. Senza profferire parola essa si aprì la veste e gli mostrò il seno, devastato dal cancro. Questa impressione sconvolgente cambiò radicalmente la vita di Lullo ed egli diventò un eminente teologo e uno dei più grandi missionari della Chiesa. Di fronte a un improvviso cambiamento di questo tipo, è facile dimostrare che un archetipo ha continuato per lungo tempo a essere attivo nell’inconscio, combinando abilmente tutte le circostanze che in seguito produrranno la crisi.
Esperienze come questa sembrano dimostrare che le forme archetipiche non sono modelli statici; esse sono piuttosto fattori dinamici che si manifestano sotto forma di impulsi altrettanto spontaneamente che gli istinti. Certi sogni, certi pensieri o visioni, possono comparire improvvisamente e, per quanto si possa accuratamente cercare di spiegarli, ci riesce impossibile rinvenire la loro causa. Ciò non significa che essi non abbiano una causa, poiché ce l’hanno sicuramente; tuttavia essa è così remota od oscura che è impossibile recuperarla.
In casi come questo è necessario attendere fino a che il sogno o il suo significato risultino sufficientemente comprensibili, oppure fino a che non intervenga qualche avvenimento esterno a spiegare il sogno.
Nel momento del sogno, tale avvenimento può ancora appartenere al futuro; ma, come i nostri pensieri consci rivelano spesso il futuro e le sue possibilità, così, in maniera del tutto simile, si comportano l’inconscio e i suoi sogni. Per molto tempo si è creduto che la funzione fondamentale dei sogni fosse quella di pronosticare il futuro. Nell’antichità, fino a tutto il Medioevo, i sogni hanno avuto una parte importante nella prognosi medica. Io sono in grado di confermare, sulla base di un sogno dei nostri tempi, il fattore di prognosi (o di precognizione) che può essere rinvenuto, ad esempio, in un antico sogno citato da Artemidoro di Daldis, nel II secolo d.C.: un uomo sognò di vedere il proprio padre perire nel rogo della casa. Non molto tempo dopo egli stesso morì per un phlegmone (cioè fuoco o febbre alta), che probabilmente era un attacco di polmonite.
Capitò altresì che un mio collega fosse assalito una volta da febbre cancrenosa, cioè da un phlegmone. Un suo vecchio paziente, che non conosceva la natura della malattia del suo medico, sognò che egli morisse in un grande fuoco. In quel tempo il medico era stato appena ricoverato e la malattia era all’inizio. Il sognante non sapeva altro all’infuori del fatto che il suo medico curante era ammalato e degente in ospedale. Tre settimane dopo il medico morì.
Come dimostra questo esempio, i sogni possono avere un aspetto anticipatorio o pronosticatorio e chiunque si accinga a tentarne una interpretazione deve prendere in considerazione questo elemento, soprattutto nel caso che un sogno non fornisca, pur nella chiarezza del suo significato evidente, un sufficiente contesto adatto a spiegarlo. Sogni come questi spesso si manifestano come fulmini a ciel sereno e si è portati a chiederci da che cosa possano essere stati provocati. Naturalmente, se si conoscesse il loro messaggio ulteriore, la loro causa apparirebbe evidente. Infatti solo la coscienza rimane all’oscuro, mentre l’inconscio sembra già informato e in possesso della conclusione espressa dal sogno. In realtà, l’inconscio risulta capace di esaminare e di trarre conclusioni solo sulla base di fatti precisi, approssimativamente nello stesso modo in cui agisce la coscienza. Esso può anche utilizzare certi fatti, e anticipare i loro possibili risultati, proprio perché noi non siamo consapevoli di essi.
Ma quando si è in grado di decifrare i sogni, l’inconscio rivela istintivamente le proprie deliberazioni. Questa distinzione è importante. L’analisi logica è una prerogativa della coscienza: noi selezioniamo attraverso la ragione e con cognizione di causa; l’inconscio, viceversa, risulta guidato essenzialmente da tendenze istintive, rappresentate da forme di pensiero corrispondenti, cioè dagli archetipi. Un medico cui venga chiesto di descrivere il decorso di una malattia farà ricorso a concetti razionali come quello di “infezione” o di “febbre”. Il sogno è di gran lunga più poetico: esso presenta l’organismo ammalato come la dimora terrestre dell’uomo e la febbre come il fuoco che la distrugge.
Come dimostrano i sogni riferiti sopra, la mente archetipica ha trattato la situazione nello stesso modo in cui essa appariva al tempo di Artemidoro. Ciò che rivela una natura più o meno sconosciuta è stato afferrato dall’inconscio e sottoposto a un trattamento archetipico. Ciò suggerisce il fatto che la mente archetipica, invece di assumersi il compito di esprimere i propri contenuti razionalmente alla stessa stregua del pensiero conscio, si è assunta una funzione pronosticatoria. Perciò gli archetipi hanno una loro iniziativa e una loro specifica energia. Ciò li rende suscettibili sia di produrre una interpretazione significativa (nel loro stile simbolico caratteristico), sia di interferire in una determinata situazione con i loro specifici impulsi e le loro particolari conformazioni di pensiero. Da questo punto di vista essi funzionano allo stesso modo dei complessi: essi vanno e vengono a loro piacimento e spesso ostruiscono o modificano in maniera imbarazzante le nostre intenzioni consce.
Si riesce a percepire l’energia specifica degli archetipi quando sperimentiamo il fascino tutto particolare che li accompagna. Essi possiedono una speciale attrattiva. Questa qualità è caratteristica anche dei complessi personali; allo stesso modo di questi ultimi, anche i complessi sociali a carattere archetipico hanno una loro storia individuale. Ma mentre i complessi personali producono solo una inclinazione individuale, gli archetipi danno vita a miti, religioni e filosofie che influenzano e caratterizzano intere nazioni ed epoche storiche. Noi consideriamo i complessi personali come compensazioni di atteggiamenti unilaterali o imperfetti della coscienza; nello stesso modo i miti a sfondo religioso possono essere interpretati come una specie di terapia mentale per le sofferenze e le ansietà del genere umano nel suo complesso: fame, guerre, malattie, vecchiaia, morte.
Il mito dell’eroe universale, ad esempio, si riferisce sempre a un uomo potente o a un uomo-dio che annienta le forze del male materializzate in dragoni, serpenti, mostri, demoni e così via, e che libera il proprio popolo dalla distruzione e dalla morte. La narrazione e la ripetizione rituale di testi sacri e di cerimonie, insieme alla venerazione della figura dell’eroe per mezzo di danze, musiche, inni, preghiere e sacrifici, trasmettono ai fedeli emozioni soprannaturali (quasi una attrazione magica) ed esaltano l’individuo fino a portarlo a identificarsi con l’eroe.
Se cerchiamo di considerare questo tipo di situazione con gli occhi del credente, arriveremo forse a renderci conto di come l’uomo comune possa sentirsi liberato dal sentimento di impotenza personale e dalla propria infelicità e trovarsi ripieno (almeno temporaneamente) di una qualità quasi sovrumana. In molti casi questa convinzione si manterrà viva in lui per molto tempo e conferirà un certo stile alla sua vita. Essa può anche imprimere uno speciale carattere a tutta una società. Un esempio notevole di questo fenomeno può rinvenirsi nei misteri eleusini, che furono definitivamente soppressi all’inizio del VII secolo dell’era cristiana. Essi esprimevano, insieme all’oracolo di Delfo, l’essenza e lo spirito dell’antica Grecia. Su scala molto maggiore, la stessa èra cristiana deriva il proprio nome e il proprio significato dall’antico mistero dell’uomo-dio, che ha le sue radici nel mito archetipico di Horus-Osiride dell’antico Egitto.
Comunemente si ammette che, durante la preistoria, in alcune particolari circostanze, le principali idee mitologiche siano state “inventate” da un intelligente vecchio filosofo o profeta e solo in seguito siano state trasformate in “fede” da gente credula e priva di senso critico. Si dice altresì che le storie narrate da sacerdoti in cerca di prestigio non sono “vere”, ma costituiscono un classico esempio di come si possa credere vera qualcosa solo perché la si desidera fortemente. Ma la parola “inventare” deriva dal latino invenire e significa “trovare”, cioè trovare qualcosa dopo averla “cercata”. In quest’ultimo caso la parola implica una qualche prescienza di ciò che siamo rivolti a trovare.
Torniamo un momento a considerare le strane idee contenute nei sogni della bambina. È estremamente improbabile che essa sia andata a cercarle deliberatamente dal momento che rimase sorpresa di trovarsi in loro presenza. Esse le apparvero sotto forma di storie del tutto peculiari e impreviste, e dotate di sufficiente interesse per essere date a suo padre come dono di Natale. Così facendo, tuttavia, essa le inserì nella sfera del tuttora vivo mistero cristiano – cioè l’episodio della nascita di Nostro Signore, mescolato al segreto dell’albero sempreverde scintillante della luce del nuovo nato. (Ciò è indicato dal quinto sogno.)
Benché ci siano numerose testimonianze storiche sulla relazione simbolica fra il Cristo e il simbolo dell’albero, i genitori della bambina si sarebbero trovati in un grave imbarazzo se avessero dovuto spiegare il significato del decorare un albero con candeline accese per celebrare la natività di Cristo. “Oh, si tratta semplicemente di una tradizione natalizia!” avrebbero detto. Una risposta seria richiederebbe una lunga dissertazione intorno all’antico simbolismo del Dio morente e delle sue relazioni con il culto della Grande Madre e del simbolo di questa: l’albero – per ricordare solo un aspetto di questo complesso problema.
Quanto più ci immergiamo nello studio delle origini di una “immagine collettiva” (o, per esprimersi in linguaggio ecclesiastico, di un dogma), tanto più ci troviamo a scoprire una serie infinita di modelli archetipici fra loro connessi che, prima dei tempi moderni, non sono mai stati oggetto di riflessione consapevole. Perciò, paradossalmente, noi ci troviamo in condizione di sapere intorno al simbolismo mitologico molte più cose di qualunque generazione fra quelle che ci hanno preceduto. Ciò dipende dal fatto che in epoche precedenti alla nostra gli uomini non riflettevano sui propri simboli, ma si limitavano a viverli e a essere inconsciamente animati dal loro significato.
Illustrerò questo punto sulla base di una esperienza da me compiuta una volta fra i primitivi del monte Elgon in Africa. Ogni mattina, all’alba, essi escono dalle capanne e alitano o sputano nelle proprie mani, tendendole poi verso i primi raggi del sole, come se offrissero il proprio respiro o la propria saliva alla divinità nascente, il mungu. (Questa parola swahili, da essi usata per spiegare l’atto rituale, deriva da una radice polinesiana equivalente a mana o murungu. Termini come questi, o altri simili, designano una “forza” di straordinaria efficacia e penetrazione, che noi chiameremmo divina. In altre parole, mungu è per essi l’equivalente di Allah o di Dio.) Quando domandavo loro quale fosse il significato di questo atto o perché lo compissero, essi si dimostravano completamente disorientati. Le uniche cose che riuscissero a dire erano: “Abbiamo sempre fatto così. Tutti hanno sempre fatto così al sorgere del sole”. L’ovvia conclusione che il sole è il mungu li faceva ridere. In realtà il sole non è il mungu quando si è già levato sull’orizzonte; il mungu rappresenta il momento preciso del sorgere del sole.
Il loro rituale era ovvio per me ma non per loro: essi sapevano solo ripeterlo senza riflettere alle loro azioni. Di conseguenza non erano in grado di darsi una spiegazione. Io conclusi che essi offrivano la loro anima al mungu in quanto l’alito (vitale) e la saliva significano “sostanza psichica”. L’alito o lo sputo diretti su qualcosa producono un effetto “magico”, come quando, per esempio, Cristo usava la saliva per sanare i ciechi, o quando un figlio respira l’ultimo alito del padre morente per ricevere dentro di sé l’anima paterna. È del tutto improbabile che questi africani abbiano mai conosciuto qualcosa di più intorno al significato della loro cerimonia, neppure nelle epoche più remote. Di fatto, i loro antenati ne sapevano ancora meno poiché erano molto più inconsapevoli dei loro moventi e riflettevano ancora meno sulle proprie azioni.
Opportunamente il Faust di Goethe afferma: “Im Anfang war die Tat [in principio era l’azione]”. Le “azioni” non furono mai inventate, ma semplicemente compiute; i pensieri, d’altra parte, costituiscono una scoperta relativamente recente dell’uomo. Dapprima egli era spinto all’azione da fattori inconsci e solo dopo molto tempo cominciò a riflettere sulle cause da cui era stato mosso; infine c’è voluto un periodo di tempo ancora più lungo prima che egli arrivasse all’idea assurda di essere stato spinto ad agire dai propri impulsi soggettivi – essendo la sua mente incapace di identificare qualunque altra forza stimolante al di fuori della propria.
L’idea che una pianta o un animale si inventino da soli ci fa ridere, eppure molti credono che la psiche o la mente si siano inventate da sé e che abbiano creato la propria esistenza. In realtà, la mente si è sviluppata fino alla sua fase attuale di consapevolezza nello stesso modo in cui la ghianda si viene trasformando in quercia o i sauri sono diventati progressivamente mammiferi. Essa si è venuta sviluppando per un lunghissimo arco di tempo e continua tuttora a svilupparsi; noi siamo perciò sottoposti all’azione sia di forze interiori che di stimoli esterni.
Questi moventi interiori scaturiscono da una sorgente profonda, che non è costituita dalla coscienza e resta al di fuori del suo controllo. Nella mitologia primitiva queste forze erano chiamate mana, ovvero spiriti, demoni e divinità. Esse sono altrettanto attive oggigiorno quanto lo sono sempre state in passato. Se si conformano ai nostri desideri noi attribuiamo loro il significato di sentimenti o impulsi positivi e ci congratuliamo con noi stessi per essere benvoluti dalla sorte. Se invece esse ci contrastano, allora diciamo di essere perseguitati dalla sfortuna, che certa gente ci vuol male o che la causa delle nostre disgrazie deve essere patologica. L’unica cosa che ci rifiutiamo di ammettere è di essere in balìa di “forze” che non siano riducibili al nostro controllo.
È pur vero, d’altra parte, che nei tempi recenti l’uomo civilizzato ha acquisito una energica forza di volontà che egli applica nelle più diverse occasioni. Egli ha imparato a svolgere efficacemente il proprio lavoro senza ricorrere a canti o a tamburi per ipnotizzarsi e spingersi ad agire. Egli può anche fare a meno della preghiera quotidiana per invocare l’aiuto divino; egli arriva a fare da solo ciò che vuole e a tradurre apparentemente le sue idee in azione senza alcun inciampo, mentre l’uomo primitivo sembra condizionato a ogni passo da timori, superstizioni e altri ostacoli invisibili che si frappongono fra lui e l’azione. Il motto “Volere è potere” è la superstizione dell’uomo moderno.
Eppure l’uomo contemporaneo, pur di mantener viva questa fede, paga lo scotto di una grave mancanza di introspezione. Egli resta cieco al fatto che, pur con tutta la sua razionalità e la sua efficienza, “forze” non controllabili lo tengono ancora in loro balìa. I suoi dèi e i suoi demoni non sono affatto scomparsi: hanno solo cambiato nome. Essi lo tengono in uno stato d’agitazione incessante attraverso vaghe apprensioni, complicazioni psicologiche, un bisogno insaziabile di pillole, di alcool, di tabacco, di cibo e soprattutto imponendogli un pesante fardello di nevrosi.
L’anima dell’uomo
La cosiddetta coscienza civilizzata si è nettamente separata dagli istinti di fondo senza, però, che questi ultimi siano scomparsi. Essi hanno semplicemente perduto ogni contatto con la nostra coscienza e perciò sono costretti ad affermarsi in maniera indiretta. Ciò può verificarsi per mezzo di sintomi fisici nel caso della nevrosi, o attraverso inconvenienti di vario tipo, come stati d’animo inspiegabili, improvvise dimenticanze o errori di linguaggio.
All’uomo piace credere di essere padrone della propria anima. Ma nella misura in cui egli si dimostra incapace di controllare i propri stati d’animo e le proprie emozioni, o di prendere coscienza degli infiniti modi segreti in cui i fattori inconsci arrivano a insinuarsi nei suoi propositi e nelle sue decisioni, egli non è affatto padrone di se stesso. Questi fattori inconsci debbono la loro esistenza all’autonomia degli archetipi. L’uomo moderno cerca di evitare di prendere coscienza di questa spaccatura della sua personalità istituendo un sistema di compartimenti stagni. Certi aspetti della sua vita esteriore e del suo comportamento sono mantenuti, per così dire, in zone separate e non sono mai messi a confronto fra di loro.
Come esempio di questa cosiddetta psicologia a compartimenti, ricordo il caso di un alcoolizzato che si era lasciato lodevolmente influenzare da un certo movimento religioso e, affascinato dall’entusiasmo di quegli adepti, si era dimenticato di aver bisogno di bere. Ovviamente si era sparsa la voce che egli era stato miracolosamente guarito da Gesù e che perciò rappresentava un esempio vivente della grazia divina e dell’efficacia di quella particolare organizzazione religiosa. Tuttavia, dopo poche settimane di confessioni pubbliche, la attrazione per questo avvenimento cominciò a venir meno e il buon uomo tornò a sentire il bisogno di rifocillarsi con qualche bicchierino. Così ricominciò a bere. Ma questa volta la solerte organizzazione concluse che il caso era “patologico” e non suscettibile di essere invocato a testimonianza di un intervento di Gesù e perciò lo ricoverarono in una clinica per consentire al medico di ottenere un risultato migliore di quello conseguito dal Guaritore divino.
Questo è un aspetto della moderna mentalità “culturale” che è degno di essere esplorato in quanto mostra un grado allarmante di dissociazione e di confusione psicologica.
Se, per un momento, paragoniamo il genere umano a un individuo, ci accorgiamo che esso è nelle stesse condizioni di una persona dominata da forze sconosciute; anche la razza umana si compiace di isolare alcuni problemi in compartimenti separati. Proprio per questa ragione noi dobbiamo prestare una grande attenzione a ciò che facciamo, poiché il genere umano è attualmente minacciato da pericoli mortali da esso stesso creati e che si ingigantiscono progressivamente sfuggendo al nostro controllo. Il mondo in cui viviamo è, per così dire, dissociato allo stesso modo di un nevrotico, e la Cortina di ferro denota questa simbolica linea di divisione. L’uomo occidentale, divenuto consapevole dell’aggressiva volontà di potenza dell’Est, si trova costretto ad apprestare misure di difesa di straordinaria entità, mentre va fiero, contemporaneamente, della sua virtù e delle sue buone intenzioni.
Ciò che non gli riesce di vedere è il fatto che i suoi stessi vizi, da esso ammantati di buone maniere internazionali, si vengono ritorcendo contro di lui dal mondo comunista, in maniera spudorata e sistematica. Ciò che l’Occidente ha tollerato, ma segretamente e con un leggero senso di vergogna (cioè la menzogna diplomatica, il tradimento sistematico, minacce dissimulate), ci viene restituito esplicitamente e integralmente dall’Oriente e ci inviluppa in nodi nevrotici. È il volto della sua stessa ombra demoniaca che sogghigna dall’altro versante della Cortina di ferro in faccia all’uomo occidentale.
È questo stato di cose a spiegare quel particolare sentimento di impotenza di tante persone delle società occidentali. Esse hanno cominciato a rendersi conto che le difficoltà contro cui ci dibattiamo sono essenzialmente problemi morali e che il tentativo di reagire a essi attraverso una politica di intenso armamento nucleare o di “competizione” economica è destinato a scarsi risultati poiché si tratta di un’arma a doppio taglio. Molti di noi ora capiscono che mezzi mentali e morali sarebbero più efficaci in quanto ci fornirebbero una immunità psichica contro questa dilagante infezione.
Tuttavia questi tentativi si sono dimostrati tutti singolarmente inefficaci e tali continueranno a essere fino a che cercheremo di convincere noi stessi e il resto del mondo che solo essi (cioè gli avversari) hanno torto. Sarebbe molto più produttivo compiere un serio tentativo di prendere coscienza dell’ombra della nostra civiltà e dei suoi terribili misfatti. Se potessimo vedere la nostra ombra (cioè il lato oscuro della nostra natura), riusciremmo a immunizzarci da qualsiasi infezione e penetrazione sia morale che mentale. Allo stato attuale delle cose, noi ci rendiamo invece disponibili per ogni infezione poiché ci comportiamo praticamente nello stesso modo in cui essi agiscono. Solo che a nostro ulteriore svantaggio c’è il fatto di non vedere né di voler capire ciò che noi stessi veniamo facendo con le nostre mani, mascherandoci sotto il manto delle buone maniere.
Il mondo comunista, bisogna riconoscerlo, ha un grande mito (che noi chiamiamo un’illusione, nella vana speranza che il nostro superiore giudizio valga a farlo scomparire). Si tratta dell’antichissimo sogno archetipico di un’Età dell’Oro (o Paradiso), dove ci sarà abbondanza di tutto per tutti e grandi, giuste e sagge leggi a regolare una specie di giardino d’infanzia del genere umano. Questo potente archetipo nella sua versione infantile si è impadronito di loro, ma esso non scomparirà mai dal mondo alla semplice vista della nostra superiore civiltà. Anzi, noi ce lo trasciniamo dietro fin dalla fanciullezza poiché la civiltà occidentale è prigioniera della stessa mitologia. Inconsciamente noi nutriamo i medesimi pregiudizi, le medesime speranze, le medesime attese. Anche noi crediamo in una civiltà del benessere, nella pace universale, nell’eguaglianza degli uomini, nei suoi eterni diritti umani, nella giustizia, nella verità e (ma non diciamolo troppo ad alta voce) nel Regno di Dio sulla terra.
La triste verità è che la vera vita dell’uomo è dilacerata da un complesso di inesorabili contrari: giorno e notte, nascita e morte, felicità e sventura, bene e male. Non possiamo neppure esser certi che l’uno prevarrà sull’altro, che il bene sconfiggerà il male, o la gioia si affermerà sul dolore. La vita è un campo di battaglia: così è sempre stata e così sarà sempre; se così non fosse finirebbe la vita.
Fu proprio questo conflitto interiore a guidare i primi cristiani verso l’attesa e la speranza di una prossima fine del mondo, o i buddisti a rifiutare tutti i desideri e le aspirazioni terrene. Questi atteggiamenti sarebbero stati nettamente suicidi se non fossero stati connessi con particolari idee e consuetudini mentali e morali che costituiscono il nocciolo di entrambe queste religioni e che, fino a un certo punto, tendono a modificare la loro radicale negazione del mondo.
Sottolineo questo punto perché, oggigiorno, ci sono milioni di persone che hanno perso la fede per ogni specie di religione. Esse non comprendono più la loro religione. Finché la vita scorre liscia senza la religione, la perdita non viene sentita; ma quando entra in gioco la sofferenza le cose cambiano. È a questo punto che la gente comincia a cercare una via d’uscita e a riflettere sul significato della vita e sulle sue sconcertanti e dolorose esperienze.
È significativo che lo psicologo (per mia stessa esperienza) venga consultato più da ebrei e da protestanti che da cattolici. Ciò è facilmente prevedibile poiché la Chiesa cattolica si sente ancora responsabile della cura animarum. Ma in questa epoca scientifica lo psichiatra è suscettibile di sentirsi rivolgere domande che un tempo erano prerogativa esclusiva del teologo. La gente si rende conto che molte cose sarebbero diverse per loro se credessero positivamente in un sistema significativo di vita o in Dio e nell’immortalità. Lo spettro dell’approssimarsi della morte spesso fornisce un potente incentivo a questo genere di pensieri. Fin da tempi immemorabili, gli uomini hanno nutrito idee sul conto di un Essere Supremo (uno o diversi) e sul Signore dell’Aldilà. Solo ai nostri giorni essi pensano di poter fare a meno di queste idee.
Poiché non possiamo scoprire in cielo il trono di Dio usando un radiotelescopio o stabilire (con sicurezza) che un padre o una madre amorosi sopravvivano ancora in una forma più o meno corporea, si sostiene generalmente che queste idee “non sono vere”. Io direi piuttosto che esse non sono sufficientemente “vere” poiché si tratta di concezioni che hanno accompagnato la vita degli uomini sin dai tempi preistorici e che tuttora irrompono nella coscienza a ogni minima provocazione.
L’uomo moderno può affermare di poterne fare a meno e può sostenere la sua opinione insistendo nel dire che non esiste alcuna prova scientifica a sostegno della loro veridicità. Ovvero egli può anche rimpiangere la perdita delle sue convinzioni. Ma dal momento che si tratta di cose invisibili e inconoscibili (poiché Dio sta al di là di ogni capacità di comprensione umana e l’immortalità non è dimostrabile in alcun modo), perché dobbiamo perderci nella ricerca di prove razionali? Anche se non fossimo consapevoli della nostra necessità di consumare il sale insieme al cibo, continueremmo pur sempre a trarre vantaggio dal suo uso. Anche se sostenessimo che l’uso del sale è una semplice illusione del palato o una superstizione, esso continuerebbe a produrre un benefico effetto sulle nostre condizioni di vita. E allora, perché dovremmo fare a meno di concezioni che si dimostrano utili nei momenti di crisi e che danno un significato alla nostra esistenza?
E inoltre, come possiamo essere sicuri che tali idee non corrispondano a verità? Molti mi darebbero ragione se dicessi che esse sono probabilmente semplici illusioni; essi però non arrivano a capire che la negazione di ogni fede religiosa è altrettanto non dimostrativa quanto la sua affermazione. Noi siamo assolutamente liberi di scegliere l’uno o l’altro dei due punti di vista; tuttavia si tratta sempre di una decisione arbitraria.
In ogni caso c’è una importante ragione pratica per la quale dovremmo essere inclini a coltivare pensieri non suscettibili di ottenere una conferma positiva: tale ragione è che essi sono notoriamente utili. L’uomo ha assolutamente bisogno di idee e convinzioni generali che diano un significato alla sua vita e che gli permettano di individuare il suo posto nell’universo. Quando è convinto che esse abbiano un senso, egli trova la forza di affrontare le più incredibili avversità; viceversa egli si sente sopraffatto quando, nel colmo della sventura, si trova costretto ad ammettere di essere coinvolto in una vicenda senza senso.
La funzione dei simboli religiosi è quella di dare un significato alla vita dell’uomo. Gli Indiani Pueblo credono di essere figli del Padre Sole e questa fede conferisce alla loro vita una prospettiva (e uno scopo) che supera di gran lunga la loro limitata esistenza. Essa consente loro di dispiegare largamente la propria personalità e di vivere una vita piena, da persone integrali. La loro condizione è infinitamente più soddisfacente di quella dell’uomo civilizzato, che è consapevole di essere (e di restare) nient’altro che uno sconfitto senza alcun profondo significato esistenziale.
Il senso di un significato superiore dell’esistenza è ciò che innalza l’uomo al di sopra della sua condizione elementare. Se gli manca questo senso egli è perduto e infelice. Se san Paolo fosse stato convinto di non essere nulla più che un errabondo tessitore di tappeti, certamente non sarebbe stato l’uomo che fu. La sua vita vera e significativa riposava sull’intima certezza di essere il messaggero del Signore. Qualcuno potrà accusarlo di essere stato un megalomane, ma una opinione come questa si rivela inconsistente di fronte alla testimonianza della storia e al giudizio di intere generazioni. Il mito che s’impossessò di lui lo rese qualcosa di più grande del semplice artigiano che era.
Un mito di questo genere, tuttavia, è costituito da simboli che non sono stati inventati consciamente: essi si sono prodotti spontaneamente. Non fu l’uomo Gesù a creare il mito dell’uomo-Dio. Esso esisteva già da molti secoli prima della sua nascita. Egli stesso fu conquistato da questa idea simbolica che, come ci narra san Marco, lo spinse a uscire dall’ambiente ristretto della famiglia del falegname di Nazareth.
I miti risalgono a un narratore primitivo e ai suoi sogni, a uomini mossi dallo stimolo appassionato delle loro fantasie. Costoro non si differenziavano gran che da coloro che dopo molte generazioni sono stati chiamati poeti o filosofi. I narratori primitivi non si preoccupavano di conoscere l’origine delle loro fantasie; fu solo in epoche molto posteriori che ci si cominciò a chiedere da dove i racconti avessero avuto origine. Eppure, molti secoli fa, nella cosiddetta “antica” Grecia, la mente degli uomini era già sufficientemente avanzata da supporre che le storie degli dèi non fossero altro che tradizioni arcaiche deformate relative ad antichissimi re e condottieri. In altre parole si era già arrivati alla conclusione che i miti erano troppo inverosimili per significare esattamente ciò che narravano: perciò si cercò di ridurli a una forma generalmente comprensibile.
In tempi più vicini a noi abbiamo visto trattare allo stesso modo il simbolismo dei sogni. Nelle prime fasi di sviluppo della psicologia ci si rese conto dell’importanza dei sogni, ma come i greci erano giunti alla conclusione che i loro miti altro non erano che semplici elaborazioni della storia razionale o “normale”, così alcuni pionieri della psicologia conclusero che il significato dei sogni non era quello letterale. Le immagini o i simboli onirici vennero così messi in disparte alla stregua di forme bizzarre in cui i contenuti rimossi della psiche si manifestavano alla mente conscia. Perciò diventò un luogo comune il concetto che i sogni avessero un significato del tutto diverso da quello esplicito.
Ho già descritto il modo in cui giunsi a dissentire da quest’idea e a intraprendere lo studio sia della forma che del contenuto dei sogni. Per quale ragione essi dovrebbero significare qualcosa di diverso dai loro contenuti? Esiste forse qualcosa in natura che sia diverso da quello che è attualmente? Il sogno è un fenomeno normale e naturale e non significa ciò che esso non è. Anche il Talmud dice che “il sogno è tale quale viene interpretato”. La confusione nasce solo per il fatto che i contenuti del sogno sono simbolici e possiedono perciò più di un significato. I simboli sono orientati in direzioni differenti da quelle che noi riusciamo a ravvisare con la mente conscia e perciò si riferiscono a qualcosa di inconscio o almeno di non completamente conscio.
Per una mentalità scientifica fenomeni come quelli rappresentati dalle idee simboliche costituiscono un serio motivo di imbarazzo poiché non possono venire formulati in termini intellettualmente e logicamente soddisfacenti. Essi però non sono l’unico caso del genere in psicologia. Le difficoltà cominciano col tentativo di definire il fenomeno dell’“affetto” o emozione che sfugge a tutti i tentativi dello psicologo di racchiuderlo in una definizione conclusiva. La causa di questa difficoltà è la stessa in entrambi i casi: si tratta cioè dell’intervento dell’inconscio.
Ho una sufficiente esperienza scientifica per rendermi conto di quanto sia imbarazzante dover studiare fatti che non possono venire completamente o adeguatamente compresi. La difficoltà di affrontare fenomeni come questi è che i fatti sono innegabili, eppure non possono essere formulati in termini razionali. Perciò bisognerebbe essere in grado di comprendere la vita in se stessa, poiché è la vita che produce emozioni e idee simboliche.
Lo psicologo accademico è perfettamente libero di non prendere in considerazione il fenomeno dell’emozione o il concetto di inconscio (o nessuno dei due contemporaneamente). Tuttavia essi rimangono fatti cui almeno lo psicologo medico deve prestare la necessaria attenzione, poiché i conflitti e l’intervento dell’inconscio sono i tratti caratteristici della sua scienza. Se tratta a fondo un paziente egli si trova a dover fare i conti con questi elementi irrazionali, duri a essere formulati in termini razionali. Perciò è del tutto normale che le persone sprovviste dell’esperienza propria dello psicologo medico riescano difficilmente a adeguarsi quando la psicologia cessa di essere una tranquilla attività di laboratorio e diventa invece parte attiva dell’avventura della vita reale. Altro è esercitarsi al bersaglio in un poligono di tiro, altro è partecipare a una vera battaglia: il medico si trova di fronte a tutta una serie di fattori casuali caratteristici di una guerra autentica. Egli si trova ad avere a che fare con realtà psichiche, anche se non è in grado di ridurle in definizioni scientifiche. È per questo motivo che nessun manuale può insegnare la psicologia: si può imparare solo dall’esperienza diretta.
Possiamo renderci conto chiaramente di questo punto esaminando alcuni simboli ben noti.
Per esempio la croce è, nella religione cristiana, un simbolo significativo che esprime tutta una moltitudine di aspetti, idee ed emozioni; ma una croce apposta dopo un nome in una lista serve solo a indicare che quell’individuo è morto. Il fallo funge da simbolo universale nella religione indù, ma se un monello di strada ne disegna uno sopra un muro esso riflette solo il suo interesse per il proprio pene. Poiché le fantasie dell’infanzia e dell’adolescenza si prolungano spesso nella vita adulta, molti sogni rivelano inequivocabili allusioni sessuali. Sarebbe assurdo interpretarle come qualcosa d’altro. Ma quando un massone sostiene che frati e monache si debbano congiungere insieme, o un elettricista parla di maschio e di femmina a proposito della spina e della presa di corrente, sarebbe ridicolo supporre che essi indulgano a fantasie infantili ancora vive. L’elettricista usa nomi coloriti per descrivere semplicemente i suoi materiali. Quando un indù colto vi parla del Ungarn (il fallo che rappresenta il dio Siva nella mitologia indù), vi sentite raccontare delle cose che noi occidentali non connetteremmo mai al pene. Il Ungarn non è certamente un’allusione oscena, né la croce è soltanto un segno di morte. Molto dipende dalla maturità del sognante che produce queste immagini.
L’interpretazione dei sogni e dei simboli richiede intelligenza; essa non può essere ridotta a un sistema meccanico con cui imbottire cervelli privi di immaginazione. Essa richiede contemporaneamente una sempre più approfondita conoscenza dell’individualità del sognante e un corrispondente affinamento della personale consapevolezza dell’interprete. Ogni esperto in questo campo ammetterà la possibilità di ricorrere ad alcuni utili criteri empirici, ma essi devono essere tuttavia applicati con prudenza e acume. Si possono seguire scrupolosamente tutte le regole e tuttavia trovarsi a cadere nelle più terribili sciocchezze solo per il fatto di aver trascurato un dettaglio apparentemente di scarso rilievo, che tuttavia una intelligenza più acuta non si sarebbe lasciato sfuggire. Anche un uomo di grande intelligenza può compiere gravi errori per mancanza di intuizione o di sentimento.
Quando tentiamo di interpretare i simboli ci troviamo di fronte non solo il simbolo in sé, ma l’intera totalità dell’individuo produttore del simbolo. Ciò implica lo studio della sua formazione culturale e nel corso di questo processo ci si imbatte in numerose lacune della nostra educazione. Io stesso mi sono imposto come regola di considerare ogni singolo caso come un’esperienza completamente nuova sul conto della quale non conosca neppure l’abbicci. Le risposte usuali possono rivelarsi pratiche e utili finché si studia la superficie, ma quando si affrontano i problemi di fondo è la vita stessa a imporsi in primo piano e anche i princìpi teorici più brillanti diventano semplici parole prive di senso.
L’immaginazione e l’intuizione sono di importanza vitale per la nostra comprensione. Sebbene, secondo l’opinione popolare corrente, esse siano necessarie soprattutto al poeta e all’artista (e che per le faccende “pratiche” si debba loro prestare scarso affidamento), esse sono in realtà di altrettanta vitale importanza a tutti i livelli superiori della scienza. In questa sede svolgono un ruolo sempre più importante che soppianta quello dell’intelletto “razionale” e la sua applicazione a un problema specifico. Anche la fisica, la più rigorosa di tutte le scienze applicate, si fonda in maniera sbalorditiva sopra l’intuizione che opera per mezzo dell’inconscio (benché sia possibile dimostrare a posteriori i procedimenti logici che avrebbero potuto condurre allo stesso risultato di quello raggiunto intuitivamente).
L’intuizione è pressoché indispensabile nella interpretazione dei simboli e spesso può assicurare la loro immediata comprensione da parte del sognante. Tuttavia una fortunata intuizione può essere altrettanto convincente da un punto di vista soggettivo, quanto pericolosa. Essa può suggerire un falso sentimento di sicurezza. Per esempio, può spingere sia l’interprete che il sognante a proseguire in una comoda e relativamente facile relazione suscettibile di sfociare in una specie di sogno reciproco. La base sicura di un’effettiva conoscenza intellettuale e di una comprensione morale va perduta se ci si lascia sopraffare dalla soddisfazione di aver capito per intuito. Si può giungere a spiegare e conoscere davvero solo riducendo le intuizioni a un’esatta conoscenza dei fatti e delle loro connessioni logiche.
Un onesto ricercatore deve ammettere di non essere sempre in grado di seguire questo procedimento; tuttavia, sarebbe disonesto non tenerlo sempre presente. Anche lo scienziato è un essere umano e perciò è naturale che egli, come tanti altri, sia portato a odiare le cose che non riesce a spiegare. È un’illusione comune credere che quanto conosciamo oggigiorno esaurisca il campo totale dello scibile. Nulla è più vulnerabile della teoria scientifica, che costituisce solo un tentativo effimero di spiegare alcuni fatti e non una verità eterna in sé compiuta.
Il ruolo dei simboli
Quando lo psicologo medico si accinge a interpretare i simboli, egli deve operare una distinzione preliminare fra simboli “naturali” e simboli “culturali”. I primi originano dai contenuti inconsci della psiche e rappresentano perciò un numero enorme di variazioni sulle immagini archetipiche fondamentali. In molti casi essi possono essere ricostruiti fino alle loro radici arcaiche, cioè fino alle idee e alle immagini reperibili nelle più antiche testimonianze e nelle società primitive. I simboli culturali, d’altra parte, sono quelli impiegati per esprimere “verità eterne” e che compaiono tuttora in molte religioni. Essi hanno subito molte trasformazioni e percorso un lungo processo di sviluppo più o meno consapevole, diventando così immagini collettive accettate dalle società civilizzate.5
Tuttavia questi simboli culturali continuano a possedere molto del loro originario carattere soprannaturale o “fascino”. Siamo consapevoli del fatto che essi possono evocare profonde risposte emotive in certi individui e questa carica psichica spesso li trasforma in pregiudizi. Essi costituiscono un fattore con cui lo psicologo deve fare i conti; è pura follia metterli in disparte solo per il fatto che, da un punto di vista razionale, essi sembrano assurdi o irrilevanti. Essi sono componenti essenziali della nostra struttura mentale e forze vitali nella costruzione della società umana: perciò non possono venire eliminati senza produrre gravi perdite. Quando vengono rimossi o trascurati, la loro specifica energia scompare nell’inconscio dando luogo a conseguenze imprevedibili. L’energia psichica che è venuta meno in questo modo serve infatti a resuscitare e intensificare tutto ciò che si trova al livello più alto dell’inconscio, quelle tendenze, magari, che finora non hanno avuto possibilità di esprimersi o a cui almeno non è stata consentita una libera esistenza nell’ambito della nostra coscienza.
Queste tendenze formano un’“ombra” sempre presente e potenzialmente distruttiva che offusca la nostra mente conscia. Anche quelle tendenze che in alcune circostanze potrebbero esercitare un’influenza benefica si trasformano in inclinazioni demoniache quando vengono rimosse. Questa è la ragione per cui molte persone ben intenzionate provano una paura comprensibile per l’inconscio ed eventualmente per la psicologia.
Nella nostra epoca è stato dimostrato che cosa accada quando vengono dischiuse le porte del mondo sotterraneo. Cose la cui enormità nessuno avrebbe potuto immaginare nell’atmosfera idillica e innocua del primo decennio di questo secolo sono effettivamente accadute e hanno stravolto il mondo intero. Da allora il mondo è rimasto in preda a uno stato di schizofrenia. Non solo la civilizzata Germania ha sprigionato la sua terribile istintività primitiva, ma anche la Russia ne è rimasta dominata e l’Africa è in fiamme. Non c’è da stupirsi che l’Occidente si senta turbato.
L’uomo moderno non si rende conto di quanto il suo “razionalismo” (che ha distrutto le sue capacità di rispondere ai simboli e alle idee soprannaturali) lo abbia posto alla mercé del mondo sotterraneo della psiche. Egli si è liberato (o crede di essersi liberato) dalla “superstizione”, ma in questo processo egli è venuto perdendo i suoi valori spirituali in misura profondamente pericolosa. La sua tradizione morale e spirituale si è disintegrata, e ora egli paga lo scotto di questo suo naufragio nel disorientamento e nella dissociazione generali.
Gli antropologi hanno spesso descritto ciò che accade a una società primitiva allorché i suoi valori spirituali si trovano esposti all’influenza della civiltà moderna. Gli uomini perdono il significato della propria vita, la loro organizzazione sociale si disintegra ed essi stessi decadono moralmente. Noi ci troviamo attualmente nella medesima condizione senza però esserci mai resi conto di ciò che abbiamo perduto, poiché i nostri capi spirituali, sfortunatamente, erano più interessati a proteggere le loro istituzioni che a comprendere il mistero offerto dai simboli. Secondo me, la fede non esclude la ragione (che è l’arma più potente dell’uomo), ma disgraziatamente molti credenti sembrano così impauriti dalla scienza (e, incidentalmente, dalla psicologia) da essere completamente ciechi di fronte alle forze psichiche soprannaturali che dominano incessantemente il destino degli uomini. Abbiamo spogliato ogni cosa del suo mistero e del suo carattere soprannaturale; non c’è più nulla di sacro.
Nell’età primitiva, quando i concetti istintivi zampillavano nella mente dell’uomo, non era diffìcile per lui integrarli consciamente in una coerente struttura psichica. Ma l’uomo “civilizzato” non è più capace di ciò: la sua coscienza “avanzata” lo ha privato dei mezzi attraverso i quali è possibile assimilare all’inconscio i contributi ausiliari degli istinti. Questi organi di assimilazione e d’integrazione erano i simboli soprannaturali, da tutti considerati sacri.
Oggi, per esempio, si fa un gran parlare di “materia”: descriviamo le sue proprietà fisiche, conduciamo esperimenti di laboratorio per dimostrarne alcuni aspetti. Tuttavia la parola “materia” rimane un concetto arido, disumano e puramente intellettuale, privo per noi di qualunque significato psichico. Quanto diversa era l’antica immagine della materia – la Grande Madre -, capace di abbracciare e di esprimere il profondo significato emotivo della Madre Terra! Nello stesso modo, ciò che prima era lo spirito, ora viene identificato con l’intelletto, cessando così di essere il Padre di tutte le cose. Esso è degenerato al rango dei limitati pensieri soggettivi dell’uomo e l’immensa energia emotiva espressa nell’immagine del “Padre nostro” è svanita nella sabbia di un deserto intellettuale.
Questi due princìpi archetipici stanno alla base degli opposti sistemi dell’Oriente e dell’Occidente. Tuttavia le masse e i loro leader non si rendono conto che non c’è alcuna differenza sostanziale fra definire il principio del mondo come maschile e paterno (lo spirito), caratteristica, questa, dell’Occidente, o come femminile e materno (la materia), secondo la concezione dei comunisti. In fondo, noi sappiamo altrettanto poco dell’uno quanto dell’altra. Nell’antichità questi principi erano venerati con ogni specie di rituali, indicativi, in fondo, del significato psichico che essi avevano per l’uomo. Oggigiorno, invece, essi sono diventati meri concetti astratti.
Quanto più si è sviluppata la conoscenza scientifica, tanto più il mondo si è disumanizzato. L’uomo si sente isolato nel cosmo, poiché non è più inserito nella natura e ha perduto la sua “identità inconscia” emotiva con i fenomeni naturali. Questi, a loro volta, hanno perduto a poco a poco le loro implicazioni simboliche. Il tuono non è più la voce di una divinità irata, né il fulmine il suo dardo vendicatore. I fiumi non sono più dimora di spiriti, né gli alberi il principio vitale dell’uomo, né il serpente l’incarnazione della saggezza o l’antro incavato della montagna il ricetto di un grande demonio. Nessuna voce giunge più all’uomo da pietre, piante o animali, né l’uomo si rivolge a essi sicuro di venire ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava.
Questa perdita enorme è compensata solo dai simboli dei sogni. Essi ci ripropongono la nostra natura originaria, con i suoi istinti e il suo particolare pensiero. Sfortunatamente, però, essi esprimono i loro contenuti nel linguaggio della natura, che per noi è strano e incomprensibile. Ci troviamo perciò di fronte alla difficoltà di tradurlo nelle parole e nei concetti razionali del linguaggio moderno, che si è liberato dalle sue implicazioni primitive e in particolare da ogni partecipazione mistica con le cose da esso descritte. Oggigiorno, quando parliamo di spiriti e di altre figure soprannaturali, non li evochiamo più. Queste parole un tempo magiche hanno ora perduto tutta la loro potenza e il loro fascino. Abbiamo smesso di credere alle formule magiche; i tabù e le altre restrizioni di questo tipo sopravvivono in numero sparuto; il nostro mondo sembra essersi disinfestato da tutte le creature della “superstizione”, come “streghe, maghi e fattucchiere”, per tacere dei lupi mannari, dei vampiri, delle anime della foresta e di tutti gli altri esseri bizzarri che popolavano la foresta primeva.
Per dirla con linguaggio più preciso, la superficie del nostro mondo sembra essere stata ripulita di tutte le superstizioni e di tutti gli elementi irrazionali. Se poi il vero mondo interiore dell’uomo (e non quello da noi semplicemente immaginato per nostra tranquillità) sia altrettanto libero da scorie primitive, è un’altra questione. Forse il numero 13 non è ancora tabù per molte persone? e non ci sono forse ancora molti individui posseduti da pregiudizi, proiezioni e illusioni infantili del tutto irrazionali? Un quadro realistico della mente umana rivela ancora molti tratti e sopravvivenze primitive di questo tipo, che continuano a persistere come se nulla fosse accaduto negli ultimi cinque secoli.
È essenziale rendersi conto di questo fatto. L’uomo moderno è infatti una curiosa mescolanza di caratteristiche volta a volta acquistate nelle lunghe fasi del suo sviluppo mentale. Questo essere composito è costituito dall’uomo e i suoi simboli, oggetto del nostro studio, ed è nostro compito analizzare molto a fondo i suoi prodotti mentali. Scetticismo e convinzione scientifica coesistono in lui fianco a fianco con inveterati pregiudizi, abitudini di pensiero e di sentimento anacronistiche, ostinate interpretazioni erronee e cieca ignoranza.
Questi sono gli esseri umani contemporanei produttori dei simboli che noi psicologi abbiamo il compito di interpretare. Per spiegare questi simboli e il loro significato è d’importanza vitale capire se le loro rappresentazioni si riferiscono a una esperienza esclusivamente personale o se invece essi sono stati appositamente scelti da un sogno in un contesto di conoscenze consce di tipo generale.
Prendiamo, per esempio, il caso di un sogno in cui ricorre il motivo del numero 13. Il problema è di sapere se il sognante sia personalmente convinto della qualità sfortunata del numero o se il sogno alluda semplicemente a coloro che indulgono tuttora a questa superstizione. A seconda del tipo di risposta l’interpretazione varia considerevolmente. Nel primo caso si deve prendere in considerazione il fatto che quell’individuo è ancora soggetto al fascino iettatorio del numero 13 e perciò egli si sentirà estremamente a disagio se in un albergo gli verrà assegnata la stanza numero 13 o se si troverà a una tavola con 13 persone. Nel secondo caso il numero in questione può non significare altro che un commento scortese e ingiurioso. Il sognante “superstizioso” sente ancora il “fascino” del 13; il sognante più “razionale”, invece, ha spogliato il 13 di ogni sua originaria accezione emotiva.
Questo esempio serve a illustrare il modo in cui gli archetipi appaiono nell’esperienza pratica: essi sono contemporaneamente sia immagini che emozioni. Si può parlare di archetipi solo quando questi due aspetti si manifestino simultaneamente. Quando c’è solo l’immagine si tratta di una notazione di scarso rilievo, ma quando è implicata l’emozione, l’immagine acquista un carattere numinoso (o un’energia psichica): essa diventa dinamica e deve produrre conseguenze di qualche rilievo.
Mi rendo conto che è difficile afferrare questo concetto, anche perché sto cercando di descrivere con parole qualcosa la cui essenziale natura sfugge a ogni esatta definizione. Ma poiché tante persone hanno intrapreso a trattare gli archetipi come semplici parti di un sistema meccanico che può essere appreso a memoria, è necessario insistere sul fatto che essi non sono né nomi puri e semplici, né concetti filosofici. Essi appartengono alla vita stessa, sono immagini integralmente connesse con l’individuo vivente per il tramite delle emozioni. Perciò è impossibile dare una interpretazione arbitraria (o universale) degli archetipi. Essi devono essere spiegati nel modo indicato dall’intera situazione esistenziale dei singoli individui particolari cui rispettivamente si riferiscono.
Perciò nel caso di un cristiano fervente il simbolo della croce può essere interpretato solo nel suo contesto cristiano, a meno che il sogno non suggerisca forti e fondati motivi nel senso di una sua interpretazione diversa, non immediata o letterale. Anche in questo caso, tuttavia, il significato specificamente cristiano non deve essere perduto di vista. D’altra parte non si può certo affermare che il simbolo della croce abbia sempre e in ogni circostanza il medesimo significato. Se così fosse gli verrebbe meno il carattere numinoso, perderebbe tutta la sua vitalità e diventerebbe una semplice parola.
Coloro che non avvertono lo speciale tono di sentimento caratteristico dell’archetipo finiscono per considerare solo un groviglio di concetti mitologici suscettibili di venire accozzati insieme in modi diversi per dimostrare che ogni cosa può avere tutti i significati – o non averne alcuno. Tutti i cadaveri sono chimicamente identici, ma gli individui viventi non lo sono. Gli archetipi cominciano a vivere solo quando si cerca pazientemente di scoprire perché e in quali guise essi sono significativi per un determinato individuo vivente.
L’uso puro e semplice delle parole è cosa inutile quando non se ne conosca il significato. Ciò è vero in modo particolare per la psicologia, dove si parla di archetipi come l’anima e l’animo, il saggio, la grande madre, e via dicendo. Noi possiamo sapere tutto sul conto dei santi, dei savi, dei profeti e degli altri uomini pii, e di tutte le grandi madri della terra; ma se essi non sono altro per noi che mere immagini di cui non abbiamo mai sperimentato il carattere numinoso, sarà come se parlassimo in sogno, senza conoscere il significato di ciò che diciamo. Le parole pure e semplici da noi usate saranno vuote e senza valore. Esse prenderanno vita e significato solo se cercheremo di afferrare la loro numinosità, cioè il loro rapporto specifico con l’individuo vivente. Solo allora cominceremo a capire che i termini in sé significano ben poco e che ciò che più conta è il modo in cui essi sono in rapporto con noi.
La funzione simboleggiatrice dei sogni è perciò un tentativo di trasferire la mente originaria dell’uomo nel contesto della coscienza “avanzata” o differenziata, dove essa non è mai entrata prima e non è stata quindi mai sottoposta a una autoriflessione critica. In età antichissima la mente originaria costituiva l’intera personalità dell’uomo. A mano a mano che in lui si è venuta sviluppando la coscienza, la sua mente conscia ha perduto progressivamente il contatto con parte di quella primitiva energia psichica. La mente conscia, da parte sua, non ha perciò mai conosciuto la mente originaria: essa è stata a poco a poco lasciata nell’ombra durante il processo di evoluzione della coscienza profondamente differenziata che, sola, sarebbe stata in grado di prendere consapevolezza di essa.
Tuttavia, quello che noi chiamiamo inconscio sembra aver conservato caratteristiche primitive che un tempo facevano parte della mente originaria. Ed è proprio a queste caratteristiche che si riferiscono costantemente i simboli onirici, come se l’inconscio tentasse di recuperare tutte quelle cose vetuste di cui la mente si è venuta progressivamente liberando – illusioni, fantasie, forme di pensiero arcaiche, istinti fondamentali, e via dicendo.
Ciò spiega la resistenza, e perfino la paura, con cui le persone comuni affrontano la realtà dell’inconscio. Questi contenuti arcaici non sono affatto neutrali o indifferenti; al contrario, essi sono a tal punto carichi di significato da essere spesso, più che motivo di semplice fastidio, causa di autentica paura. Quanto più vengono rimossi, tanto più impregnano l’intera personalità sotto forma di nevrosi.
È questa energia psichica a conferire loro tanta importanza vitale. È come se un uomo appena uscito da un lungo periodo di incoscienza si accorgesse improvvisamente di avere una lacuna nella memoria, di essere incapace di ricordare importanti avvenimenti verosimilmente verificatisi nel frattempo. Nella misura in cui considererà la psiche un affare esclusivamente personale (e questo è il caso più frequente), egli cercherà di recuperare le memorie infantili apparentemente perdute. Ma le lacune della sua memoria infantile sono semplicemente il sintomo di una perdita ben più grande: quella della psiche primitiva.
Come l’evoluzione del corpo embrionale ripete la sua preistoria, così anche la mente si sviluppa attraverso una serie di stadi preistorici. La funzione principale dei sogni è quella di ricostituire una specie di “ricordo” del mondo sia preistorico che infantile, partendo dal livello degli istinti più primitivi. Questi ricordi possono avere in alcuni casi un effetto notevolmente salutare, come capì Freud molti anni fa. Questa osservazione conferma l’opinione che una lacuna della memoria (una cosiddetta amnesia) infantile rappresenta una perdita positiva e che il suo risanamento può produrre un incremento altrettanto positivo nella vita e nel benessere dell’individuo.
Poiché il bambino è fisicamente piccolo e i suoi pensieri consci sono scarsi e semplici, non riusciamo a renderci conto facilmente delle profonde complicazioni della mente infantile, basate sulla sua identità originaria con la psiche preistorica. Questa “mente originaria” è presente e funzionante nel bambino nella stessa misura in cui lo sono gli stadi evoluzionistici del genere umano nel suo corpo ancora embrionale. Se il lettore rammenta ciò che son venuto dicendo in precedenza a proposito dei sogni fatti dalla bambina e da essa donati al padre, non stenterà a farsi un’idea di ciò che intendo dire.
Nell’amnesia infantile si rinvengono strani frammenti mitologici che spesso appaiono anche in successive psicosi. Le immagini di questo tipo hanno un carattere profondamente numinoso e sono perciò assai importanti. Se tornano ad apparire nella vita adulta questi ricordi possono in certi casi provocare sensibili disturbi psicologici, mentre in altre persone possono dar luogo a guarigioni miracolose o a conversioni religiose. Sovente essi recuperano un segmento di esistenza venuto a mancare per lungo tempo e che restituisce senso e pienezza alla vita umana.
Il ricordo di memorie infantili e la riproduzione di modi archetipici di comportamento psichico possono creare un orizzonte più vasto e una più estesa coscienza, a condizione, però, che si riesca ad assimilare e a integrare nella mente conscia i contenuti perduti e poi recuperati. Poiché non sono neutrali, la loro assimilazione porterà ad alcune modificazioni della personalità ed essi stessi subiranno a loro volta certe alterazioni. In questa fase del cosiddetto “processo di individuazione” (che la dottoressa M.-L. von Franz descrive in un’altra parte di questo libro), l’interpretazione dei simboli svolge un ruolo di grande importanza pratica. Infatti i simboli sono tentativi naturali di riconciliare e di riunire gli opposti all’interno della psiche.
Naturalmente, limitarsi a osservare i simboli, mettendoli poi subito da parte, non fornirebbe risultati di questo tipo e servirebbe solo a ristabilire l’antica condizione nevrotica e ad annullare ogni tentativo di sintesi. Ma, sfortunatamente, quelle rare persone che pure non negano l’esistenza in sé degli archetipi, quasi sempre li trattano alla stregua di semplici parole e dimenticano la loro vivente realtà. Quando la loro numinosità viene messa al bando con questo atteggiamento (e perciò illegittimamente), comincia un processo incessante di sostituzione: in altre parole, si passa con disinvoltura da un archetipo all’altro e tutti i significati diventano possibili. È pur vero che, fino a un certo punto, le forme degli archetipi sono considerevolmente interscambiabili; ma la loro numinosità è e resta un fatto fondamentale, e rappresenta il valore di un evento archetipico.
Questo valore emozionale deve essere tenuto sempre presente e valutato nel suo giusto peso nel corso dell’intero processo intellettuale di interpretazione dei sogni. È anche troppo facile perdere di vista questo valore, poiché pensiero e sentimento sono così diametralmente opposti da far sì che il pensiero scarti quasi automaticamente i valori sentimentali e viceversa. La psicologia è l’unica scienza a dover prendere in considerazione il fattore del valore (cioè del sentimento), dal momento che esso costituisce il tramite fra gli eventi psichici e la vita. Spesso si accusa la psicologia di non essere scientifica a questo riguardo; ma i suoi critici non riescono a capire la necessità scientifica e pratica di prendere adeguatamente in considerazione il sentimento.
Come sanare la frattura
Il nostro intelletto ha creato un mondo nuovo che domina la natura e lo ha popolato di macchine mostruose. Quest’ultime presentano una utilità così indiscutibile che non possiamo neanche immaginarci la possibilità di fare a meno di esse o di rinunciare a essere loro subordinati. L’uomo è costretto a seguire inevitabilmente i suggerimenti della sua mente scientifica e inventiva e a inebriarsi delle proprie splendide conquiste. Contemporaneamente, però, il suo genio rivela una terrificante tendenza a inventare cose che diventano sempre più pericolose, in quanto suscettibili di trasformarsi in micidiali strumenti di un suicidio universale.
Di fronte alla valanga crescente dell’aumento della popolazione mondiale, l’uomo ha già intrapreso la ricerca di metodi e strumenti per arginare questo pericolo. Ma la natura può anticipare tutti i nostri tentativi ritorcendo contro l’uomo la sua stessa mente creativa. La bomba h, per esempio, arresterebbe senz’altro la sovrappopolazione. Malgrado il nostro orgoglioso sentimento di dominio sulla natura, restiamo tuttora sue vittime, poiché non abbiamo ancora imparato a controllare la nostra intima natura. Lentamente ma, a quanto pare, con ostinazione irrevocabile, stiamo cercando il disastro.
Non ci sono più dèi cui si possa ricorrere per invocare aiuto. Le grandi religioni del mondo soffrono di una crescente anemia: le soccorrevoli divinità hanno per sempre abbandonato i boschi, i fiumi, le montagne, gli animali e gli uomini-dèi sono scomparsi nel profondo dell’inconscio. Poi inganniamo noi stessi tentando di persuaderci che colà essi conducano un’esistenza ignominiosa fra le reliquie del nostro passato. La nostra vita presente è dominata dalla dea Ragione che costituisce la nostra maggiore e più tragica illusione. Con l’aiuto della ragione – così tentiamo di rassicurarci – abbiamo “conquistato la natura”.
Però si tratta di un semplice slogan, poiché la cosiddetta conquista della natura si dimostra al di là delle nostre possibilità per il semplice fenomeno naturale della sovrappopolazione e si aggiunge agli altri nostri travagli dovuti alla nostra incapacità psicologica di realizzare i necessari ordinamenti politici. Per gli uomini resta più che naturale contrastarsi e combattersi reciprocamente per affermare la propria superiorità gli uni sugli altri. In che modo, quindi, abbiamo “conquistato la natura”?
Poiché ogni cambiamento deve originare da qualche parte, è il singolo individuo che dovrà sperimentarlo e condurlo a buon fine. Il cambiamento deve necessariamente avviarsi in un individuo e questi potrebbe essere chiunque di noi. Nessuno ha il diritto di starsi a guardare intorno aspettando che altri facciano quello che egli non è disposto a mettere in atto personalmente. Ma poiché nessuno sembra sapere ciò che deve fare, varrebbe la pena che ognuno di noi si chiedesse se per caso il proprio inconscio non sia a conoscenza di qualcosa che possa aiutarlo. Ciò che è certo è che la mente conscia appare incapace di rendere qualsiasi servigio di questo tipo. L’uomo è oggigiorno dolorosamente consapevole del fatto che né le grandi religioni, né le diverse filosofie risultano in grado di fornirgli quelle potenti idee animatrici che sole potrebbero dargli la sicurezza di cui ha attualmente bisogno per fronteggiare le condizioni del mondo contemporaneo.
Ricordo l’antico detto buddista: tutto andrebbe per il suo giusto verso se gli uomini si limitassero a seguire il “nobile sentiero dalle otto diramazioni” del Dharma (dottrina, legge) e se penetrassero a fondo la verità del Sé. Il cristiano ci dice che se gli uomini avessero fede in Dio, il mondo diventerebbe migliore. Il razionalista, infine, insiste nel dire che se gli uomini fossero intelligenti e ragionevoli, tutti i nostri problemi troverebbero una soluzione. Il guaio è che nessuno di loro si dà da fare per risolvere personalmente tutti questi problemi.
I Cristiani spesso si domandano come mai Dio non parli più loro, come si crede che abbia fatto nei tempi antichi. Quando sento porre questa domanda mi viene sempre in mente l’episodio di quel rabbino cui era stato chiesto come mai Dio si fosse mostrato spesso agli uomini nell’antichità e così non avvenisse più, invece, al giorno d’oggi. Il rabbino rispose: “Oggigiorno non c’è più nessuno che sappia inchinarsi di fronte alla legge”.
Questa risposta coglie nel cuore della questione. Noi siamo a tal punto prigionieri della nostra coscienza soggettiva da esserci dimenticati del fatto, antico quanto il mondo, che Dio parla soprattutto per sogni e per visioni. Il buddista rinnega come illusioni senza senso l’intero mondo delle fantasie inconsce; il cristiano, da parte sua, interpone fra sé e il proprio inconscio la Chiesa e la Bibbia; l’intellettuale razionalista, infine, non arriva a capire che la coscienza non esaurisce la totalità della psiche. Questa forma d’ignoranza resiste nel nostro tempo nonostante il fatto che da più di settantanni l’inconscio si sia affermato come concetto scientifico fondamentale senza il quale non è più possibile condurre alcuna seria indagine psicologica.
Noi non abbiamo più il diritto di considerarci tanto onnipotenti da porci come giudici dei meriti o dei demeriti dei fenomeni naturali. Noi non fondiamo più la botanica sull’antiquata divisione fra piante utili e piante inutili, o la zoologia sull’ingenua distinzione fra animali inermi e animali pericolosi. Eppure continuiamo a trastullarci col concetto che la coscienza rappresenti il senso e l’inconscio il non senso. In sede scientifica una opinione come questa verrebbe subito scartata per la sua ridicola inconsistenza. Forse si può dire che i microbi abbiano o non abbiano senso?
Qualunque cosa possa essere l’inconscio, esso è un fenomeno naturale produttore di simboli che si dimostrano significativi. Come non possiamo attenderci che una persona che non abbia mai guardato attraverso un microscopio possa esprimere interpretazioni autorevoli sul conto dei microbi, così nessuno che non abbia mai condotto un serio studio sui simboli naturali può essere considerato un giudice competente in materia. Tuttavia la generale scarsa stima sul conto dell’anima umana è così grande che né le grandi religioni, né le varie filosofie, né il razionalismo scientifico si sono voluti soffermare a considerarla a fondo.
Malgrado il fatto che la chiesa cattolica ammetta la realtà dei somnia a Deo missa, la maggioranza dei filosofi suoi seguaci non ha fatto alcun tentativo per interpretare a fondo i sogni. Io dubito che esista anche un solo trattato o una sola dottrina di confessione protestante che si sia abbassato fino al punto di ammettere la possibilità che la vox Dei possa venire avvertita in sogno. Ma se un teologo crede veramente in Dio, sulla base di quale autorità egli crede di poter affermare che Dio non possa parlare per mezzo dei sogni?
Io ho trascorso più di cinquant’anni a studiare i simboli naturali e sono giunto alla conclusione che né i sogni né i loro simboli sono delle sciocchezze. Al contrario, i sogni sono in grado di fornire informazioni del massimo interesse a coloro che si danno da fare per comprendere i loro simboli. I risultati che ne derivano, è vero, hanno poco a che fare con quelle che sono fra le principali occupazioni degli uomini, come vendere e comperare. Ma il significato della vita non si esaurisce nel mondo degli affari, né alle profonde aspirazioni del cuore umano si risponde con un conto in banca.
In un periodo della storia umana in cui tutte le energie disponibili vengono spese nello studio della natura, ben poca attenzione è dedicata all’essenza dell’uomo, cioè alla sua psiche, benché non poche ricerche siano condotte intorno alle sue funzioni inconsce. Eppure la zona veramente complessa e meno familiare della mente, quella da cui scaturiscono i simboli, resta tuttora praticamente da esplorare. Sembra quasi incredibile che, pur ricevendone segnali ogni notte, la decifrazione di queste comunicazioni sembri compito ingrato e fastidioso per la maggior parte di noi, pochissimi esclusi. Il maggior strumento di cui dispone l’uomo, la psiche, è oggetto di scarsa attenzione e viene spesso disprezzato e considerato vano. “È solo una questione psicologica” molto spesso significa semplicemente: non vale nulla.
Da dove deriva precisamente questo enorme pregiudizio? Noi ci siamo occupati tanto a fondo del problema di sapere che cosa pensiamo da esserci dimenticati di chiederci che cosa la psiche inconscia pensi di noi. Per molta gente le idee di Sigmund Freud non hanno servito ad altro che a ribadire il già diffuso disprezzo per la psiche. Prima di lui essa era stata semplicemente trascurata; ora si è trasformata in oggetto di disprezzo morale.
Il punto di vista moderno è indubbiamente unilaterale e ingiusto. Esso non si concilia neppure con i fatti a nostra conoscenza. Le nostre nozioni attuali sul conto dell’inconscio dimostrano che esso costituisce un fenomeno naturale e che, come la stessa Natura, anch’esso è per lo meno neutrale. Esso contiene tutti gli aspetti della natura umana – luce e oscurità, bello e brutto, buono e cattivo, profondità e vacua superficialità. Lo studio del simbolismo individuale e collettivo costituisce un compito enorme che non è mai stato dominato. Tuttavia ci si è finalmente incamminati ad assolverlo. I primi risultati sono incoraggianti e sembrano indicare una risposta per molte questioni fino a oggi irrisolte dell’umanità contemporanea.
Note
1 La criptomnesia di Nietzsche è esaminata da Jung in Sul carattere psicologico dei cosiddetti fenomeni occulti, in Opere, voi. i: Studi psichiatrici, Boringhieri, Torino. Ecco il brano relativo all’albero della nave, e il corrispondente nietzschiano:
J. Kerner, Blätter aus Prevorst, vol. iv, pag. 57, sotto il titolo “Una terribile avventura” (orig. 1831-37): “I quattro capitani e un mercante, Mr. Bell, erano sbarcati sull’isola di Stromboli a caccia di conigli selvatici. Alle tre in punto, mentre stavano radunando l’equipaggio per tornare a bordo, videro, con inesprimibile meraviglia, due uomini che si avvicinavano rapidamente a loro volando per aria. Uno di questi era vestito di nero, l’altro di grigio. Le due figure si accostarono rapidamente, e, suscitando il terrore degli spettatori, si inabissarono nel cratere dello Stromboli, il terribile vulcano. I cinque viaggiatori individuarono in essi dei conoscenti londinesi”.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cap. xl, “Di grandi Eventi” (Adelphi, Milano, pag. 158): Ordunque, al tempo in cui Zarathustra soggiornava sulle isole Beate, accadde che una nave gettasse l’àn- cora presso l’isola, su cui si trova quella montagna fumante; e l’equipaggio sbarcò a terra per dar la caccia ai conigli. Ma – sarà stato mezzogiorno – quando il capitano e i suoi uomini si trovarono di nuovo insieme, ecco che essi improvvisamente videro in aria venire un uomo verso di loro, mentre una voce diceva: “è tempo ormai!” Ma quando la figura fu giunta vicinissimo a loro – ed essa volò rapida come un’ombra oltre di loro nella direzione della montagna di fuoco – ecco che, con grande costernazione, si accorsero che era Zarathustra; infatti, a parte il capitano, essi lo avevano già visto, e lo amavano così come il popolo è solito amare: con affetto frammisto a soggezione.
“Ma guarda!” disse il vecchio timoniere, “Zarathustra va all’inferno!”
2 Robert Louis Stevenson esamina il sogno di Jekyll e Hyde in “Un capitolo sui sogni” del suo Across the Plain.
3 Un resoconto più dettagliato del sogno di Jung si trova in Memories, Dreams, Reflections of C. G. lung, a cura di Aniela Jaffé, New York, Pantheon, 1962 [tr. it.: Ricordi, sogni, riflessioni, a cura di Aniela Jaffé, Il Saggiatore, Milano, 1965; poi Rizzoli, Milano, 1978],
4 Esempi di idee e di immagini subliminali si possono trovare nelle opere di Pierre Janet.
5 Altri esempi di simboli culturali sono contenuti in Der Schamanismus, Zurich, 1947, di Mircea Eliade [tr. it.: Lo sciamanesimo, Bocca, Milano].
Cfr. anche Collected Works di C. G. Jung, voli, i-xvm; Londra, Routledge & Kegan Paul; New York, Bollingen Pantheon.
Joseph L. Henderson
Miti antichi e uomo moderno
I simboli eterni
L’antica storia dell’uomo viene significativamente riscoperta ai nostri giorni attraverso le immagini simboliche e i miti che sono sopravvissuti all’uomo dell’antichità. Via via che gli archeologi scavano profondamente nelle viscere del passato, non sono gli eventi del tempo storico ciò di cui impariamo a far tesoro, bensì le statue, i disegni, i templi e le lingue che ci comunicano le antiche credenze. Altri simboli ci sono rivelati dai filologi e dagli storici delle religioni, che sanno tradurre queste credenze in concetti moderni e intelligibili. Questi, a loro volta, prendono vita attraverso gli studi degli antropologi culturali, che dimostrano come gli stessi modelli simbolici siano reperibili nei rituali o nei miti di piccole società tribali tuttora esistenti ai margini della civiltà, senza aver conosciuto alcun mutamento nei secoli.
Tutte queste ricerche hanno contribuito a correggere sensibilmente l’atteggiamento unilaterale di quei moderni secondo i quali questi simboli apparterrebbero solo ai popoli dell’antichità o alle moderne tribù “arretrate”, e quindi non presenterebbero alcun interesse di fronte alle complessità della vita del nostro tempo. Avviene così che a Londra o a New York ci si rifiuti di prendere in considerazione i riti di fertilità dell’uomo neolitico, spacciandoli per arcaiche superstizioni. Se qualcuno sostiene di avere avuto una visione o di avere udito voci, egli non viene trattato come un santo o come un oracolo: ci si limita a dire che è malato di mente. Leggiamo i miti degli antichi Greci o le storie popolari degli Indiani d’America, ma non riusciamo a scorgere alcuna connessione fra essi e i nostri atteggiamenti verso gli “eroi” o gli avvenimenti drammatici del nostro tempo.
Eppure le connessioni ci sono e i simboli che le rappresentano non hanno perso la loro importanza per il genere umano.
Uno dei maggiori contributi contemporanei alla comprensione e alla rivalutazione di questi simboli eterni è stato fornito dalla scuola di psicologia analitica fondata dal dottor Jung. Essa ha contribuito a eliminare l’arbitraria distinzione fra l’uomo primitivo, al quale i simboli appaiono come un ingrediente naturale della vita di tutti i giorni, e l’uomo moderno, per il quale essi sono senz’altro privi di ogni significato e interesse.
Come il dottor Jung ha messo in evidenza nelle pagine precedenti, la mente dell’uomo possiede una sua storia particolare e la psiche conserva molte tracce residue degli stadi anteriori del suo sviluppo. In più, i contenuti dell’inconscio esercitano una influenza formativa sulla psiche. Consciamente noi possiamo anche ignorarli, ma inconsciamente rispondiamo a essi e alle forme simboliche – ivi compresi i sogni – attraverso le quali si vengono esprimendo.
All’individuo può sembrare che i sogni siano spontanei e privi di qualunque connessione. Ma in un lungo arco di tempo l’analista arriva a osservare tutta una serie di immagini oniriche e a notare che esse presentano una struttura significativa: se il paziente riesce a comprenderla egli potrà eventualmente acquistare un nuovo atteggiamento verso la vita. Alcuni simboli di questi sogni derivano da ciò che il dottor Jung ha definito “l’inconscio collettivo” – cioè quella parte della psiche che trattiene e trasmette l’eredità psicologica comune all’intero genere umano. Questi simboli sono così antichi e poco familiari all’uomo moderno che egli non riesce a comprenderli direttamente o ad assimilarli.
È in questo senso che può essere utile l’analista. Il paziente deve essere possibilmente liberato dall’ingombro dei simboli che siano diventati decrepiti e inadeguati, oppure deve essere assistito a scoprire il persistente valore di qualche antico simbolo che, lungi dall’essersi esaurito, anela ad essere fatto rivivere in forma moderna.
Prima che l’analista possa accingersi a esplorare efficacemente il significato dei simboli di un paziente, è necessario che acquisti personalmente una più larga conoscenza delle loro origini e del loro significato. Infatti le analogie fra i miti antichi e le storie che appaiono nei sogni dei pazienti del nostro tempo non sono né banali né accidentali. Esse sono reali poiché la mente inconscia dell’uomo moderno conserva tuttora quella capacità simboleggiatrice che un tempo trovava espressione nelle credenze e nei rituali primitivi; e tale capacità svolge ancora un ruolo di vitale importanza psichica. Noi dipendiamo più di quanto non si pensi comunemente dai messaggi trasportati da questi simboli, e sia i nostri atteggiamenti che il nostro comportamento ne sono profondamente influenzati.
In tempo di guerra, per esempio, si registra un accresciuto interesse per le opere di Omero, di Shakespeare o di Tolstoj e siamo portati a leggere con occhi diversi quei passi che assegnano alla guerra il suo significato perenne (o “archetipico”). Essi evocano in noi una risposta molto più profonda di quella che può essere eventualmente suscitata in qualcuno che non abbia mai vissuto l’intensa esperienza emotiva della guerra. Le battaglie combattute nella pianura di Troia non
hanno, in sé, niente a che fare con quelle di Agincourt o di Borodino, ma i grandi scrittori sono capaci di trascendere le differenze di spazio e di tempo e di esprimersi in temi universali. Noi rispondiamo proprio perché questi temi sono fondamentalmente simbolici.
Un esempio ancor più significativo deve essere familiare a ognuno che sia stato educato in una società di tipo cristiano. A Natale noi possiamo esprimere il nostro sentimento interiore per la nascita mitologica di un fanciullo semidivino anche se non crediamo nella dottrina della verginità della madre di Cristo o non possediamo alcuna fede religiosa cosciente. Senza saperlo, ci siamo imbattuti nel simbolismo della rinascita. Si tratta della sopravvivenza di un’antichissima festa solstiziale, recante la speranza che le terre intristite dall’inverno dell’emisfero settentrionale tornino a rinnovarsi. Così il nostro gusto sofisticato trova soddisfazione in questa festa simbolica, allo stesso modo che per Pasqua ci uniamo ai nostri figli nel festoso rituale delle uova e dei conigli pasquali.
Ma ci rendiamo veramente conto di ciò che facciamo, e siamo consapevoli della connessione fra la storia della nascita, morte e resurrezione di Cristo e il popolare simbolismo pasquale? Di solito non ci diamo neppure la preoccupazione di considerare da un punto di vista razionale tutte queste usanze.
Eppure esse sono reciprocamente complementari. La crocifissione di Cristo nel venerdì santo sembra appartenere a prima vista al medesimo tipo di simbolismo della fertilità che ci è dato rinvenire nei rituali di altri “salvatori” come Osiride, Tammuz, Orfeo e Balder. Anch’essi erano tutti di nascita divina o semidivina, vissero un’esistenza singolare, furono uccisi e quindi rinacquero. Essi appartengono, di fatto, a religioni di tipo ciclico nelle quali la morte e la rinascita del re-dio costituiscono un mito eternamente ricorrente.
Tuttavia la resurrezione di Cristo nel sabato santo è molto meno soddisfacente, da un punto di vista rituale, di quanto non lo sia invece il simbolismo delle religioni cicliche. Infatti Cristo ascende alla destra di Dio Padre: la sua resurrezione avviene una volta per tutte.
È questa finalità del concetto cristiano di resurrezione (l’idea cristiana di Giudizio finale presenta un tema “chiuso” simile a questo) a distinguere il cristianesimo dagli altri miti fondati sulla figura del re-dio. Il rituale si limita a commemorare ciò che è avvenuto una volta sola. Tuttavia questo senso finalistico rappresenta probabilmente la ragione per la quale i primi Cristiani, tuttora sensibili alle influenze delle
tradizioni precristiane, pensavano che il Cristianesimo dovesse essere completato con l’aggiunta di alcuni elementi di un più antico rituale della fertilità. Essi sentivano il bisogno della ricorrente promessa della rinascita: in ciò consiste appunto il significato della simbologia pasquale dell’uovo e del coniglio.1
Sono ricorso a due esempi completamente diversi per mostrare come l’uomo moderno continui a rispondere a profonde influenze psichiche che tuttavia egli, consciamente, rifiuta di prendere in considerazione, come se si trattasse di poco più che di storie ingenue di popoli superstiziosi e incivili. Ma è necessario spingere ancora più a fondo le nostre osservazioni. Quanto più da vicino si analizzano la storia del simbolismo e il ruolo che i simboli hanno avuto nella vita di numerose differenti culture, tanto più ci si rende conto che in questi simboli è implicito anche un significato ricreativo.
Alcuni simboli si riferiscono all’infanzia e al passaggio all’adolescenza, altri alla maturità, altri ancora all’esperienza della vecchiaia, quando l’uomo si viene preparando all’inevitabilità della morte. Il dottor Jung ha descritto il modo in cui i sogni di una bambina di otto anni contenevano già quei simboli che normalmente si è soliti associare alla vecchiaia. I sogni della bambina presentavano aspetti di iniziazione alla vita di un tale carattere che sembravano appartenere alla medesima struttura archetipica dell’iniziazione alla morte. È evidente perciò che questa progressione di idee simboliche può manifestarsi nell’ambito della mente conscia dell’uomo moderno nello stesso modo in cui essa era solita esprimersi nei rituali delle antiche società.
Questa connessione cruciale fra i miti arcaici o primitivi e i simboli prodotti dall’inconscio è di immensa importanza pratica per l’analista. Essa gli consente di identificare e di interpretare questi simboli in un contesto che conferisce loro prospettiva storica non meno che significato psicologico. Prenderò ora in esame alcuni dei più importanti miti dell’antichità e mostrerò come – e per quale scopo – essi sono analoghi al materiale simbolico in cui ci imbattiamo di solito nei nostri sogni.
Eroi e costruttori di eroi
Il mito dell’eroe è quello più comune e meglio conosciuto. Lo troviamo nella mitologia classica della Grecia e di Roma, nel Medioevo, nell’Estremo Oriente e fra le tribù primitive contemporanee. Esso compare anche nei nostri sogni e possiede una immediata attrattiva drammatica unita a una meno diretta, anche se profonda, importanza psicologica.
Questi miti eroici variano enormemente nei particolari, ma quanto più da vicino li esaminiamo, tanto più ci rendiamo conto che essi sono strutturalmente molto simili. Essi posseggono, per così dire, una struttura universale, anche se di fatto si sono venuti sviluppando in gruppi o in individui estranei a ogni possibile contatto reciproco, come, per esempio, le tribù africane, quelle degli Indiani del Nordamerica, i Greci o gli Incas del Perù. In tutti i casi ci si trova invariabilmente di fronte a un racconto che descrive la nascita miracolosa ma umile dell’eroe, le sue prime prove di potenza sovrumana, la rapida ascesa a posizioni di preminenza e di autorità, la sua lotta trionfante contro le forze del male, la sua fallibilità di fronte al peccato di orgoglio (hybris), e infine la sua caduta a seguito di un tradimento o di un “eroico” sacrificio che culmina nella morte.
Spiegherò in seguito più particolareggiatamente le ragioni per le quali ritengo che questa struttura abbia significato psicologico non solo per l’individuo che si sforza di scoprire e di affermare la propria personalità, ma anche per una intera società, che possiede una esigenza uguale di definire la propria identità collettiva. Tuttavia c’è un’altra importante caratteristica del mito dell’eroe che fornisce un appiglio alla comprensione del fenomeno. In molte di queste storie la primitiva debolezza dell’eroe viene compensata dalla comparsa di forti personaggi “tutelari” – o guardiani – che gli consentono di portare a termine le imprese sovrumane che senza aiuto egli non sarebbe in grado di realizzare. Fra gli eroi greci Teseo aveva come sua divinità tutelare Poseidone, dio del mare, Perseo aveva Athena, e Achille Chirone, il saggio centauro.
Questi personaggi dalle caratteristiche divine di fatto non simboleggiano altro che l’intera psiche, cioè quella più ampia e più comprensiva identità che è capace di fornire la forza di cui l’ego personale è privo. Il loro ruolo particolare suggerisce il fatto che la funzione essenziale del mito dell’eroe è costituita dallo sviluppo della coscienza individuale dell’ego – della consapevolezza, cioè, della sua forza e della sua debolezza insieme – in modo tale da fornirgli gli strumenti adatti per far fronte agli ardui compiti che la vita gli presenta. Una volta che l’individuo abbia superato la prova iniziale e sia entrato nella fase matura della vita, il mito dell’eroe perde ogni vitalità. La morte simbolica dell’eroe diventa, per così dire, il segno del raggiungimento di questa maturità.
Finora mi sono riferito al mito dell’eroe nel suo complesso, in cui viene elaboratamente descritto l’intero ciclo dalla nascita alla morte. Tuttavia è essenziale osservare come in ogni singola fase del ciclo compaiano forme speciali della storia dell’eroe che si adeguano alla situazione particolare raggiunta dall’individuo nel processo di sviluppo della propria coscienza dell’ego e al problema specifico che egli si trova di fronte in quel particolare momento. Ciò equivale a dire che l’immagine dell’eroe si evolve in guise che riflettono ogni singola fase dell’evoluzione della personalità umana.
Questo concetto risulterà più facilmente comprensibile se lo presenterò nei termini di un diagramma. Ricavo l’esempio dalla sconosciuta tribù nordamericana degli Indiani Winnebago, poiché esso rivela assai chiaramente quattro distinte fasi in questa evoluzione dell’eroe. Attraverso le storie (pubblicate nel 1948 dal dottor Paul Radin sotto il titolo Hero Cycles of the Winnebago) possiamo assistere a una netta progressione dal concetto più primitivo a quello più elaborato dell’eroe. Tale progressione è caratteristica anche di altri cicli eroici. Benché i personaggi simbolici abbiano in essi naturalmente nomi differenti, i loro ruoli sono simili, e riusciremo a capirli meglio quando avremo colto il significato dell’esempio in questione.
Il dottor Radin notò quattro cicli distinti nell’evoluzione del mito dell’eroe. Egli li intitolò rispettivamente: ciclo del- l’Imbroglione, ciclo della Lepre, ciclo di Corno Rosso e ciclo dei Gemelli. Non gli sfuggì il preciso significato psicologico di questa evoluzione e osservò: “Essa rappresenta i nostri sforzi per far fronte al problema della nostra maturazione negli anni, aiutandoci con l’illusione di una finzione eterna”.2
Il ciclo dell’Imbroglione corrisponde al primo e meno sviluppato periodo della vita. L’Imbroglione è un personaggio il cui comportamento è interamente dominato dagli appetiti fisici: la sua mentalità è quella di un bambino. Privo di ogni altro scopo che non sia quello della gratificazione dei suoi bisogni elementari, egli è crudele, cinico e spietato. (Le nostre storie di Fratel Coniglietto o di Comare Volpe conservano gli elementi essenziali del mito dell’Imbroglione.) Questo personaggio, che all’inizio ha la forma di un animale, passa da una impresa malvagia all’altra e così facendo muta successivamente di aspetto. Alla fine delle sue continue scellerataggini comincia ad assumere le sembianze fisiche di un uomo adulto.
La seconda figura è quella della Lepre. Anch’essa, come l’Imbroglione (i cui tratti animali sono spesso rappresentati da un coyote presso gli Indiani d’America), appare all’inizio sotto la forma di animale. Essa non ha ancora raggiunto la statura dell’uomo maturo, ma ciò nonostante si presenta come il fondatore della civiltà umana: il Trasformatore. Gli Indiani Winnebago credono che, donando loro il famoso Rito magico, egli sia diventato il loro salvatore e il loro eroe nazionale. Questo mito era così potente, nota il dottor Radin, che i seguaci del rito Peyote furono riluttanti a rinunciare all’adorazione della Lepre, allorché il Cristianesimo cominciò a penetrare nella tribù. Essa finì per essere assorbita nella figura di Cristo, ma alcuni di loro continuarono a sostenere che non avevano alcun bisogno di Cristo dal momento che avevano già la Lepre. Questa figura archetipica rappresenta un netto passo avanti rispetto a quella dell’Imbroglione: essa comincia a diventare un essere socializzato, che viene correggendo gli impulsi meramente istintuali e infantili caratteristici del ciclo dell’Imbroglione.3
Corvo Rosso, la terza figura eroica di questa serie, è un personaggio ambiguo, detto il minore dei dieci fratelli. Egli soddisfa a tutti i requisiti di un eroe archetipico superando vittoriosamente prove come corse e battaglie. La sua sovrumana potenza si mostra nella capacità di sconfiggere giganti per mezzo dell’astuzia (in un gioco di dadi) o della forza (in un incontro di lotta). Egli possiede un potente alleato in un uccello del tuono, chiamato Storms-as-he-walks, la cui forza interviene sempre a compensare ogni eventuale debolezza di Corvo Rosso. Con quest’ultimo abbiamo ormai raggiunto il mondo dell’uomo, anche se si tratta di un mondo ancora primordiale in cui l’aiuto di potenze soprannaturali o di divinità tutelari è indispensabile per assicurare all’uomo la vittoria sulle forze del male che lo stringono d’assedio. Verso la fine della storia l’eroe divino se ne va, lasciando Corno Rosso e i suoi figli sulla terra. A questo punto è l’uomo stesso a diventare responsabile dei pericoli cui possono andare incontro la sua felicità e la sua sicurezza.
Questo tema fondamentale (che si ripete anche nell’ultimo ciclo, quello dei Gemelli), solleva la seguente questione vitale: fino a che punto gli esseri umani possono riuscire vittoriosi senza cadere vittime del loro orgoglio o, in termini mitologici, della gelosia degli dèi?
Benché si dica che i Gemelli sono i figli del Sole, essi sono essenzialmente umani e costituiscono insieme una singola persona. Originariamente uniti nel grembo materno, essi furono separati alla nascita. Eppure essi si appartengono l’un l’altro ed è necessario – anche se estremamente difficile – riunirli insieme. In questi due fanciulli sono rappresentati i due aspetti fondamentali della natura umana. L’uno è acquiescente, mite e senza iniziativa; l’altro è dinamico e ribelle. In alcune storie di eroi gemelli, questi atteggiamenti vengono precisati in modo così sottile che il primo rappresenta l’introverso, la cui forza principale risiede nella capacità di riflessione, e il secondo l’estroverso, cioè un uomo d’azione che riesce a compiere grandi imprese.
Per lungo tempo questi due eroi sono invincibili: sia che vengano rappresentati come due figure separate oppure come un’unica personalità composita, essi non conoscono rivali. Ma alla fine, come gli dèi guerrieri della mitologia degli Indiani Navaho,4 essi abusano della loro potenza. Né in cielo né sulla terra è rimasto più alcun mostro da abbattere e il selvaggio comportamento cui essi si abbandonano porta fatalmente alla loro punizione. Gli Indiani Winnebago dicono che nulla, alla fine, si salvava dai loro assalti – neppure i sostegni su cui è poggiato il mondo. Quando i Gemelli uccisero uno dei quattro animali che sostenevano la terra, essi superarono ogni limite e venne il momento di por fine alle loro imprese: la sola punizione che si meritassero era la morte.
In conclusione, sia nel ciclo di Corno Rosso sia in quello dei Gemelli, troviamo il tema del sacrificio o della morte dell’eroe come rimedio per la hybris, l’orgoglio che ha superato ogni limite. Nelle società primitive il cui livello di cultura corrisponde a quello rappresentato nel ciclo di Corno Rosso, questo rischio risulta a volte prevenuto attraverso l’istituzione del sacrificio umano propiziatorio: un tema, questo, che possiede un’immensa importanza simbolica e che ricorre continuamente nella storia umana. Gli Indiani Winnebago, come gli Irochesi e alcune tribù algonchine, probabilmente mangiavano la carne umana come rituale totemico capace di attenuare i loro impulsi individualistici e distruttivi.
Negli esempi del tradimento o della sconfitta dell’eroe ricorrenti nella mitologia europea, il tema del sacrificio rituale viene impiegato più specificamente come punizione per la hybris. Invece i Winnebago, come i Navaho, non si spingono fino a tal punto. Benché i Gemelli abbiano errato e benché la punizione dovesse essere, a rigore, la morte, essi stessi si sono a tal punto spaventati della loro irresponsabile potenza da sottomettersi a vivere in una condizione di riposo permanente: gli elementi in conflitto della natura umana hanno così ritrovato il proprio reciproco equilibrio.
Mi sono indugiato in questa descrizione dei quattro tipi di eroi perché essa fornisce una chiara dimostrazione della struttura ricorrente sia nei miti storici che nei sogni eroici dell’uomo contemporaneo. Tenendo presente quanto abbiamo detto fin qui, esaminiamo ora il sogno di un paziente di media età. L’interpretazione di questo sogno mostra come lo psicologo analitico, grazie alla sua conoscenza della mitologia, possa aiutare il paziente a trovare una risposta a problemi che altrimenti risulterebbero insolubili enigmi. Quest’uomo sognò di essere a teatro, nei panni di “uno spettatore importante la cui opinione viene rispettata”. Durante un atto appariva una scimmia bianca su un piedistallo e tutt’intorno aveva alcuni uomini. Nel raccontare il sogno il paziente aggiungeva:
La guida mi spiega il tema: si tratta della terribile prova cui è sottoposto un giovane marinaio, costretto a sopportare le sferzate del vento e a essere contemporaneamente percosso. Io obietto che la scimmia bianca non. è affatto un marinaio, ma proprio in quel momento compare un giovane vestito in nero e allora penso che egli debba essere il vero eroe. Ma un altro giovane, di bell’aspetto, si dirige a grandi passi verso un altare e vi si distende sopra. Gli altri fanno dei segni sul suo petto nudo, come rito preliminare prima di immolarlo quale vittima umana sacrificale.
A questo punto mi ritrovo su una piattaforma con diverse altre persone. Potremmo facilmente scendere a terra per mezzo di una scala a pioli, ma io esito a farlo perché lì vicino ci sono due giovani malviventi e penso che essi ci sbarreranno la via. Ma quando una donna del gruppo riesce a scendere la scala senza venire molestata, capisco che la via è libera e allora scendiamo tutti dietro a lei.
Un sogno di questo tipo non può essere interpretato in quattro e quattr’otto o in termini semplicistici. Noi dobbiamo districarlo accuratamente in modo da mettere in chiaro sia le sue connessioni con la vita del sognante in particolare, sia le sue implicazioni di carattere più generale. Il paziente che ne era stato autore era un uomo ormai maturo fisicamente. Aveva percorso una carriera brillante ed era apparentemente un perfetto padre e marito. Eppure era psicologicamente ancora immaturo e non aveva superato la fase di sviluppo giovanile. Era questa immaturità psichica a esprimersi nei sogni sotto forma di aspetti differenti del mito eroico. Tali immagini continuavano a esercitare una forte attrazione sulla sua immaginazione, anche se non avevano- ormai più, da lungo tempo, alcun significato reale per la vita attuale del paziente.
Con questo sogno, dunque, ci troviamo di fronte a una serie di figure teatralmente presentate come aspetti diversi di un medesimo personaggio che, secondo la continua aspettativa del sognante, dovrà finire per rivelarsi come il vero eroe.
La prima di queste figure è una scimmia bianca, la seconda un marinaio, la terza un giovane in nero e l’ultima un “giovane di bell’aspetto”. Nella prima parte della rappresentazione, che si suppone descriva la prova del marinaio, il sognante vede solo la scimmia bianca. L’uomo in nero appare d’improvviso e altrettanto improvvisamente scompare; è una figura nuova che dapprima contrasta con la scimmia bianca e in seguito viene momentaneamente confusa con l’eroe vero e proprio. (Questo tipo di confusione non è insolito nei sogni: il sognante si vede presentare dall’inconscio immagini spesso tutt’altro che chiare ed è quindi costretto a districare un qualche significato da una catena di contrasti e di paradossi.)
Significativamente, queste figure appaiono nel corso di una rappresentazione teatrale e tale contesto sembra rappresentare un diretto riferimento del sognante al proprio trattamento per mezzo dell’analisi: la “guida” da lui menzionata è probabilmente l’analista. Tuttavia egli non si vede nei panni di un paziente sottoposto a un trattamento medico, bensì nel ruolo di “uno spettatore importante la cui opinione viene rispettata”. È questa la posizione di vantaggio dalla quale egli vede certe figure che vengono da lui associate all’esperienza della crescita. La scimmia bianca, per esempio, gli riporta alla mente il comportamento giocoso e un po’ sfrenato dei ragazzi fra i sette e i dodici anni. Il marinaio simboleggia lo spirito avventuroso della prima adolescenza, e insieme gli “scapaccioni” presi come punizione di qualche azione irresponsabile. Il paziente non riusciva a realizzare alcuna associazione per quanto riguardava il giovane vestito di nero, mentre il giovane di bell’aspetto in procinto di essere sacrificato veniva da lui considerato come un ricordo dell’idealistico atteggiamento di autosacrificio caratteristico della tarda adolescenza.
A questo punto è possibile connettere insieme il materiale storico (o le immagini eroiche archetipiche) e i dati ricavati dall’esperienza personale del sognante per vedere in che misura essi si corroborino, si contraddicano, ovvero si qualifichino a vicenda.
La prima conclusione, possibile è che la scimmia bianca rappresenti l’Imbroglione – o almeno quei tratti della personalità che gli Indiani Winnebago attribuiscono all’Imbroglione. Secondo me, tuttavia, la scimmia simboleggia in più qualcosa che il sognante non ha personalmente e adeguatamente sperimentato: egli afferma infatti di essere stato nel sogno un semplice spettatore. Venni a scoprire che da bambino egli era stato eccessivamente attaccato ai genitori e che era di natura introspettiva. Per questi motivi non era mai riuscito a sviluppare pienamente quel tipo di comportamento chiassoso che è caratteristico dell’ultima infanzia, né si era mai associato ai giochi dei compagni di scuola. Mai si era abbandonato a quelle burle e monellerie che rendono il comportamento dei ragazzi tanto simile a quello scherzoso delle scimmie. Questo è il senso vero dell’immagine: la scimmia del sogno è di fatto nient’altro che l’Imbroglione tradotto in forma simbolica.
Ma per quale ragione l’Imbroglione appariva come una scimmia? E perché era bianca? Come ho già rivelato, il mito degli Indiani Winnebago racconta che, verso la fine del ciclo, l’Imbroglione comincia ad assumere il sembiante fisico di un uomo. Ebbene, qui, nel sogno, esso assume l’aspetto di una scimmia – un animale, cioè, tanto simile all’uomo da rappresentarne una caricatura ridicola e nient’affatto pericolosa. Il paziente non riusciva a offrire alcuna associazione personale per spiegare come mai la scimmia fosse bianca. Però in base alla nostra conoscenza del simbolismo primitivo possiamo congetturare che il colore bianco assegni uno speciale requisito di “somiglianza divina” a una figura altrimenti del tutto banale. (L’albino viene considerato sacro in molte comunità primitive.) Ciò si adegua assai bene alle qualità semidivine o semimagiche dell’Imbroglione.5
In conclusione, a quanto sembra, la scimmia bianca simboleggia per il sognante la positiva qualità della giocosità infantile che egli non aveva sufficientemente accettato da bambino e che ora gli si ripropone invece in termini di esaltazione. Come ci rivela il sogno, egli la colloca “su un piedistallo”, dove essa diviene qualcosa di più della perduta esperienza infantile pura e semplice. Essa è ormai divenuta per l’uomo adulto un simbolo di sperimentalismo creativo.
In seguito nasce la confusione intorno alla figura della scimmia. Si tratta di una scimmia o di un marinaio costretto ad affrontare le percosse? Le associazioni del sognante indicano da sole il significato di questa trasformazione. In ogni caso la fase successiva di sviluppo umano segna il passaggio dall’irresponsabilità dell’infanzia a un periodo di socializzazione, e ciò comporta la sottomissione a una gravosa disciplina. Si potrebbe così dire che il marinaio rappresenta una versione più avanzata dell’Imbroglione, che si viene progressivamente mutando in una persona socialmente responsabile attraverso una prova di iniziazione. Rifacendoci alla storia del simbolismo, possiamo supporre che il vento rappresenti gli elementi naturali di questo processo e che le percosse indichino gli elementi di derivazione umana.
A questo punto abbiamo, dunque, un diretto riferimento al processo descritto dagli Indiani Winnebago nel ciclo della Lepre, in cui l’eroe della stirpe è rappresentato come una figura debole eppure pugnace, pronta a sacrificare la fanciullezza per consentire uno sviluppo ulteriore. Ancora una volta, in questa fase del sogno, il paziente viene riconoscendo la mancanza di una sua esperienza piena di un aspetto importante della fanciullezza e della prima adolescenza. Egli non conobbe la spensierata giocosità dei bambini e neppure le forme di comportamento più irresponsabile dei giovani teenager ed è perciò che egli va in cerca di quei modi in cui queste esperienze perdute e queste qualità personali possono venire riabilitate.
Subito dopo si verifica un curioso cambiamento nel sogno: compare il giovane vestito in nero e per un momento il sognante pensa che questi sia il “vero eroe”. Ciò è tutto quello che sappiamo sul conto dell’uomo in nero; tuttavia questa fugace apparizione introduce un tema di profonda importanza – un tema che ricorre frequentemente nei sogni.
Si tratta del concetto dell’“ombra” che svolge un ruolo di vitale importanza nella psicologia analitica. Il dottor Jung ha messo in evidenza come l’ombra proiettata dalla mente conscia contenga gli aspetti nascosti, rimossi e spiacevoli (o nefasti) della personalità. Tuttavia questa oscurità non rappresenta semplicemente il contrario dell’ego cosciente: infatti, come l’ego contiene atteggiamenti spiacevoli e distruttivi, così l’ombra possiede a sua volta buone qualità – istinti normali e impulsi creativi. Inoltre l’ego e l’ombra, benché separati, sono inestricabilmente legati fra loro allo stesso modo che il pensiero e il sentimento sono connessi l’un l’altro.
Ciò nonostante l’ego è in conflitto con l’ombra, in quella che una volta il dottor Jung ha chiamato la “battaglia per la liberazione”.6 Nella lotta ingaggiata dall’uomo primitivo per raggiungere la coscienza, tale conflitto viene espresso dal contrasto fra l’eroe archetipico e le potenze cosmiche del male, personificate da dragoni e da mostri di altro tipo. Nel processo di sviluppo della coscienza individuale, la figura dell’eroe simboleggia i mezzi coi quali l’ego emergente vince l’inerzia della mente inconscia, liberando così l’uomo maturo dal desiderio regressivo di tornare allo stato felice dell’infanzia in un mondo dominato dalla figura materna.
Di solito, in mitologia, l’eroe vince la propria battaglia contro il mostro. (Su questo punto mi soffermerò in seguito.) Tuttavia ci sono altri miti eroici nei quali il protagonista viene sopraffatto dal mostro. Un caso familiare è quello di Giona e della balena, in cui l’eroe viene ingoiato da un mostro marino che lo trasporta, in un viaggio notturno, da occidente ad oriente, simboleggiando in tal modo la concezione comune dell’itinerario del sole dal tramonto all’alba. L’eroe penetra nell’oscurità che rappresenta una specie di morte. Ho ritrovato questo tema in vari sogni da me analizzati nel corso della mia esperienza clinica.
La battaglia fra l’eroe e il dragone rappresenta la forma più attiva di questo mito e quella che mostra più chiaramente il tema archetipico del trionfo dell’ego sulle tendenze regressive. Per la maggior parte delle persone il lato oscuro o negativo della personalità rimane al livello inconscio. L’eroe, al contrario, deve rendersi conto necessariamente che l’ombra esiste e che egli può avvantaggiarsene. Egli deve venire a patti con le forze distruttive che essa racchiude se vuol diventare terribile abbastanza da vincere il dragone. In altre parole, prima che l’ego possa trionfare è necessario che esso riesca a dominare e ad assimilare l’ombra.
Lo stesso tema è reperibile, incidentalmente, in una ben nota figura letteraria di eroe: il personaggio goethiano di Faust. Nell’accettare la scommessa di Mefistofele, Faust si mette in balìa del potere di una figura “ombra”, che Goethe descrive come “parte di quella potenza che, con il consenso del male, perviene al bene”. Nello stesso modo del paziente di cui sono venuto discutendo il sogno, Faust si era sottratto dal vivere pienamente una parte importante della sua vita giovanile. Di conseguenza egli era un personaggio irreale o incompleto perdutosi tutto nella inane ricerca di un fine metafisico che non si sarebbe mai realizzato. Egli non si rassegnava ad accettare la sfida della vita nella sua compresenza di bene e di male.
È a quest’aspetto dell’inconscio che sembra riferirsi la figura del giovane in nero del sogno del mio paziente. Questo ricordo del lato-ombra della propria personalità, del suo forte potenziale e del suo ruolo nella preparazione dell’eroe alle future battaglie della vita, costituisce una transizione essenziale dalle prime parti del sogno al tema dell’eroe sacrificale: il giovane di bell’aspetto, cioè che si distende sull’altare. Questa figura rappresenta quella forma di eroismo che risulta comunemente associata al processo di costruzione dell’ego della tarda adolescenza. È in questo periodo che l’uomo esprime i principi ideali della propria vita, avvertendo la loro capacità sia di trasformarlo personalmente, sia di imprimere una diversa direzione ai suoi rapporti con gli altri. Egli si trova, per così dire, nel fiore della giovinezza; è attraente, pieno di energia e di idealismo. Perché, allora, si offre spontaneamente al sacrificio?
La ragione, presumibilmente, è la stessa per la quale i Gemelli del mito Winnebago finiscono per rinunciare alla loro potenza, pena il proprio annientamento. L’idealismo della giovinezza, che stimola tanto a fondo, è in definitiva suscettibile di infondere una eccessiva fiducia nelle nostre forze: l’ego dell’uomo può esaltarsi fino a sperimentare attributi divini, ma solo al prezzo di spezzare le proprie naturali barriere e di condannarsi alla fine. (Questo è il significato della leggenda di Icaro, del giovane, cioè, che si innalza su nel cielo spinto dalle fragili ali di fattura umana ma che, volando troppo vicino al sole, precipita incontrando la morte.) Tuttavia l’ego giovanile deve sempre correre questo rischio, poiché se un giovane non lotta per conseguire uno scopo superiore a quello che gli è tranquillamente a portata di mano, egli non sarà in grado di superare gli ostacoli che gli si frappongono nel passaggio dall’adolescenza alla maturità.
Fino a questo punto sono venuto esponendo le conclusioni che, al livello delle sue associazioni personali, il mio paziente era in grado di ricavare dal proprio sogno. Però sussiste anche un livello archetipico nel sogno – il mistero della profferta del sacrificio umano. Proprio perché si tratta di un mistero, esso è espresso in un atto rituale che, col suo simbolismo, ci riporta molto indietro nella storia dell’uomo. Nella scena dell’uomo disteso su un altare troviamo il riferimento a un atto ancor più primitivo di quelli compiuti sulla pietra dell’altare del tempio di Stonehenge. Su di esso, come, del resto, su molti altari primitivi, possiamo immaginarci facilmente la scena della celebrazione di qualche primitivo rito solstiziale combinato con la morte e la resurrezione di un eroe mitologico.
Il rituale reca con sé l’espressione di un dolore che è, allo stesso tempo, una specie di gioia, un intimo riconoscimento del fatto che la morte conduce anche a una nuova vita. Sia che esso venga espresso nella prosa epica degli Indiani Winnebago, in un lamento per la morte di Balder nelle saghe norvegesi, nelle poesie di Walt Whitman in morte di Abraham Lincoln, oppure nel rituale onirico attraverso il quale un uomo recupera i propri timori e le proprie speranze giovanili, si tratta pur sempre dello stesso tema: il dramma di una nuova nascita attraverso la morte.
L’ultima parte del sogno rivela un curioso epilogo, nel corso del quale il sognante viene coinvolto direttamente nell’azione rappresentata dal sogno. Egli si trova con altre persone su una piattaforma dalla quale devono scendere. Egli non si arrischia lungo la scala a pioli temendo il possibile intervento dei teppisti, ma una donna lo incoraggia a credere che sia possibile scendere, e così avviene. Poiché, come mi ero reso conto analizzando le sue associazioni, l’intera rappresentazione alla quale egli aveva assistito faceva parte della sua analisi – un processo di cambiamento interiore che il paziente stava attualmente sperimentando – egli pensava presumibilmente alla difficoltà di tornare ad affrontare la realtà di tutti i giorni. La sua paura dei “malviventi”, come egli li chiama, suggerisce il suo timore che l’Imbroglione archetipico possa apparire in una forma collettiva.
Gli elementi di salvezza indicati dal sogno sono la scala, che qui probabilmente simboleggia la mente razionale, e la presenza della donna, che incoraggia il sognante a farne uso. La sua apparizione nella sequenza finale del sogno rivela la necessità psichica di includere un principio femminile come complemento di tutta questa attività eccessivamente maschile.
Da quanto sono venuto dicendo non si deduca che, per il fatto di aver scelto il mito degli Indiani Winnebago per illustrare questo sogno particolare, ci si debba attendere un parallelismo integrale e meccanico fra ogni singolo sogno e i vari materiali che sono reperibili nella storia della mitologia. Ciascun sogno si riferisce individualmente al sognante, e la forma specifica da esso assunta è determinata dalla particolare situazione nella quale il soggetto si trova. Ciò che ho cercato di mostrare sono le guise in cui l’inconscio attinge questo materiale archetipico e viene modificando le sue strutture secondo le necessità del sognante. Perciò, nel caso di questo sogno in particolare, non si deve cercare un riferimento diretto a ciò che gli Indiani Winnebago descrivono nel ciclo di Corno Rosso o dei Gemelli; il riferimento va cercato piuttosto con l’essenza di questi due temi – con l’elemento sacrificale, cioè, in essi implicito.
Come regola generale si può dire che il bisogno di ricorrere a simboli eroici nasce quando l’ego sente la necessità di rafforzarsi – quando, in altre parole, la mente conscia ha bisogno di assistenza nell’assolvimento di qualche compito che essa non è in condizioni di eseguire senza aiuto o senza attingere a quelle sorgenti di forza che risiedono nella mente inconscia. Nel sogno che sono venuto discutendo, per esempio, non figurava alcun riferimento a uno dei più importanti aspetti del mito dell’eroe tipico – alla sua capacità, cioè, di salvare o di proteggere belle donne da terribili pericoli. (Quello della fanciulla in pericolo era un mito ricorrente nell’Europa medievale.) Questo è uno dei tanti modi in cui i miti o i sogni si riferiscono all’anima – cioè all’elemento femminile della psiche maschile che Goethe definì l’“eterno femminino”.
La natura e la funzione di questo elemento femminile verranno discusse in seguito dalla dottoressa von Franz. Tuttavia il suo rapporto con la figura dell’eroe può essere illustrato fin da ora per mezzo di un sogno prodotto da un altro paziente, anch’egli di età matura. Egli cominciò il suo lungo racconto dicendo:
Ero appena tornato da un lungo viaggio in India. Una donna aveva provveduto a equipaggiare me e un mio amico per il viaggio e al ritorno la rimproverai per non averci fornito dei cappelli da pioggia neri, dicendole che per questa sua dimenticanza ci eravamo inzuppati di pioggia.
In seguito emerse che questa introduzione al sogno si riferiva a un periodo della giovinezza del paziente nel quale egli si era dato a compiere gite “eroiche” in pericolose zone di montagna in compagnia di un compagno di studi. (Poiché egli non era mai stato in India, sulla base delle sue personali associazioni a questo sogno conclusi che il viaggio indicato dal sogno significava l’esplorazione di una regione sconosciuta – cioè, non un paese reale ma il mondo dell’inconscio.)
Dal sogno si ricava che il paziente pensa che una donna – presumibilmente una personificazione della propria anima – non abbia provveduto a prepararlo adeguatamente per questa spedizione. La mancanza di un copricapo adatto fa pensare che egli si senta mentalmente indifeso, in una disagiata situazione prodotta dal confronto diretto con esperienze nuove e per nulla piacevoli. Egli è del parere che la donna avrebbe dovuto procurargli un copricapo, allo stesso modo che sua madre gli forniva, da bambino, gli abiti con cui vestirsi. Questo episodio ricorda i suoi vagabondaggi picareschi, allorché si sentiva sostenuto dall’idea che la madre (l’immagine femminile originaria) lo avrebbe protetto contro tutti i pericoli. Crescendo, si era reso conto che si trattava di una semplice illusione infantile, e ora egli rimprovera la propria sfortuna alla sua anima, non a sua madre.
Nella seconda parte del sogno il paziente dice di aver partecipato a una gita con un gruppo di altre persone. A un certo punto si sente stanco e allora ritorna a un ristorante all’aperto, dove si trova l’impermeabile insieme al copricapo che precedentemente non era riuscito ad avere. Si siede per riposare e, nel far così, nota un manifesto su cui è scritto che un alunno della locale scuola media recita la parte di Perseo in un’opera teatrale. Quindi appare il ragazzo in questione – che si rivela però non come tale, bensì come un giovane robusto. Indossa un abito grigio con un cappello nero e si siede a parlare con un altro giovane vestito di nero. Immediatamente dopo avere assistito a questa scena, il sognante avverte un nuovo vigore in tutta la persona e si rende conto di essere in grado di ricongiungersi al resto della comitiva. Tutti insieme allora salgono su una collina vicina; di lassù il paziente scorge la destinazione del gruppo: una bella città portuale. Egli si sente rincuorato e ringiovanito da questa scoperta.
Qui, al contrario del primo episodio in cui è rappresentato un viaggio logorante, scomodo e solitario, il sognante si trova in un gruppo di persone. Il contrasto segna il cambiamento da una struttura primitiva di isolamento e di protesta giovanile all’influenza socializzatrice di un rapporto con altre persone. Poiché ciò implica corrispondentemente una capacità nuova di contrarre rapporti sociali, si deduce che l’anima del paziente deve funzionare meglio che nel passato – elemento, questo, simboleggiato dal ritrovamento del cappello mancante che la figura rappresentativa dell’anima non aveva provveduto a fornirgli in precedenza.
Tuttavia il sognante è stanco e la scena al ristorante riflette il bisogno che egli avverte di considerare i suoi atteggiamenti precedenti in una luce nuova, con la speranza di rinnovare, per mezzo di tale regressione, la propria energia. E così avviene. La prima cosa che egli vede è un manifesto che annuncia l’interpretazione del ruolo di un eroe giovanile in un’opera teatrale: quella di un alunno di scuola media che recita nei panni di Perseo. Successivamente egli vede il ragazzo, ora trasformato in uomo, in compagnia di un amico che, all’aspetto, contrasta nettamente con lui. Il primo è vestito di grigio chiaro, il secondo di nero: entrambi possono essere considerati, per quanto sono venuto dicendo precedentemente, come una versione dei Gemelli. Essi sono figure eroiche rappresentative del contrasto fra ego e alter-ego, qui descritti, tuttavia, come solidali in una relazione reciproca armonica e unitaria.
Le associazioni elaborate dal paziente portarono alla conferma di questo punto rilevando, in particolare, come la figura in grigio rappresenti un atteggiamento esistenziale mondano e bene adattato, mentre la figura in nero rappresenta la vita spirituale, con riferimento al fatto che i preti vestono di nero. Il fatto, poi, che portassero il cappello (e anche il sognante, a questo punto, era riuscito a trovare il proprio) indica che essi avevano ormai raggiunto una identità relativamente matura – identità di cui il sognante aveva sentito profondamente la mancanza nei primi anni dell’adolescenza, allorché le qualità tipiche dell’Imbroglione erano ancora radicate alla sua natura, nonostante che egli tendesse a considerarsi idealisticamente come un cercatore di saggezza.
La sua associazione all’eroe greco Perseo era singolare e si rivelò particolarmente significativa poiché denunciava una evidente inesattezza. Risultò infatti che il paziente pensava a Perseo come all’uccisione del Minotauro e al salvatore di Arianna dal labirinto di Creta. Mentre scriveva il nome scoprì il suo errore – che, cioè, era stato Teseo, non Perseo, a uccidere il Minotauro – e tale errore divenne subito significativo perché, come avviene sovente con questo tipo di sviste, fece risaltare al paziente ciò che i due eroi avevano in comune. Essi avevano dovuto entrambi vincere la loro paura di inconsce forze demoniache materne e liberare da esse una giovane donna.
Perseo dovette tagliare la testa della Medusa, il mostro dall’aspetto terrificante, con serpenti al posto dei capelli, che trasformava in pietra chiunque rivolgesse loro lo sguardo, e successivamente uccise il drago che teneva prigioniera Andromeda. Teseo rappresentava il giovane spirito patriarcale di Atene che dovette affrontare i terribili pericoli del labirinto cretese con il suo ospite mostruoso, il Minotauro, probabilmente il simbolo della profonda decadenza in cui era piombata la civiltà matriarcale di Creta.7 (In tutte le civiltà il labirinto sta a rappresentare in una guisa contorta e confusa il mondo della coscienza matriarcale; esso può essere penetrato solo da coloro che siano preparati a ricevere una speciale iniziazione al mondo misterioso dell’inconscio collettivo.) 8 Dopo aver superata questa prova rischiosa, Teseo portò in salvo Arianna, una fanciulla in pericolo.
Questo salvataggio simboleggia la liberazione della figura dell’anima dall’aspetto divorante dell’immagine materna. Finché essa non si è realizzata l’uomo è incapace di entrare positivamente in rapporto con le altre donne. Il fatto che il paziente non fosse riuscito a separare adeguatamente l’anima dalla madre viene messo in evidenza da un altro sogno in cui egli si trovò di fronte a un drago, cioè all’immagine simbolica dell’aspetto “divorante” del suo attaccamento alla madre. Il drago si era messo a inseguirlo e poiché non aveva alcuna arma per difendersi il sognante cominciava ad avere la peggio.
Significativamente, tuttavia, a questo punto del sogno apparve la moglie e la sua semplice presenza fece diventare il drago più piccolo e meno minaccioso. Ciò significa che, attraverso il matrimonio, il sognante aveva cominciato a vincere, sia pure tardivamente, il proprio attaccamento verso la madre. In altre parole, egli doveva trovare il modo di liberare l’energia psichica associata al rapporto madre-figlio allo scopo di entrare in un più maturo rapporto con le altre donne e con la società adulta nel suo complesso. La battaglia fra l’eroe e il drago costituiva l’espressione simbolica di questo processo di “crescita”.
Però l’impresa dell’eroe ha uno scopo che va al di là del riferimento con l’aggiustamento biologico e maritale puro e semplice: si tratta, cioè, di liberare l’anima, intesa come quella componente interiore della psiche che è necessaria per ogni vera operazione creativa. Nel caso di questo paziente, noi dobbiamo però limitarci a congetturare semplicemente tale evenienza, poiché essa non è direttamente precisata nel sogno del viaggio in India. Tuttavia sono certo che il paziente confermerebbe la mia ipotesi secondo la quale la gita sulla collina e la vista di una tranquilla città portuale come destinazione contenevano la ricca promessa della scoperta dell’autentica funzione della sua anima. Ciò porta alla scomparsa del suo risentimento per non avere ricevuto dalla donna adeguata protezione (il cappello) per il viaggio in India. (Nei sogni le immagini di città situate in regioni significative possono essere spesso simboli dell’anima.)
L’uomo trova così quel senso di sicurezza promesso dal sogno per mezzo del contatto con l’autentica figura archetipica dell’eroe, e assume un nuovo atteggiamento, cooperativo e socievole, verso il gruppo. Da ciò deriva naturalmente la sua sensazione di ringiovanimento. Il sognante ha attinto alla profonda sorgente di forza rappresentata dall’archetipo dell’eroe; è venuto chiarificando e sviluppando quella parte di sé che è simboleggiata dalla donna; infine, grazie all’atto eroico del proprio ego, egli si è affrancato dalla madre.
Questo e molti altri esempi della presenza del mito eroico nei sogni moderni mostrano che l’ego, in quanto eroe, è sempre essenzialmente un produttore di civiltà piuttosto che un semplice esibizionista egocentrico. Perfino l’Imbroglione, col procedere confuso e casuale che gli è caratteristico, collabora all’organizzazione del cosmo, così come lo concepisce l’uomo primitivo. Nella mitologia degli Indiani Navaho dove è raffigurato come coyote, esso compie un atto di creazione, quello di scagliare le stelle nel cielo, inventa la necessaria contingenza della morte e nel mito dell’apparizione aiuta gli uomini a fuggire per mezzo di una canna forata da un mondo a un altro più elevato, dove sono finalmente liberi dalla minaccia dell’inondazione.9
Abbiamo qui un riferimento a quella forma di evoluzione creatrice che evidentemente si avvia a un livello infantile, preconscio o animale di esistenza. Il passaggio dell’ego a effettive azioni coscienti si presenta chiaramente nel caso dell’eroe fondatore di civiltà. Nello stesso modo l’ego infantile o adolescente si libera progressivamente dall’oppressione delle speranze parentali e diventa individuale. In questo processo di ascesa verso la coscienza la battaglia fra eroe e drago può anche dover essere combattuta più volte allo scopo di liberare l’energia necessaria per tutta quella moltitudine di imprese umane che, sole, possono organizzare dal caos la struttura di una civiltà.10
Quando la battaglia riesce definitivamente vittoriosa, vediamo emergere a tutto rilievo l’immagine dell’eroe intesa come quel particolare grado di forza dell’ego (o, se parliamo in termini collettivi, di identità tribale) che non ha più avversari né fra mostri né fra giganti. Si è giunti, cioè, al punto in cui tutte queste forze oscure possono essere personalizzate. L’“elemento femminile” non appare più nei sogni sotto le spoglie di un drago ma in quelle di una donna; analogamente, il lato “ombra” della personalità cessa di presentarsi in una forma troppo minacciosa.
Ciò è bene illustrato nel sogno di un uomo di circa cinquant’anni. Per tutta la vita egli aveva sofferto di periodici attacchi di ansietà associati alla paura di fallire in tutte le sue attività. (Questa paura gli era stata originariamente insinuata dalla madre, una donna piena di insicurezza.) Eppure la sua posizione attuale, sia in campo professionale sia sul piano delle relazioni personali, era nettamente superiore alla media. In sogno gli era apparso il figlio di nove mesi: aveva l’aspetto di un giovane di diciotto o diciannove anni e indossava la lucente armatura di un cavaliere medievale. Il giovane dovrebbe lottare contro una fitta schiera di uomini vestiti di nero e in un primo tempo sembra prepararsi allo scontro. Ma, improvvisamente, si toglie l’elmo e sorride al condottiero della schiera nemica: è chiaro che non verranno a battaglia fra di loro e che anzi diventeranno amici.
In questo sogno il bambino rappresenta l’ego giovanile del paziente, che si era sentito frequentemente minacciato dall’ombra sotto forma di dubbi sulle proprie capacità. In un certo senso, si può dire che quest’uomo avesse intrapreso una vittoriosa crociata contro tale nemico negli anni della sua maturità. A questo punto, in parte attraverso il positivo incoraggiamento che gli deriva dal vedere il proprio figliolo crescere senza tali insicurezze, in parte, soprattutto, formandosi un’immagine adeguata dell’eroe secondo i requisiti della struttura ambientale in cui vive attualmente, il paziente non vede più la necessità di combattere l’ombra e l’accetta semplicemente. Ciò è quanto viene simboleggiato nel gesto di amicizia. Quest’uomo non si sente più spinto a una lotta competitiva per l’affermazione della supremazia individuale, ma anzi si adegua al compito civile di creare una comunità di tipo democratico. Una conclusione di questo tipo, raggiunta nella pienezza della vita, supera il significato puro e semplice dell’impresa eroica e porta l’individuo ad assumere un atteggiamento positivamente maturo.
Questo cambiamento, tuttavia, non avviene automaticamente: esso richiede un periodo di transizione che si esprime nelle varie forme dell’archetipo d’iniziazione.
L’archetipo d’iniziazione
Dal punto di vista psicologico l’immagine dell’eroe non deve essere considerata identica all’ego vero e proprio. Essa può essere più appropriatamente descritta come il mezzo simbolico tramite il quale l’ego si viene separando dagli archetipi evocati dalle immagini parentali nella prima infanzia. Il dottor Jung ha affermato che ogni essere umano possiede originariamente un sentimento di integralità, un senso pieno e potente del Sé; e dal Sé – la totalità della psiche – vien emergendo la coscienza individualizzata dell’ego via via che l’individuo cresce.
Negli ultimi anni alcuni seguaci di Jung hanno cominciato a documentare, nelle loro opere, tutta la serie di eventi attraverso i quali l’ego individuale viene emergendo nel periodo di transizione che va dalla prima infanzia fino alle soglie dell’adolescenza. Questa separazione porta sempre con sé una grave frattura del sentimento originario di integralità. Perciò l’ego deve continuamente tornare a ristabilire il proprio rapporto con il Sé per garantire il livello di salute psichica.
Da quando sono venuto dicendo finora dovrebbe risultare chiaro che il mito dell’eroe costituisce il primo stadio nel processo di differenziazione della psiche. Ho indicato come tale processo sembri svolgersi lungo un quadruplice ciclo attraverso il quale l’ego cerca di raggiungere una relativa autonomia rispetto all’originaria condizione d’integralità. Se questa autonomia, in un grado o nell’altro, non viene conseguita, l’individuo è incapace di adeguarsi al proprio ambiente adulto. Tuttavia il mito dell’eroe non garantisce in modo assoluto questa liberazione: esso si limita solo a mostrare che è possibile e che grazie a essa l’ego può raggiungere la coscienza. Resta, a questo punto, il problema di conservare e di sviluppare la coscienza in guise significative, in modo che l’individuo possa vivere una vita utile e raggiungere nella società quel senso di autodistinzione che è indispensabile.
La storia dell’antichità e i rituali delle società primitive contemporanee ci hanno fornito una grande quantità di materiale sui miti e sui riti d’iniziazione, per mezzo dei quali i giovani di entrambi i sessi vengono sottratti alla tutela dei genitori e resi definitivamente membri del loro clan o della loro tribù. Ma provocando questa rottura col mondo dell’infanzia, l’archetipo parentale originario subisce un danno che deve essere compensato attraverso un salutare processo di assimilazione alla vita di gruppo. (L’identità del gruppo e dell’individuo viene spesso simboleggiata da un totem animale.) In tal modo il gruppo ripara il danno subito dall’archetipo e diventa una specie di secondo genitore cui i giovani vengono dapprima sacrificati simbolicamente per poi rinascere a una nuova vita.
In questa “drastica cerimonia, che assomiglia molto a un sacrificio propiziatorio verso quelle forze che potrebbero riportare il giovane al suo stato originario”, come ha detto il dottor Jung, possiamo renderci conto di come la potenza dell’archetipo originario non possa mai essere debellata definitivamente, nel modo raffigurato nella battaglia fra l’eroe e il drago, senza che si avverta un mutilante senso di alienazione dalle benefiche forze dell’inconscio. Nel mito dei Gemelli abbiamo visto come la loro hybris, indicativa di una eccessiva separazione fra ego e Sé, abbia infine trovato un correttivo nella paura delle conseguenze, che reintroduce i Gemelli in una armonica relazione ego-Sé.
Nelle società tribali il rito d’iniziazione serve a risolvere in modo molto efficace questo problema. Il rituale riconduce il novizio al più basso livello di identità originaria madre- bambino o ego-Sé, costringendolo così a sperimentare una morte simbolica. In altre parole, la sua identità viene temporaneamente smembrata o dissolta nell’inconscio collettivo. Da questo stato egli viene in seguito riscattato attraverso il rito della nuova nascita. Questo è il primo atto di un consolidamento sociale genuino dell’ego nell’ambito più vasto del gruppo, espresso da un totem, un clan, una tribù o le tre cose insieme.
Il rituale, nei gruppi tribali come nelle società a struttura più complessa, insiste invariabilmente su questo rito della morte e della rinascita, che permette al novizio il “passaggio” da una fase all’altra della vita, sia che si tratti di quello dalla prima all’ultima fase dell’infanzia, di quello corrispondente dell’adolescenza oppure di quello che segna il trapasso dall’adolescenza alla maturità.”
I processi d’iniziazione non riguardano, naturalmente, solo la psicologia giovanile. Ogni singola fase nuova di sviluppo della vita di un individuo è associata alla ripetizione del conflitto originario fra le esigenze del Sé e quelle dell’ego. Di fatto, questo conflitto si esprime in termini più acuti nel periodo di transizione fra la prima maturità e l’età media (fra i 35 e i 40 anni nella nostra società), che non nelle altre fasi della vita. Anche la transizione dall’età media alla vecchiaia ripropone la necessità di affermare la differenza fra l’ego e la totalità della psiche: in questa occasione l’eroe riceve l’ultimo appello all’azione in difesa della coscienza dell’ego contro l’imminente dissoluzione della vita nella morte.
In tutti questi periodi critici l’archetipo di iniziazione viene fortemente attivato per garantire una transizione significativa, capace di offrire qualcosa di spiritualmente più soddisfacente dei riti dell’adolescenza con la loro impronta secolare. Le strutture archetipiche di iniziazione con questo significato religioso – esse sono note fin dall’antichità come “i misteri” – presentano caratteristiche affini a quelle di tutti i rituali ecclesiastici richiedenti un tipo speciale di culto per la nascita, il matrimonio, la morte.
Come nel nostro studio del mito dell’eroe, così in quello dell’ iniziazione dobbiamo andare in cerca di esempi nel campo delle esperienze soggettive degli uomini moderni e in particolare di coloro che si sono sottoposti all’analisi. Non è cosa che debba sorprendere, il rinvenire nell’inconscio di qualcuno che si sia rivolto per aiuto a un medico specializzato in disordini psichici, immagini perfettamente simili ai principali modelli d’iniziazione che ci sono noti attraverso la storia.
Forse il tema più comune fra questi, che è dato rinvenire nei giovani, è quello della prova di forza. Esso sembrerebbe identico a quelli da noi già messi in evidenza nel presentare alcuni esempi di sogni moderni che illustrano il mito dell’eroe: quali, ad esempio, il caso del marinaio che si sottopone alla sferza del vento e alle percosse, o quello dell’uomo che intraprende senza cappello un lungo viaggio in India per dare una prova di capacità. Potremmo scorgere un esempio di questo tema della sofferenza fìsica, portato alle sue estreme conseguenze logiche, nel primo sogno da me discusso, quello, cioè, in cui il giovane di bell’aspetto diventa figura umana sacrificale sull’altare. Questo sacrificio fa venire alla mente la prima fase di un rito d’iniziazione ma la sua conclusione non è chiara. Per un momento sembrava che derogasse dallo schema del ciclo eroico e che introducesse un tema nuovo.
Eppure c’è una profonda differenza fra il mito dell’eroe e il rito d’iniziazione. Le figure tipiche di eroi esauriscono i loro sforzi nell’ottenere soddisfazione alle loro ambizioni: in breve, essi riescono vittoriosi anche se subito dopo vengono puniti o uccisi per la loro hybris. Al contrario, il novizio che affronta l’iniziazione deve rinunciare a ogni desiderio e ambizione e sottomettersi alla prova. Egli deve essere disposto ad affrontarla senza alcuna speranza di successo. Di fatto, egli deve essere pronto a morire; e benché quanto gli viene richiesto per superare la prova possa essere non eccessivamente gravoso (un periodo di digiuno, l’estirpazione di un dente o un tatuaggio) oppure particolarmente doloroso (circoncisione, subincisione o altre mutilazioni), lo scopo rimane sempre lo stesso: quello di creare simbolicamente lo stato d’animo della morte dal quale possa scaturire lo stato d’animo opposto, cioè della rinascita.
Un giovane di venticinque anni sognò di scalare una montagna sulla cui cima c’era una specie di altare. Vicino all’altare egli scorge un sarcofago e su di esso, distesa, la propria statua. Quindi si avvicina un sacerdote velato, recante un bastone in cima al quale brilla, dardeggiante, il disco del sole. (In seguito, discutendo il sogno, il giovane disse che la scalata di una montagna gli ricordava lo stesso sforzo da lui sostenuto durante l’analisi per raggiungere una piena padronanza di sé.) Con sua grande sorpresa egli si ritrova morto e invece di un senso di appagamento egli prova vuoto e paura. Appena viene investito dai caldi raggi del disco solare, egli avverte un senso di forza e di ringiovanimento.
Questo sogno mostra molto succintamente la distinzione che è necessario fare tra rito di iniziazione e mito eroico. L’atto di scalare la montagna sembra suggerire una prova di forza: si tratta della volontà di raggiungere la coscienza dell’ego nella fase eroica dello sviluppo dell’adolescenza. Evidentemente il paziente aveva pensato che sottoporsi alla terapia equivalesse ad affrontare altre prove tipicamente virili che egli aveva sostenuto nella stessa maniera competitiva caratteristica dei giovani della nostra società. Ma la scena dell’altare era intervenuta a correggere questa falsa opinione, mostrando al sognante che il suo compito era piuttosto quello di sottomettersi a una potenza più grande di lui. Egli deve considerarsi come morto e sepolto in una forma simbolica (il sarcofago), che richiama alla mente la madre archetipica contenitrice di tutta la vita. Solo attraverso questo atto di sottomissione egli potrà vivere l’esperienza della rinascita. Un rituale di rinvigorimento lo riporta alla vita nello stesso modo del figlio simbolico del Padre Sole.
Anche qui potremmo confondere questa simbologia con quella di un ciclo eroico – quello dei Gemelli, detti i “figli del Sole”. Ma in questo caso non abbiamo alcuna indicazione che ci permetta di pensare che l’iniziato finirà per superare se stesso. Al contrario egli apprende una lezione di umiltà sperimentando un rito di morte e di rinascita che segna il passaggio dalla sua giovinezza alla maturità.
Secondo la sua effettiva età cronologica egli avrebbe già dovuto compiere questo passaggio, ma nella sua vita precedente c’è un lungo periodo di arresto dello sviluppo. Questo ritardo lo aveva fatto piombare in una nevrosi per guarire della quale era ricorso al trattamento, e il sogno gli aveva fornito lo stesso saggio consiglio che avrebbe potuto essergli dato da qualunque abile stregone di tribù – quello, cioè, di rinunciare a scalare montagne per dare prova della sua forza e di sottomettersi al rituale significativo di un cambiamento iniziatorio che lo avrebbe posto in condizione di affrontare le nuove responsabilità morali della virilità.
Il tema della sottomissione intesa come atteggiamento essenziale per promuovere un utile rito d’iniziazione è evidentissimo nel caso di ragazze o di donne.12 In esse il rito del passaggio tende inizialmente a porre in risalto la loro fondamentale passività, e ciò viene rafforzato dalla limitazione fisiologica della loro autonomia imposta dal ciclo mestruale.
È stato detto che il ciclo mestruale può rappresentare, dal punto di vista femminile, l’elemento essenziale del processo d’iniziazione, poiché esso ha la capacità di svegliare il più profondo senso di obbedienza verso la potenza creatrice della vita che domina la donna. Di conseguenza essa si dedica volontariamente alle proprie funzioni femminili, così come l’uomo si dedica all’assolvimento del ruolo che gli spetta nella vita comunitaria del gruppo a cui appartiene.
D’altra parte, la donna presenta, non meno dell’uomo, la tendenza a compiere quelle prime prove di forza che la condurranno al sacrificio finale per la volontà di sperimentare una nuova nascita. Tale sacrificio consente alla donna di liberarsi dall’impaccio delle relazioni personali e la mette in condizione di svolgere un ruolo più consapevole come individuo di pieno diritto. Al contrario, il sacrificio dell’uomo è una resa del suo sacro spirito d’indipendenza: in seguito a esso egli si lega in maniera più consapevole alla donna.
A questo punto bisogna prendere in considerazione quell’aspetto dell’iniziazione che pone in rapporto l’uomo con la donna e viceversa in termini tali da correggere ogni specie di originaria opposizione maschio-femmina. La conoscenza maschile (Logos) incontra la capacità di rapporto femminile (Eros) e la loro unione è rappresentata nel rituale simbolico di un matrimonio sacro, che è stato al centro dei riti d’iniziazione fin dalle sue origini nelle religioni misteriche dell’antichità. Tuttavia si tratta di un punto che l’uomo moderno comprende con difficoltà e spesso comporta una crisi particolare nella sua vita quando egli viene indotto a coglierne il senso.
Diversi pazienti sono venuti a raccontarmi sogni nei quali il motivo del sacrificio è combinato con quello del matrimonio sacro. Uno di questi apparteneva a un giovane che si era innamorato, ma che esitava a sposarsi per timore che il matrimonio si trasformasse per lui in una specie di prigione governata da una dispotica figura materna. La madre aveva esercitato una profonda influenza sulla sua infanzia, e la futura suocera presentava una personalità altrettanto minacciosa. Non poteva darsi che la futura moglie riuscisse a dominarlo nello stesso modo che queste madri erano riuscite a dominare i propri figli?
Nel sogno egli si vedeva impegnato in una danza rituale alla quale partecipavano un uomo e altre due donne, una delle quali era la sua fidanzata. Gli altri due erano una coppia di coniugi più anziani, che impressionarono il sognante poiché, nonostante il loro stretto rapporto reciproco, sembravano poter manifestare le loro rispettive differenze individuali e non apparivano possessivi. Essi, perciò, rappresentavano per il sognante una situazione coniugale che non imponeva alcuna indebita restrizione allo sviluppo della natura individuale dei due sposi. Solo a patto di ritrovarsi in una condizione come questa, egli avrebbe preso in considerazione il matrimonio come una soluzione adatta per lui.
Nella danza rituale ciascuno degli uomini stava di fronte alla rispettiva donna, e tutti e quattro occupavano singolarmente un angolo di un recinto da ballo quadrato. Mentre danzavano risultò evidente che si trattava di una specie di danza delle spade. Ognuno di loro aveva in mano una piccola spada con la quale doveva compiere difficili arabeschi, muovendo le braccia e le gambe in una serie di movimenti che suggerivano impulsi alterni di aggressione e di sottomissione reciproca. Nella scena finale tutti e quattro i danzatori dovevano trafiggersi il petto con la spada e morire. Solo il sognante rifiutò di compiere il suicidio finale e rimase l’unico in piedi mentre tutti gli altri erano ormai stesi al suolo. A questo punto egli provò una profonda vergogna per non essersi sentito disposto a sacrificarsi con gli altri.
Il sogno fece capire al mio paziente che egli era tutt’altro che disposto a cambiare il proprio atteggiamento di vita. Era sempre stato un egocentrico, tutto proteso a cercare la salvezza illusoria dell’indipendenza personale, mentre intimamente continuava a essere dominato dai timori provocati dalla sua soggezione infantile alla madre. Egli sentiva il bisogno di una sfida alla propria virilità che gli dimostrasse come, non sacrificando la propria mentalità infantile, sarebbe rimasto in un vergognoso isolamento. Il sogno e la successiva analisi del suo significato dispersero ogni suo dubbio. Egli era passato attraverso il rito simbolico per mezzo del quale ogni giovane rinuncia alla propria esclusiva autonomia e accetta di dividere la propria vita in una forma associata, non così eroica come nel passato.
Così egli si sposò e trovò un adeguato aggiustamento nei suoi rapporti con la moglie. Lungi dal pregiudicare la sua efficienza sociale, il matrimonio gliela potenziò.
A prescindere dalle paure nevrotiche che madri e padri invisibili si celino dietro il velo nuziale, anche il giovane normale ha buone ragioni per sentirsi timoroso nei riguardi del rituale matrimoniale. Si tratta in sostanza di nient’altro che di un rito d’iniziazione della donna, in cui l’uomo può sentirsi di tutto meno che un eroe conquistatore. Perciò non ci meraviglia il fatto di trovare, presso le società tribali, rituali come quello dell’abduzione o del ratto della sposa, che tendono a controbilanciare queste fobie. Essi permettono all’uomo di attingere al fondo quanto resta del suo ruolo eroico proprio nel momento in cui deve sottomettersi alla moglie e assumersi le responsabilità del matrimonio.
Tuttavia il tema del matrimonio è un’immagine di tale universalità che è possibile cogliervi anche un significato più profondo. Esso rappresenta simbolicamente la scoperta positiva, e persino necessaria, della componente femminile nella psiche maschile, negli stessi termini reali in cui rappresenta l’acquisto di una moglie in carne e ossa. Di conseguenza è possibile rinvenire questo archetipo in uomini di tutte le età in risposta a uno stimolo appropriato.
Tuttavia, non tutte le donne reagiscono con fiducia allo stato coniugale. Una paziente con aspirazioni inappagate di carriera, cui aveva dovuto rinunciare per un matrimonio difficile e di breve durata, sognò di trovarsi in ginocchio di fronte a un uomo anch’egli in ginocchio. Questi aveva in mano un anello e si preparava a infilarglielo al dito, ma essa aveva proteso con energia l’anulare della mano destra, dimostrando palesemente di opporsi a questo rituale di unione maritale.
Fu facile rilevare il suo significativo errore. Invece di offrire l’anulare della mano sinistra (con il quale avrebbe accettato una relazione equilibrata e naturale con il principio maschile) essa aveva erroneamente pensato di dover porre la propria identità conscia (cioè quella rappresentata dal lato destro) interamente al servizio dell’uomo. In realtà, il matrimonio richiedeva solo che essa partecipasse con lui la parte subliminale, naturale di sé (cioè quella rappresentata dal lato sinistro), e in ciò il principio del matrimonio avrebbe avuto un significato simbolico, non letterale o assoluto. La sua paura era quella di una donna che tema di perdere la propria identità in un tipo di matrimonio a forte impronta patriarcale, contro il quale la paziente aveva buone ragioni di resistere.
Ciò nonostante, il matrimonio sacro nella sua accezione archetipica possiede un significato di particolare importanza per la psicologia femminile, un significato per il quale le ragazze vengono preparate durante l’adolescenza attraverso molti eventi preliminari di carattere iniziatorio.
La Bella e la Bestia
Le ragazze della nostra società rientrano nel fenomeno della mitizzazione eroica, tradizionalmente pertinente solo ai maschi, poiché anch’esse, alla pari dei ragazzi, devono sviluppare una soddisfacente identità dell’ego e acquistare una educazione. Però nei loro sentimenti affiora un antico strato mentale che tende pur sempre a svilupparle in donne, non a trasformarle a imitazione degli uomini. Quando questo antico contenuto della psiche comincia ad apparire, la giovane moderna può giungere a rimuoverlo, in quanto minaccia di tagliarla fuori dalla emancipata parità dell’amicizia e dalla opportunità di competere con gli uomini, che sono diventate entrambe suoi attuali privilegi.
La rimozione può riuscire e per un po’ di tempo essa conserverà una identificazione con le aspirazioni intellettuali maschili che ha appreso a scuola o all’università. Anche se si sposa conserverà qualche illusione di libertà, malgrado il suo evidente atto di sottomissione all’archetipo di matrimonio – con l’implicita ingiunzione, in esso contenuta, di diventare madre. Può anche avvenire, come si riscontra frequentemente oggigiorno, che alla fine si ridesti quel conflitto che costringe la donna a riscoprire la propria sepolta femminilità in modo penoso (anche se, in ultima analisi, compensatorio).
Ho trovato un esempio di ciò in una giovane sposata che non aveva ancora avuto bambini ma che intendeva averne almeno uno o due, perché così ci si aspettava da lei. Nel frattempo la sua risposta sessuale non era soddisfacente. Ciò angustiava sia lei che suo marito, benché nessuno di loro fosse in grado di darne una spiegazione. Si era diplomata brillantemente presso un buon college femminile e aveva vissuto una vita di amicizie intellettuali insieme a suo marito e ad altri uomini. Benché questo lato della sua esistenza si mantenesse sempre soddisfacente, essa andava soggetta a esplosioni di collera occasionali e il suo modo aggressivo di parlare in queste circostanze le alienava gli amici e le faceva provare un sentimento intollerabile di insoddisfazione verso se stessa.
In questo periodo aveva avuto un sogno che le era sembrato così importante da richiedere il parere di un medico professionista che ne aiutasse la comprensione. Essa aveva sognato di trovarsi in una fila insieme con altri giovani donne simili a lei, e quando si era sporta a guardare dove stavano dirigendosi aveva veduto che ciascuna di loro, appena arrivata in cima alla fila, veniva decapitata da una ghigliottina. Senza provare alcun sentimento di paura, la sognante era rimasta al suo posto, presumibilmente perché disposta senz’altro a sottoporsi allo stesso trattamento quando fosse arrivato il proprio turno.
Le spiegai che ciò significava che essa era matura per rinunciare all’abitudine di “vivere solo con la testa”; essa doveva imparare a far scoprire al proprio corpo le sue naturali risposte sessuali e l’assolvimento del suo ruolo biologico attraverso la maternità. Il sogno aveva espresso tutto ciò come bisogno di operare un cambiamento drastico: essa doveva sacrificare il proprio ruolo eroico “maschile”.
Come è facile pensare, questa donna colta non ebbe alcuna difficoltà ad accettare tale interpretazione al livello intellettuale e intraprese effettivamente il tentativo di trasformarsi in un tipo di donna più sottomesso. Pertanto incrementò la propria vita amorosa e divenne madre di due bambini. Quanto più imparava a conoscere se stessa tanto meglio comprendeva che mentre per l’uomo (o per la mente delle donne educata con impronta maschile) la vita è qualcosa che va presa d’assalto, in un atto di volontà eroica, per la donna, a pensarci bene, la vita deve costituire un processo di risveglio.
Un mito universale che esprime proprio questo tipo di risveglio è rappresentato dalla novella della Bella e la Bestia.13 Secondo la versione più nota di questo racconto, la Bella, la minore di quattro figlie, diventa la prediletta del padre a motivo della sua bontà disinteressata. Allorché essa chiede al padre solo una rosa bianca, al posto dei più ricchi regali richiesti dalle altre sorelle, in lei c’è solo la consapevolezza della propria assoluta sincerità di sentimento. Essa non sa che corre il rischio di mettere a repentaglio la vita del padre e la sua relazione ideale con lui. Egli, infatti, ruba la rosa bianca dal giardino incantato della Bestia e questi, adirato per il furto, gli impone di tornare entro tre mesi per ricevere la punizione, presumibilmente mortale. (Nel fare al padre questa concessione di tornare a casa per consegnare il dono, la Bestia si comporta in contraddizione col proprio genuino carattere, soprattutto quando arriva a offrirsi d’inviargli uno scrigno pieno d’oro non appena fosse giunto a casa. Come commenta il padre della Bella, la Bestia si rivela contemporaneamente crudele e gentile.)
La Bella insiste per scontare personalmente la punizione inflitta al padre e dopo tre mesi si reca al castello incantato. Qui le viene assegnata una bella stanza dove vive indisturbata e senza alcunché da temere tranne le visite occasionali della Bestia che si reca da lei ripetutamente per chiederle se un giorno sarà disposta a sposarlo. Essa rifiuta sempre. Dopo qualche tempo, avendo veduta in uno specchio magico l’immagine del padre ammalato, essa supplica la Bestia di lasciarla andare a confortarlo, promettendogli di tornare entro una settimana. La Bestia risponde che morirà se lei lo abbandona, ma le concede il permesso di una settimana.
Giunta a casa, la sua radiosa presenza rasserena il padre e suscita l’invidia delle sorelle, che tramano di trattenerla più a lungo del tempo consentitole. Alla fine essa sogna che la Bestia muore dalla disperazione e, accortasi di avere indugiato troppo a lungo, torna dalla Bestia per salvarne la vita.
Dimenticandosi della sua bruttezza, la Bella lo accudisce. Egli le dice che era incapace di vivere senza di lei e che ora morirà contento perché è ritornata. A questo punto la Bella capisce di non poter vivere a sua volta senza la Bestia e si rende conto di essersene innamorata. Gli dice tutto questo e gli promette di sposarlo se guarirà.
In quel momento il castello si riempie di luce vividissima e di musica, e la Bestia scompare. Al suo posto c’è ora un bel principe che racconta alla Bella di essere stato stregato e trasformato nella Bestia. L’incantesimo sarebbe durato fino a che una bella fanciulla non avesse amato la Bestia solo per la sua bontà.
Sciogliendo il simbolismo di questa novella, possiamo dire che la Bella rappresenta tutte quelle ragazze o donne che sono prigioniere di un legame emotivo con il proprio padre, legame che non è meno vincolante per il fatto di essere semplicemente spirituale. La bontà della Bella è simboleggiata dalla richiesta di una rosa bianca, ma con una significativa implicazione la sua intenzione inconscia pone il padre e lei stessa in balia di un principio che esprime non bontà pura e semplice, ma crudeltà e gentilezza fra loro combinate. È come se essa desiderasse di venir liberata da un amore che la costringe a tenere un atteggiamento esclusivamente virtuoso e irreale.
Imparando ad amare la Bestia essa si desta alla potenza dell’amore umano concepito nella sua forma animale (e perciò imperfetta) ma genuinamente erotica. Ciò rappresenta presumibilmente il risveglio della sua vera capacità di rapporto ed esso la mette in condizione di accettare la componente erotica del suo desiderio originale, che aveva dovuto essere rimosso per timore d’incesto. Per abbandonare il padre essa aveva dovuto accettare, diciamo così, la paura dell’incesto, permettere a se stessa di vivere nella fantasia in presenza di tale paura, fino a che non fosse riuscita a conoscere l’uomo nella sua accezione animale e non avesse scoperto come donna la propria risposta genuina nei suoi riguardi.
In tal modo essa riscatta se stessa e la propria immagine maschile dalle forze della rimozione, innalzando al livello della coscienza la sua capacità di credere all’amore come a qualcosa che combina in sé spirito e natura, nel senso migliore dei termini.
Un sogno prodotto da una mia paziente – una donna emancipata – rappresentava bene questo bisogno di rimuovere la paura dell’incesto, una paura estremamente reale dovuta al morboso attaccamento del padre verso di lei dopo la morte della moglie. In sogno si era vista inseguita da un toro furioso: dapprima aveva cercato di fuggire, ma poi si era resa conto che non serviva a nulla. Poi era caduta e il toro le era stato sopra. L’unica speranza era di cantare per cercare di ammansire l’animale: così aveva fatto, sia pure con voce tremante, e il toro, placata la propria furia, si era messo a leccarle una mano con la lingua. L’interpretazione mostrò che essa ora poteva cominciare a trattare gli uomini con un atteggiamento femminile più fiducioso – non solo sessualmente, ma anche dal punto di vista erotico, nel senso più ampio di capacità di rapporto al livello della propria identità conscia.
Nel caso di donne più anziane, il tema della Bestia può non indicare il bisogno di trovare risposta a un complesso paterno o di sciogliere una inibizione sessuale, può, insomma, non fare riferimento a tutti quegli elementi che da un’analisi psicanalitica razionale possono risultare dal mito. Esso può rappresentare, di fatto, l’espressione di una particolare forma di iniziazione della donna, che può essere altrettanto significativa all’inizio della menopausa che nel colmo dell’adolescenza; ma può rivelarsi in ogni età, tutte le volte che l’unione fra spirito e natura si sia incrinata.
Una donna nel periodo della menopausa mi raccontò questo sogno:
Mi trovo insieme a diverse donne anonime che non mi sembra di conoscere. Scendiamo al pianterreno di una strana casa e d’improvviso ci troviamo di fronte ad alcuni grotteschi “uomini-scimmia” dall’aspetto terribile, vestiti di pelli a strisce grige e nere, con la coda, con lo sguardo torvo e minaccioso. Siamo completamente in loro balia, ma a un tratto sento che l’unico modo per salvarci non è quello di farci prendere dal panico e di fuggire o lottare, ma quello di trattare queste creature con umanità inducendole a prendere coscienza del lato migliore della loro natura. Così uno di questi uomini-scimmia viene verso di me, io lo accolgo come un cavaliere che mi inviti alla danza e insieme cominciamo a ballare.
Successivamente sogno di essere dotata di poteri di guarigione soprannaturali e c’è un uomo in punto di morte. Ho una specie di penna o piuttosto di becco d’uccello, attraverso il quale soffio aria nelle narici dell’uomo ed egli riprende a respirare.
Negli anni del matrimonio e dell’allevamento dei figli la paziente aveva dovuto trascurare le sue doti creative con le quali si era fatta un tempo una piccola ma genuina reputazione di scrittrice. Nel periodo in cui ebbe questo sogno essa cercava di indursi a riprendere la vecchia attività, pur criticandosi duramente, allo stesso tempo, per non essere una moglie, amica e madre migliore. Il sogno le aveva proposto il suo problema alla luce dell’esperienza di altre donne che, come lei, potevano sperimentare una situazione di passaggio, discendendo, come risulta dall’immagine del sogno, al pianterreno di una strana casa da un troppo alto livello di coscienza. Possiamo congetturare che ciò rappresenti l’introduzione a qualche significativo aspetto dell’inconscio collettivo, con la sfida ad accettare il principio maschile nelle vesti di un uomo-animale, quella stessa figura eroica, pagliaccesca, d’Imbroglione che abbiamo incontrato all’inizio dei cicli eroici primitivi.
Per la paziente riferirsi a questo uomo-scimmia e umanizzarlo valorizzando gli aspetti positivi della sua natura, significava la necessità di accettare qualche elemento imprevedibile del suo naturale spirito creativo. Con ciò essa avrebbe potuto oltrepassare i confini convenzionali della propria vita e imparare a scrivere in una forma nuova, più appropriata alla fase da lei attualmente vissuta.
Il fatto che questo impulso sia riferito al principio creativo maschile risulta dalla seconda scena, in cui essa risuscita un uomo insufflandogli aria nel naso per mezzo di una specie di becco d’uccello. Questo procedimento pneumatico indica il bisogno di far rivivere lo spirito piuttosto che il principio del calore erotico. È un simbolismo conosciuto in tutto il mondo: l’atto rituale trasmette il soffio vitale creatore a ogni nuova impresa.
Il sogno prodotto da un’altra donna sottolinea l’aspetto “naturale” della vicenda della Bella e la Bestia:
Qualcosa di simile a un grosso insetto, giallo e nero, con zampe a spirale roteanti, vola o viene scagliato in casa attraverso la finestra. Qui si trasforma in un bizzarro animale a strisce gialle e nere, simile a una tigre, con delle zampe quasi umane, da orso, e un muso aguzzo, da lupo. Penso che, sciolto com’è, può far del male ai bambini. È un pomeriggio di domenica e vedo una bambina tutta vestita di bianco che va a lezione di catechismo. Devo chiamare in aiuto la polizia.
Ma a questo punto mi accorgo che quella creatura è diventata mezzo donna e mezzo animale. Mi gira attorno facendomi le feste e mostra di voler fare all’amore. Penso che si tratti di una situazione fiabesca, o di un sogno, e che solo con la gentilezza riuscirò a trasformare quella creatura. Cerco di abbracciarla affettuosamente, ma non so resistere e la respingo da me. Ma sento che devo tenerla vicino e familiarizzare con lei: può darsi che un giorno io sia capace di baciarla.
Questa è una situazione diversa da quella precedente. La donna si era distolta troppo intensamente dalla funzione creativa maschile, che era diventata una preoccupazione coercitiva, mentale (cioè, “aerotrasportata”). Di conseguenza non era riuscita a sviluppare in modo naturale la propria funzione femminile, coniugale. (In associazione al sogno la paziente aggiunse: “Quando mio marito torna a casa, il mio lato creativo viene meno e mi trasformo in un’affaccendatis- sima massaia”.) Il sogno finisce inaspettatamente per trasformare il suo spirito diseducato in una figura di donna che essa deve accettare e coltivare dentro di sé: in tal modo essa può armonizzare i propri interessi intellettuali creativi con gli istinti che le consentono di entrare in un rapporto affettuoso con gli altri.
Ciò implica u’na nuova accettazione del principio duale tipico della vita della natura, di ciò che è crudele ma, allo stesso tempo, gentile oppure, nel caso della paziente, aspramente avventuroso ma anche umilmente e creativamente domestico. Questi opposti, ovviamente, sono conciliabili solo a un livello psicologico di consapevolezza estremamente avvertito e sarebbero senz’altro pericolosi per quell’innocente bambina che va a lezione di catechismo con l’abito della festa.
L’interpretazione che può esser data al sogno di questa donna è che essa aveva bisogno di superare un’immagine di sé eccessivamente ingenua. Essa doveva esser disposta ad accettare integralmente la polarità dei propri sentimenti – allo stesso modo che la Bella aveva dovuto rinunciare all’innocente fiducia in un padre che non poteva regalarle la casta rosa bianca del suo sentimento senza svegliare la furia benefica della Bestia.
Orfeo e il Figlio dell’Uomo
“La Bella e la Bestia” è una novella che possiede le stesse qualità di un fiore di campo: esso ci appare in modo così inatteso e crea in noi un tale senso naturale di meraviglia che, lì per lì, non ci rendiamo conto che anche esso appartiene a una classe, a un genere e a una specie ben definiti di piante. Al tipo di mistero implicito in una novella come questa è data un’applicazione universale non soltanto nei termini più generali di un mito storico ma anche nei rituali per mezzo dei quali il mito si esprime o dai quali può derivare.
Il tipo di rituale e di mito che più appropriatamente esprime questo genere di esperienza psicologica è esemplificato nella religione dionisiaca greco-romana e in quella orfica, succeduta alla prima. Entrambe queste religioni fornivano un tipo significativo d’iniziazione noto come “misteri”. I loro simboli erano associati alla figura di un uomo-dio dalle caratteristiche androgine, cui veniva attribuita una intima capacità di conoscenza del mondo animale o di quello vegetale e la prerogativa dell’iniziazione nei loro rispettivi segreti.
La religione dionisiaca conteneva riti orgiastici che inducevano l’iniziato ad abbandonarsi totalmente alla propria natura animale e a sperimentare in pieno la potenza fertilizzante della Madre Terra. L’agente d’iniziazione a questo rito dionisiaco di passaggio era il vino. Si supponeva che esso producesse l’abbassamento simbolico della coscienza necessario per introdurre il novizio nei gelosi segreti della natura, la cui essenza era espressa da un simbolo di appagamento erotico: l’unione del dio Dioniso con Arianna, sua consorte, in una sacra cerimonia matrimoniale.
Ben presto i riti dionisiaci persero la loro potenza religiosa emotiva. Si affermò un desiderio tutto orientale di liberazione dalla loro preoccupazione esclusiva per i simboli puramente naturali della vita e dell’amore. La religione dionisiaca, con il suo continuo passare dal piano spirituale a quello fisico e viceversa, si dimostrò probabilmente troppo rozza e turbolenta per alcune personalità più ascetiche, che finirono per vivere le loro estasi religiose solo interiormente, nel culto di Orfeo.14
Orfeo fu probabilmente una persona reale: cantore, profeta e maestro, subì il martirio e la sua tomba si trasformò in tempio. Non stupisce che i primi Cristiani vedessero in Orfeo un prototipo di Cristo. Tutte e due queste religioni recarono al mondo tardo-ellenistico la promessa di una futura vita divina. Essendo uomini, ma contemporaneamente mediatori della divinità, essi trasmisero alle moltitudini della civiltà greca morente, al tempo dell’Impero romano, la tanto desiderata speranza di una vita futura.
Tuttavia c’è una differenza importante fra la religione di Orfeo e quella di Cristo. Benché sublimati in forma mistica, i misteri orfici conservavano le tracce dell’antica religione dionisiaca. L’impeto spirituale derivava da un semidio in cui si perpetuava la più significativa qualità di una religione radicata nell’arte dell’agricoltura, cioè l’antico modello degli dèi della fertilità che comparivano solo in una determinata stagione – in altre parole, l’eterno ciclo ricorrente di nascita, crescita, maturazione e decadenza.
Il Cristianesimo, d’altra parte, disperse la pratica dei misteri. Cristo era il prodotto e il riformatore di una religione patriarcale, nomade e pastorale, i cui profeti rappresentavano il Messia come un essere di origine assolutamente divina. Il Figlio dell’Uomo, benché nato da una vergine umana, aveva avuto la sua origine in cielo, da dove era sceso, per un atto di divina incarnazione, nell’uomo. Dopo la morte era tornato in cielo – ma una volta per tutte, per regnare alla destra di Dio fino alla Seconda Venuta, “quando i morti si leveranno”.
Naturalmente l’ascetismo di cui era impregnato il Cristianesimo primitivo non durò a lungo. L’esempio dei misteri ciclici era talmente vivo e attraente agli occhi dei suoi seguaci che la Chiesa finì per dovere incorporare nei propri rituali molte pratiche desunte dalla precedente tradizione pagana. Le più significative fra queste sono ricostruibili attraverso le antiche descrizioni delle cerimonie compiute nel Sabato Santo e nella domenica di Pasqua per celebrare la resurrezione di Cristo – per esempio il servizio battesimale che la Chiesa medievale tradusse adeguatamente in un rito d’iniziazione di profondo significato. Tuttavia questo rituale è scarsamente sopravvissuto nell’età moderna ed è completamente assente nel Protestantesimo.
Il rituale che è meglio sopravvissuto e che tuttora contiene per il devoto il significato di un fondamentale mistero di iniziazione, è la pratica cattolica dell’elevazione del calice. Essa è stata così descritta dal dottor Jung nel suo studio Il simbolismo della trasformazione nella messa:
L’elevazione del calice prepara la spiritualizzazione […] del vino. Ciò è confermato dall’invocazione dello Spirito Santo che segue subito dopo […]. L’invocazione serve a infondere il sacro spirito nel vino, poiché è lo Spirito Santo che genera, esaudisce e trasforma […]. Dopo l’elevazione il calice veniva posto, anticamente, alla destra dell’ostia consacrata per rappresentare il sangue che era sgorgato dal fianco destro di Cristo.15
Il rituale della comunione è ovunque il medesimo, sia che venga espresso dalla libagione nel calice dionisiaco, oppure nel sacro calice cristiano; tuttavia il livello di consapevolezza che esso apporta ai partecipanti al rito è diverso. Il seguace di Dioniso guarda all’origine delle cose, alla “nascita tempestosa” del dio che viene esploso dal ventre resistente della Madre Terra. Negli affreschi della Villa dei Misteri di Pompei, nella raffigurazione del rito in atto, il dio viene evocato facendo riflettere una maschera del terrore nella coppa di Dioniso offerta dal sacerdote all’iniziato. In seguito troviamo la raffigurazione del canestro, ricolmo dei frutti preziosi della terra, e del fallo come simboli creativi della manifestazione del dio, quale principio della generazione e della crescita.
In contrasto con questa prospettiva a ritroso, in cui l’accento principale viene posto sull’eterno ciclo naturale della nascita e della morte, il mistero cristiano mira direttamente alla speranza finale dell’iniziato nell’unione con un dio trascendente. Madre Natura, con tutti i suoi mirabili cambiamenti stagionali, è stata messa in disparte e la figura centrale del cristianesimo offre una certezza spirituale poiché egli è il Figlio di Dio in cielo.
Eppure entrambe queste figure si fondono, in un certo senso, in quella di Orfeo, il dio che ricorda Dioniso e insieme preannuncia Cristo. Il senso psicologico di questa figura intermediaria è stato descritto dalla studiosa svizzera Linda Fierz-David, nella sua interpretazione del rito orfico raffigurato nella Villa dei Misteri:16
Orfeo insegnava mentre cantava e suonava la lira, e il suo cantare era tanto potente che dominava tutta la natura; quando cantava accompagnandosi con la lira gli uccelli gli svolazzavano intorno e i pesci abbandonavano le acque per schizzare ai suoi piedi. Il vento e il mare si arrestavano e i fiumi invertivano il loro corso per raggiungerlo; cessavano la neve e la grandine e gli alberi e le pietre andavano dietro a Orfeo; la tigre e il leone stavano accucciati vicino a lui insieme alla pecora, e il lupo insieme al cervo e al capriolo. Qual è il significato di tutto questo? Evidentemente che in una intuizione divina del significato degli eventi naturali […] questi esprimono un armonico ordine interiore. Tutto diventa luce e ogni creatura si ammansisce quando il mediatore, nell’atto di adorazione, viene a rappresentare la luce della natura. Orfeo è una personificazione della devozione e della pietà; egli simboleggia l’atteggiamento religioso che risolve tutti i conflitti, poiché per suo tramite l’anima viene totalmente orientata verso ciò che sta al di là di ogni conflitto […]. E quando ottiene questi risultati egli è veramente Orfeo, cioè un buon pastore, secondo la sua personificazione primitiva […].
Nel suo ruolo di buon pastore e di mediatore Orfeo compendia elementi della religione dionisiaca e di quella cristiana, in quanto sia Dioniso che Cristo presentano caratteristiche simili anche se, come ho già detto, diversamente orientate nel tempo e nello spazio – la prima essendo una religione ciclica del mondo inferiore, l’altra invece una religione celeste ed escatologica o finale. Questa serie di eventi d’iniziazione, ricavati dal contesto della storia delle religioni, si ripropone incessantemente e con ogni possibile complicazione individuale di significato nei sogni e nelle fantasie degli uomini moderni.
Una donna in preda a una grave forma di esaurimento e di depressione produsse in situazione analitica questa fantasia:
Sono seduta a un lungo tavolo stretto, in una stanza senza finestre con un alto soffitto a volta. Il mio corpo è incurvato e rattrappito. Sono coperta solo da una veste bianca di lino, che mi copre dalle spalle ai piedi. Mi è accaduto qualcosa di grave. Non mi resta molto da vivere. Mi appaiono delle croci rosse su dischi d’oro. Mi viene in mente di aver contratto tanto tempo fa un impegno e, ovunque mi trovi attualmente, si deve trattare di qualcosa connesso a ciò. Resto seduta a lungo.
Ora apro lentamente gli occhi e mi vedo seduto accanto un uomo che è lì per guarirmi. Egli mi parla con naturalezza e accento gentile, ma non sento ciò che dice. Sembra essere al corrente di tutta la mia situazione. So di essere molto brutta e intorno a me deve esserci un odore di morte. Mi domando se egli proverà repulsione nei miei riguardi. Lo guardo a lungo, fissamente. Non se ne va. Respiro con più facilità.
A questo punto sento come un soffio d’aria fresca o un getto di acqua fresca scorrermi sul corpo. Mi avvolgo nella veste di lino e mi preparo a un sonno naturale. Le mani risanatrici dell’uomo sono posate sulle mie spalle. Mi ricordo vagamente che un tempo lì c’erano delle ferite, ma la pressione delle sue mani sembra restituirmi forza e salute.
La paziente si era sentita assalita, tempo addietro, da dubbi sulla propria posizione religiosa. Era stata allevata in un clima di devozione cattolica tradizionale, ma fin da giovane aveva cercato di combattere contro le convenzioni religiose formalistiche seguite dalla famiglia. Ciò nonostante gli elementi simbolici della sua educazione religiosa e il senso della pienezza di significato che essa vi aveva riconosciuto avevano seguitato ad accompagnarla lungo tutto il suo processo di cambiamento psicologico, e nel corso dell’analisi trovai molto utile la sua attiva conoscenza del simbolismo religioso.
Gli elementi significativi che la paziente scelse all’interno del suo racconto furono: la veste bianca, da lei intesa come una veste sacrificale; la stanza col soffitto a volta, da lei considerata una tomba; e il particolare dell’impegno, a sua volta associato all’esperienza di sottomissione vissuta dalla donna. Questo impegno, come lei lo definiva, suggeriva un rituale d’iniziazione con una perigliosa discesa nel mondo della morte simboleggiante il modo in cui essa aveva abbandonato la Chiesa e la famiglia per vivere l’incontro con Dio a modo suo. Essa aveva intrapreso una “imitazione di Cristo” nel genuino senso simbolico dell’espressione, e al pari di lui aveva patito le ferite precedenti la morte.
La veste sacrificale suggerisce l’immagine del lenzuolo o sudario in cui venne avvolto il corpo crocifisso di Cristo prima di essere deposto nella tomha. Verso la fine, la fantasia introduce la figura del guaritore, da una parte tenuamen- te associata a me come analista della paziente, dall’altra dotata di un suo ruolo autonomo naturale e indicativa di un amico completamente al corrente dell’esperienza della donna. Il guaritore le parla senza che essa possa udire ciò che viene dicendo, ma le sue mani la rinvigoriscono donandole un senso di salute riacquistata. Si avverte in questa figura il tocco e la parola del buon pastore, Orfeo o Cristo che sia, inteso come mediatore e, ovviamente, come risanatore. Egli sta dalla parte della vita e deve convincere la donna che anche essa può risalire dal sepolcro.
Daremo a tutto ciò il nome di rinascita o di resurrezione? Probabilmente o tutti e due o nessuno. Il rito essenziale si rivela alla fine della fantasia: il soffio d’aria fresca o il rivolo d’acqua che passa sul corpo della paziente rappresenta l’atto primordiale di purificazione del peccato mortale, cioè la sostanza del battesimo genuino.
La stessa donna produsse un’altra fantasia, in cui immaginò che il proprio compleanno cadesse nel giorno della resurrezione di Cristo. (Per la paziente ciò era molto più significativo del ricordo della madre, che non era mai riuscita a darle quel senso di sicurezza e di rinnovamento di cui era tanto andata in cerca nei suoi compleanni da bambina.) Ciò non significava, tuttavia, che essa si identificasse con la figura di Cristo. La sua potenza e la sua gloria lo rendevano inaccessibile: per quanto essa tentasse di raggiungerlo attraverso la preghiera, egli e la sua croce si andavano innalzando sempre più nel cielo, al di là delle sue capacità umane di seguirli.
In questa seconda fantasia la paziente si vede riproposto il simbolo della rinascita nell’immagine del sole nascente, mentre, contemporaneamente, faceva la sua comparsa un nuovo simbolo femminile. Dapprima esso apparve come un “embrione racchiuso in una sacca acquosa”. Successivamente la donna aiutava un bambino di otto anni a passare attraverso l’acqua “evitando un punto pericoloso”. Subito dopo emergeva una situazione in cui essa non si sentiva più in preda alla paura o sotto la minaccia della morte. La paziente si trovava “in una foresta vicino alla cascatella di una sorgente; […] tutt’intorno crescevano viti verdi. In mano avevo una ciotola di pietra e dentro c’erano acqua sorgiva, muschio verde e violette. Mi bagno nella cascata. L’acqua è dorata e morbida come seta: mi sento come una bambina”.
Il senso di questi eventi è chiaro, anche se per la descrizione così ermetica di tante immagini cangianti è possibile non riuscire a coglierne il significato più riposto. Ci troviamo di fronte a un processo di rinascita, nel corso del quale un sé spirituale di più ampie proporzioni rinasce e viene battezzato naturalmente nelle vesti di una bambina. Nel frattempo la donna ha salvato un bambino di età maggiore che, in qualche modo, simboleggia l’ego della stessa paziente nella fase più traumatica della sua infanzia. Essa lo ha aiutato a traversare l’acqua evitando il punto pericoloso, e ciò sta a indicare la sua paura di cadere in preda a un senso paralizzante di colpa nel caso che si fosse allontanata troppo dalla religione convenzionale della famiglia. Tuttavia il simbolismo religioso è significativo proprio per la sua assenza. Tutto è nelle mani della natura: chiaramente ci troviamo più nel mondo del pastore Orfeo che in quello del Cristo risorto.
A questa serie di eventi faceva seguito un sogno nel corso del quale la paziente si veniva a trovare in una chiesa simile a quella di san Francesco in Assisi con gli affreschi dipinti da Giotto. Essa si sentiva più a proprio agio qui che in qualunque altra chiesa, poiché san Francesco, come Orfeo, era stato un uomo religioso immerso nella natura. Tutto ciò le ridestava gli antichi sentimenti suscitati inizialmente dal mutamento d’indirizzo religioso che le era stato così doloroso affrontare, ma a questo punto essa era convinta di poter affrontare serenamente tale esperienza, ispirata come era dalla luce della natura.
La serie dei sogni terminò con un’eco lontana della religione dionisiaca. (Questo elemento era, per così dire, un ricordo del fatto che anche Orfeo può sottrarsi sensibilmente, a volte, dall’esercitare nell’uomo la propria fecondatrice influenza di dio-animale.) La paziente sognò di accompagnare per mano una bambina bionda. “Stiamo partecipando felici a una festa che coinvolge il sole, le foreste e i fiori tutt’intor- no. La bambina ha in mano un fiorellino bianco e lo va a mettere sulla testa di un toro nero. Anche il toro fa parte della festa ed è coperto di festoni.” Questo riferimento ricorda i riti dell’antichità che celebravano Dioniso nella veste di un toro.
Tuttavia il sogno non finiva qui. La donna aggiunse: “Dopo un po’ di tempo il toro viene trafitto da una freccia d’oro”. Ora, a parte quello dionisiaco, c’è un altro rito precristiano in cui il toro assume un significato simbolico: il dio-sole persiano Mitra sacrifica un toro e anch’egli, come Orfeo, rappresenta il desiderio di una vita dello spirito che possa trionfare sulle primitive passioni animali dell’uomo e, dopo una cerimonia d’iniziazione, donargli la pace.
Questa serie d’immagini conferma un motivo che è dato ritrovare in molte sequenze fantastiche od oniriche del tipo sopra presentato – che, cioè, non esiste alcuna pace finale, alcun riposo conclusivo. Nella loro ricerca religiosa gli uomini e le donne – specialmente quelli che vivono nelle moderne società cristianizzate occidentali – continuano tuttora a subire l’influenza delle antiche tradizioni, che non hanno cessato di contrastarsi reciprocamente nel loro spirito per raggiungere la supremazia. Si tratta del conflitto fra credenze pagane e cristiane o, si potrebbe dire, fra rinascita e risurrezione.
Una chiave per risolvere questo dilemma può essere rinvenuta in un curioso elemento di simbolismo, facilmente trascurabile, della prima fantasia prodotta dalla paziente. Essa sostiene di aver veduto nel sepolcro delle croci rosse su dischi d’oro. Come risulta evidente dal seguito dell’analisi, la donna si accingeva, in quel momento, a sperimentare un profondo cambiamento psichico e a riemergere da questa specie di “morte” a una vita nuova. È perciò possibile supporre che questa immagine, offertasi alla paziente nel momento di più profonda disperazione nella vita, abbia in qualche modo servito a preannunziare il suo futuro atteggiamento religioso. Nelle sedute successive infatti essa fornì la prova che le croci rosse rappresentavano la sua devozione verso l’atteggiamento cristiano, mentre i dischi d’oro rappresentavano la sua devozione verso le religioni misteriche precristiane. La visione aveva suggerito alla paziente la necessità di riconciliare questi elementi cristiani e pagani nel nuovo corso di vita che le si apriva davanti.
Un’ultima, ma importante, osservazione concerne gli antichi riti d’iniziazione e il loro rapporto col cristianesimo. Il rito d’iniziazione celebrato nei misteri eleusini (i riti di culto dedicati alle dee della fertilità Demetra e Persefone) non solo era considerato appropriato per quanti cercassero di vivere una vita più rigogliosa, ma veniva anche usato in preparazione alla morte, come se la morte richiedesse un rito iniziatorio di passaggio dello stesso tipo.
Sopra un’urna funeraria rinvenuta nei pressi del Colombario dell’Esquilino si osserva un bassorilievo rappresentante scene della fase finale dell’iniziazione in cui il novizio viene ammesso alla presenza e al colloquio delle dee. Il resto della raffigurazione è dedicato a due cerimonie preliminari di purificazione: il sacrificio del “maiale mistico” e una versione misticizzata del matrimonio sacro.17 Tutto ciò fa riferimento a una iniziazione alla morte ma in una forma che esclude ogni esito doloroso. Essa allude infatti a quegli elementi dei misteri successivi – specialmente di tipo orfico – che assegnano alla morte il valore di promessa d’immortalità. Il Cristianesimo si spinse ancora più in là: esso venne a promettere qualcosa di più dell’immortalità (che, secondo il senso antico dei misteri ciclici, poteva non significare altro che la reincarnazione) e offrì al fedele la garanzia di una vita eterna nei cieli.
Anche in questo caso assistiamo al ripetersi di motivi antichi nella vita moderna. Coloro che debbono imparare ad affrontare la morte possono trovarsi nella necessità di tornare a imparare l’antico messaggio secondo il quale la morte è un mistero al quale dobbiamo prepararci con lo stesso spirito di sottomissione e di umiltà con cui abbiamo appreso, una volta, a prepararci alla vita.
Simboli di trascendenza
Vari sono gli scopi dei simboli che influenzano l’uomo. Certe persone hanno bisogno di venire esaltate e di sperimentare la loro iniziazione nel modo violento di un “rito del tuono” dionisiaco. Altre, invece, hanno bisogno di essere dominate e di ridursi alla sottomissione nell’ordinato contorno del recinto del tempio o della sacra caverna, secondo i riti della religione d’Apollo della tarda Grecia. Una iniziazione completa implica entrambi questi temi, come possiamo renderci conto esaminando il materiale ricavato dai testi dell’antichità o studiando soggetti viventi. Tuttavia è certo che lo scopo fondamentale dell’iniziazione consiste nel domare la selvatichezza originaria della natura giovanile – simile a quella simboleggiata nella figura dell’Imbroglione. Si tratta perciò di uno scopo di civilizzazione o di spiritualizzazione, malgrado la violenza dei riti utilizzati per promuovere questo processo.
Tuttavia c’è anche un altro tipo di simbolismo, appartenente alle tradizioni sacre più antiche fra quelle da noi conosciute. Benché anch’esso risulti collegato ai periodi di transizione della vita umana, non cerca d’integrare l’iniziato con alcuna dottrina religiosa o coscienza di gruppo di tipo secolare. Al contrario, questi simboli hanno di mira la liberazione dell’uomo da ogni stato d’immaturità, di fissità o di finalità. In altre parole essi tendono a liberare l’uomo da ogni schema limitativo d’esistenza allorché deve muoversi verso una fase superiore o più matura del proprio sviluppo.
Il bambino, come ho già detto, possiede un senso di completezza, ma solo nel periodo che precede la comparsa della coscienza dell’ego. Nel caso dell’adulto questo senso di completezza viene raggiunto attraverso l’unione della coscienza con i contenuti inconsci della mente. Da questa unione nasce ciò che Jung ha definito “la funzione trascendente della psiche”,18 per il tramite della quale l’uomo può pervenire alla meta più alta: la piena realizzazione del potenziale contenuto nel proprio sé individuale.
Perciò, quelli che noi chiamiamo “simboli di trascendenza” altro non sono che i simboli della lotta combattuta dall’uomo per il raggiungimento di questa meta. Essi forniscono i mezzi tramite i quali i contenuti dell’inconscio possono penetrare nella mente conscia e rappresentano a loro volta una attiva espressione di tali contenuti.
Questi simboli sono molteplici, ma la loro importanza è evidente sia che risultino da documenti storici sia che compaiano nei sogni degli uomini o delle donne contemporanei allorché abbiano raggiunto una fase esistenziale critica. Al livello più arcaico di questo simbolismo c’imbattiamo ancora una volta nel tema dell’Imbroglione. Ma ora questi non ci appare più nelle vesti di un anarchico eroe velleitario: esso è diventato lo sciamano – lo stregone – le cui magiche pratiche e ardite intuizioni fanno di lui un maestro d’iniziazione primitivo. La sua potenza risiede nella” supposta capacità di abbandonare il corpo e di volare per l’universo sotto forma di uccello.
In questo caso l’uccello diventa il simbolo più adeguato della trascendenza. Esso rappresenta la natura peculiare dell’intuizione, capace di operare per il tramite di un “medium”, cioè di un individuo che è in grado di avere la conoscenza di eventi lontani – o di fatti di cui ignora consciamente la natura – immergendosi in uno stato di trance.
Prove di questa capacità possono essere rinvenute a partire fino dall’età paleolitica, come ha dimostrato lo studioso americano Joseph Campbell commentando una delle famose pitture scoperte recentemente in una caverna della Francia.19 A Lascaux, egli scrive, c’è dipinto uno sciamano, in stato di trance, con una maschera d’uccello, e lì, vicino a lui, un uccello appollaiato su un bastone. Gli sciamani della Siberia indossano questi costumi da uccello ancora oggi, e molti si ritiene siano stati concepiti dalla madre per l’intervento di un uccello […]. Lo sciamano, perciò, non solo è abitatore familiare ma anche frutto privilegiato di quel mondo di poteri soprannaturali che alla nostra coscienza normale in stato di veglia è invisibile, che a noi è consentito visitare brevemente solo attraverso visioni e che egli invece percorre in largo e in lungo incontrastato, da signore.
Al massimo livello di questo tipo di attività iniziatoria, lungi dall’uso di quei trucchi del mestiere per i quali così spesso la magia interviene a sostituire l’autentica capacità di penetrazione spirituale, troviamo i maestri yoga indù. Nei loro stati di trance essi superano di gran lunga le normali categorie di pensiero.
Uno dei simboli onirici più comuni rappresentativo di questa liberazione nella trascendenza è il tema del viaggio solitario o del pellegrinaggio, di natura essenzialmente spirituale, durante il quale l’iniziato fa conoscenza con la natura della morte. Questa non è una specie di giudizio finale o una prova di forza iniziatoria: si tratta bensì di un viaggio di liberazione, di rinuncia e di espiazione, presieduto e protetto da qualche spirito compassionevole. Questo spirito è rappresentato più spesso.da una «maestra» che non da un “maestro” di iniziazione, cioè da una figura femminile suprema (l’anima), come Kwan-Yin nel buddismo cinese, Sofia nella dottrina gnostica cristiana o l’antica divinità greca della sapienza, Pallade Athena.
Questo simbolismo non è rappresentato solo dal volo degli uccelli o dal viaggio in terre deserte, ma anche, in genere, da qualunque forte movimento che esemplifichi il processo di liberazione. Nella prima parte della vita, allorché si è ancora attaccati alla famiglia e al gruppo sociale originario, questo processo può essere sperimentato nel momento d’iniziazione, in cui si deve imparare a muovere i passi decisivi nella vita con le sole nostre forze e da soli. È il momento in cui ci si trova di fronte, come è stato scritto da T. S. Eliot in La terra desolata,
L’ardimento terribile di un attimo di resa
Che un’èra di prudenza non potrà mai ritrattare.20
Nel periodo di vita successivo si può non aver bisogno di rompere tutti i legami coi simboli di una significativa misura. Ma può anche darsi che ci si senta invasi da quello spirito di scontentezza che costringe tutti gli uomini liberi ad affrontare la scoperta di qualcosa di nuovo o a vivere in modo diverso la propria vita. Questo cambiamento può assumere una particolare importanza nel periodo intermedio fra la maturità e la vecchiaia, cioè nel periodo in cui la maggior parte delle persone pensano a che cosa fare quando saranno in pensione – se lavorare o divertirsi, se restare a casa o viaggiare.
Se hanno passato una vita avventurosa, insicura o piena di sconvolgimenti, propenderanno per una vita tranquilla e il conforto della certezza religiosa; ma se hanno vissuto esclusivamente nella struttura sociale in cui sono nate, è probabile che sentano disperatamente il bisogno di un cambiamento liberatore. Questa spinta può essere temporaneamente soddisfatta con un viaggio intorno al mondo o con il trasloco in una casa più piccola. Ma nessuno di questi cambiamenti esteriori servirà a qualcosa se non sia intervenuta qualche trascendenza interiore di antichi valori a creare, non semplicemente a inventare, una nuova struttura di vita.
Un caso di questo tipo è quello di una donna che aveva vissuto secondo uno stile di vita praticato lungamente dalla famiglia e dagli amici per i suoi requisiti di solidità, nutrimento culturale e resistenza a ogni moda transitoria.
Essa ebbe il sogno seguente:
Trovo degli strani pezzi di legno, non scolpiti ma di bella forma naturale. Qualcuno dice: “Li hanno portati gli uomini di Neanderthal”. Allora scorgo in lontananza questi uomini, simili a una massa scura, ma non riesco a vederne nessuno distintamente. Penso di portar via con me uno dei loro pezzi di legno.
Proseguo, in solitario viaggio, e a un certo punto getto lo sguardo in un abisso enorme, simile al cratere di un vulcano estinto. C’è dell’acqua su una parte del fondo e mi aspetto di vedere altri uomini di Neanderthal. Invece scorgo dei neri “maiali acquatici”, che sono usciti dall’acqua e si sono messi a scorrazzare sulle nere rocce vulcaniche.
In contrasto con gli affetti familiari e l’elevato stile di vita della paziente, il sogno la trasporta in un periodo preistorico estremamente primitivo. Fra questi uomini antichi essa non è capace di scorgere alcun gruppo sociale: li vede solo in lontananza come la personificazione di una “massa scura” collettiva, realmente inconscia. Eppure essi vivono e la paziente è in grado di portar via loro un pezzo di legno. Il sogno sottolinea che il legno è naturale, non scolpito; perciò esso deriva da un livello primordiale, non culturalmente condizionato, dell’inconscio. Il pezzo di legno, notevole per la sua antichissima età, connette l’esperienza contemporanea della donna alle distanti origini della vita umana.
Sappiamo da molti esempi che un albero antico o una pianta antica rappresenta simbolicamente la crescita e lo sviluppo della vita psichica (in quanto distinta dalla vita istintuale, comunemente simboleggiata da animali). Perciò, con questo pezzo di legno, la donna ha recuperato un simbolo del suo legame con gli strati più profondi dell’inconscio collettivo.
Successivamente essa dice di aver continuato il viaggio da sola. Questo tema, come ho già sottolineato in precedenza, simboleggia il bisogno di un abbandono, inteso come esperienza d’iniziazione. E questo è un altro simbolo di trascendenza.
Quindi, sempre in sogno, essa vede un enorme cratere di vulcano estinto, che è stato il canale attraverso il quale violente eruzioni di fuoco si sono levate dalle viscere della terra. Possiamo supporre che ciò si riferisca a una traccia di memoria significativa, che a sua volta riconduce a una esperienza traumatica. La paziente associò tutto questo a una esperienza personale della sua giovinezza, allorché essa aveva avvertito tutta la forza distruttiva, eppure creativa, delle sue passioni spinta a un punto tale da aver temuto d’impazzire. Verso la fine dell’adolescenza aveva provato un imprevisto bisogno di sottrarsi alla struttura sociale eccessivamente convenzionale della famiglia; era giunta alla rottura senza gravi complicazioni e successivamente era riuscita a far pace con la famiglia. Tuttavia in lei era rimasto un desiderio profondo di differenziarsi maggiormente dall’ambiente familiare e di liberarsi dal proprio schema di vita.
Questo sogno me ne ricorda un altro cui è collegato. Mi fu esposto da un giovane che aveva problemi totalmente diversi ma che sembrava aver bisogno di un tipo d’intuizione simile al precedente. Anch’egli sentiva la spinta a differenziarsi. Sognò un vulcano e dal cratere vide uscire in volo due uccelli, come se temessero un’eruzione imminente. Tutto ciò avveniva in uno strano paesaggio solitario, con uno specchio d’acqua che divideva il giovane dal vulcano. Il sogno rappresentava in questo senso un viaggio d’iniziazione individuale.
Casi simili sono stati registrati fra le tribù raccoglitrici di cibo, che costituiscono i gruppi meno coscienti dell’organizzazione familiare da noi conosciuti. In queste società il giovane iniziato deve intraprendere da solo un viaggio verso qualche luogo sacro (nelle culture indiane della costa del Nord Pacifico può trattarsi di un lago formato dal cratere di un vulcano), dove, in uno stato visionario o di trance, egli incontra il suo “spirito custode” nelle vesti di un animale, di un uccello o di un oggetto naturale. Egli si identifica compiutamente con questa “anima della foresta” e, ciò facendo, diventa uomo. Chi non abbia vissuto un’esperienza di questo tipo viene considerato, secondo le parole di uno stregone achumaui, “un indiano comune, cioè una nullità”.
Il sogno del giovane si realizzò all’inizio della sua vita da uomo e faceva riferimento alla sua indipendenza futura e alla sua identità come uomo. Al contrario la paziente di cui ho descritto il sogno si stava approssimando alla fine della vita, eppure anch’essa sperimentò un viaggio simile e rivelò il bisogno di acquistare una indipendenza di questo tipo. Essa avrebbe potuto vivere il resto dei propri giorni in armonia con una legge eterna dell’umanità che, per la sua antichità, trascendeva i simboli di civiltà comunemente noti.
Ma questa indipendenza non porta a una condizione di distacco simile a quella dello yogi, il che significherebbe una rinuncia al mondo con tutte le sue impurità. Nel paesaggio del sogno, apparentemente morto e desolato, la donna scorge segni di vita animale. Si tratta dei “maiali acquatici”, a essa sconosciuti come specie. Essi significano un animale di caratteristiche speciali, capace di vivere in due ambienti diversi: in acqua e sulla terra.
Questa è la qualità universale dell’animale inteso come simbolo trascendente. Tali creature, figurativamente fatte provenire dalle profondità dell’antica Madre Terra, sono elementi simbolici dell’inconscio collettivo. Essi portano nel campo della coscienza uno speciale messaggio ctonico (sotterraneo) che differisce significativamente dalle aspirazioni spirituali simboleggiate dagli uccelli del sogno del giovane.
Altri simboli trascendenti delle profondità sono i roditori, le lucertole, i serpenti e talvolta i pesci. Si tratta di creature intermedie, che combinano un’attività subacquea e aerea con una intermedia vita terrestre. L’anitra selvatica o il cigno appartengono anch’essi a questa serie simbolica. Il più comune simbolo onirico di trascendenza è costituito probabilmente dal serpente, così come è rappresentato nel simbolo terapeutico del dio romano della medicina, Esculapio, che è sopravvissuto fino ai nostri giorni come emblema della professione medica. Originariamente si trattava di un serpente rampicante non velenoso: così come noi lo vediamo, attorcigliato intorno al bastone del dio-guaritore, sembra simboleggiare una specie di mediazione fra cielo e terra.
Un simbolo ancor più importante e diffuso di trascendenza ctonica è costituito dal motivo dei due serpenti intrecciati. Sono i famosi serpenti Naga dell’antica India, ma li troviamo anche in Grecia nella raffigurazione dei due serpenti intrecciati alla sommità del bastone del dio Ermes. Un antico monumento greco è costituito da una colonna di pietra sormontata da un busto del dio. Da una parte sono raffigurati i serpenti intrecciati e dall’altra un fallo eretto. Poiché i serpenti sono rappresentati nell’atto di unione sessuale e il fallo eretto costituisce a sua volta un inequivocabile simbolo sessuale, possiamo concludere con sicurezza che la funzione del monumento fosse quella di simboleggiare la fertilità.
Tuttavia cadremmo in errore se pensassimo che esso si riferisca solo alla fertilità biologica. Ermes è una specie d’Imbroglione, con il ruolo specifico di fungere da messaggero, da divinità posta all’incrocio delle strade, da guida delle anime da e verso il mondo sotterraneo. Perciò il suo fallo penetra dal mondo noto a quello sconosciuto, alla ricerca di un messaggio spirituale di liberazione e di salvezza.
Originariamente esso era noto in Egitto nella figura del dio Thoth idalla testa d’ibis, e in seguito venne concepito come la forma-uccello del principio trascendente. Inoltre, nel periodo olimpico della mitologia greca, Ermes ricevette gli attributi dell’uccello in aggiunta a quelli ctonici della sua originaria natura di serpente. Sul suo bastone comparvero le ali, al disopra dell’intreccio dei serpenti, e questo divenne il caduceus, o bastone alato del dio Mercurio, e questi divenne a sua volta “l’uomo volante” col cappello alato e i coturni. A questo punto la sua trascendenza raggiunge la pienezza degli attributi: per il suo tramite la trascendenza inferiore, sorgendo dalle forme della coscienza sotterranea ed elevandosi attraverso la realtà terrestre, raggiunge infine la trascendenza piena della realtà superumana e ultrapersonale.
Simboli altrettanto compositi è dato rinvenire in altre rappresentazioni, come quelle del cavallo alato, del drago alato o delle altre creature che abbondano nel campo delle espressioni artistiche dell’alchimia, così compiutamente illustrate nell’opera classica del dottor Jung sull’argomento. Da parte nostra, siamo in grado di seguire le innumerevoli vicissitudini di questi simboli nello studio dei pazienti. Essi mostrano chiaramente i risultati cui la nostra terapia può aspirare di pervenire una volta che si siano liberati i contenuti psichici profondi e che questi siano diventati parte del nostro bagaglio psichico per una comprensione più adeguata della vita.
Per l’uomo moderno non è facile afferrare il significato dei simboli che ci giungono dal passato o che appaiono nei nostri sogni. Non è facile neppure rendersi conto del modo in cui l’antico conflitto fra simboli di coercizione e di liberazione si viene ad agganciare strettamente al nostro discorso. Eppure tutto ciò diventa più facile quando si comprenda che sono solo le forme specifiche di questi antichi modelli simbolici a cambiare, non il loro intrinseco significato psichico.
Abbiamo parlato di uccelli selvatici come di simboli di abbandono o di liberazione. Ma oggigiorno potremmo trasferire il discorso sugli aeroplani a reazione o sui missili spaziali, poiché essi altro non sono che l’espressione fisica dello stesso principio trascendente che ci libera, almeno temporaneamente, dal condizionamento della gravità. Nello stesso modo gli antichi simboli di coercizione e di misura, che un tempo donavano stabilità e protezione, oggigiorno si rivelano nella ricerca della sicurezza economica e del benessere sociale.
Ognuno di noi è in grado di rendersi conto che nella nostra vita esiste un conflitto fra avventura e disciplina, male e virtù, libertà e sicurezza. Ma queste non sono altro che frasi da noi impiegate per descrivere l’ambivalenza che ci tormenta e alla quale non ci sembra di poter mai arrivare a dare una risposta conclusiva.
Eppure una risposta c’è. Esiste un punto d’incontro fra coercizione e liberazione, e noi lo possiamo trovare nei riti d’iniziazione precedentemente discussi. Essi permettono agli individui, o a interi gruppi di persone, di unire le loro forze contrastanti e di raggiungere un equilibrio esistenziale.
Però i riti non offrono questa opportunità in termini invariabili o automatici. Essi si riferiscono a fasi particolari della vita dell’individuo, o del gruppo, e se non vengono adeguatamente compresi e tradotti in nuove guise di vita, possono farci perdere l’occasione buona, per sempre. L’iniziazione è, essenzialmente, un processo che si avvia con un rito di sottomissione, cui segue un periodo di coercizione e quindi un rito finale di liberazione. Seguendo questo criterio ogni singolo individuo può esser capace di riconciliare gli elementi contrastanti della propria personalità: egli può raggiungere un equilibrio che lo rende genuinamente uomo e genuinamente padrone di se stesso.
Note
1 Per quanto riguarda la finalità della Resurrezione di Cristo: il Cristianesimo è una religione di carattere escatologico, cioè ha in vista uno scopo finale che si identifica con il Giudizio Universale. Altre religioni, che hanno conservato elementi matriarcali della civiltà tribale (per esempio, FOrfismo) hanno invece carattere ciclico, come ha dimostrato Eliade in The Myth of the Eternal Return, Bollingen-Pantheon, New York, 1954 [tr. it.: Il mito dell’eterno ritorno, Boria, Leumann, 1968].
2 Cfr. Paul Radin, Hero Cycles of the Winnebago, Indiana University Publications, 1948.
3 Per quanto concerne la Lepre, il dottor Radin osserva: “La Lepre è l’eroe tipo, quale è conosciuto in tutto il mondo, così in quello primitivo come in quello civile, fin dai periodi più remoti della storia del mondo”.
4 I due dèi della guerra dei Navaho sono oggetto di analisi nell’opera di Maud Oakes, Where the Two Came to their Father, A Navaho War Ceremonial, Bollingen, New York, 1943.
5 Jung esamina la figura dell’Imbroglione, nello scritto Sul carattere psicologico dell’“imbroglione”, in Collected Works, vol. IX.
6 II conflitto dell’ego con l’ombra è esaminato da Jung nello scritto La lotta per la liberazione dalla madre, in Opere, voi. v: Simboli della trasformazione, Boringhieri, Torino, 1970.
7 Per una interpretazione del mito del Minotauro, cfr. il romanzo di Mary Renault, The King Must Die, Pantheon, New York, 1958 [tr. it.: Il re deve morire, Bompiani, Milano, 1959].
8 II simbolismo del labirinto è esaminato da Erich Neumann in The Origins and History of Consciousness, Bollingen, New York, 1954.
9 Per quanto riguarda il mito navaho del coyote, cfr. Margaret Schevill Link e J. L. Henderson, The Pollen Path, Stanford, 1954.
10 La nascita dell’ego è esaminata da Erich Neumann, op. cit.; Michael Fordham, New Developments in Analytical Psychology, London, Routledge & Kegan Paul, 1957; Esther M. Harding, The Restoration of the Injured Archetipal Image (edizione privata), New York, 1960.
11 Lo studio jungiano sulla iniziazione è contenuto in La psicologia analitica e la Weltanschauung, in Opere, voi. vili: La dinamica dell’inconscio, Boringhieri, Torino. Si veda anche Arnold Van Gennep, The Rites of Passages, Chicago, 1961.
12 Le prove di forza fra le donne sono esaminate da Erich Neumann in Amor and Psyche, Bollingen, 1956.
13 La fiaba della Bella e la Bestia è contenuta in M.me Leprince de Beaumont, The Fairy Tale Book, Simon and Schuster, New York, 1958 [tr. it.: La Bella e la Bestia, Fabbri, Milano, 1965],
14 Per il mito di Orfeo, si veda Jane E. Harrison, Prolegomena to the Study of Greek Religion, Cambridge University Press, 1922. Si veda anche W.K.C. Guthrie, Orpheus and Greek Religion, Cambridge, 1935.
15 C.G. Jung, Simbolismo di trasformazione nella messa, in Opere, voi. xi : Psicologia e Religione, Boringhieri, Torino, 1979. Si veda anche Alan Watts, Myth and Ritual in Christianity, Vanguard Press, 1953.
16 L’interpretazione di Linda Fierz-David del rituale orfico è contenuta in Psychologische Betrachtungen zu der Freskenfolge der Villa dei Misteri in Pompeji. Ein Versuch von Linda Fierz-David, trad, di Gladys Phelan (edizione privata), Zürich, 1957.
17 L’urna funeraria romana del Colle Esquilino è analizzata da Jane E. Harrison, op. cit.
18 Si veda, di Jung, La funzione trascendente, edito a cura della Associazione degli Studenti dell’Istituto C. G. Jung, Zürich.
19 Joseph Campbell esamina la figura dello sciamano-uccello in The Symbol without Meaning, Rhein-Verlag, Zürich, 1958.
20 Per La terra desolata di T. S. Eliot, si vedano i suoi Collected Poems, Faber & Faber, Londra, 1963 [tr. it.: Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano, 1961],
Marie-Louise von Franz
Il processo di individuazione
Schema dello sviluppo psichico
All’inizio di questo libro il dottor C. G. Jung ha esposto il concetto di inconscio, nelle sue strutture personalistiche e collettive, e la simbologia della sua espressione. Una volta che si sia compresa l’importanza (cioè, la forza d’urto, costruttiva o distruttiva) dei simboli creati dall’inconscio, resta da risolvere il difficile problema della loro interpretazione. Il dottor Jung ha dimostrato che la soluzione del problema dipende dalla circostanza che ogni particolare interpretazione «scatti», abbia un significato, nei confronti dell’individuo interessato. In tal modo ha indicato quali possano essere significato e funzione del simbolo onirico.
Ma, nel corso dello sviluppo della teoria di Jung, questa possibilità ha dato origine a un altro problema: qual è il fine della vita onirica individuale nella sua totalità? Quale ruolo dispiegano i sogni, non solo nella economia psichica immediata, ma nella vita complessiva dell’uomo?
Sottoponendo a osservazione una grande quantità di soggetti, e studiandone i sogni (riteneva di avere interpretato almeno 80.000 sogni), Jung scoprì non solo che tutti i sogni sono, in varia misura, rilevanti per la vita del soggetto, ma che essi si inseriscono in una trama complessa di fattori psicologici.1 E scoprì anche che, nella loro globalità, i sogni si presentano secondo un certo schema. Jung chiamò tale schema «il processo di individuazione». Dal momento che i sogni creano immagini e situazioni nuove notte per notte, chi non sia un buon osservatore non potrà essere in grado di individuare la loro struttura schematica generale. Ma, se si studiano e si controllano i propri sogni durante un periodo di qualche anno, e se ne esamina la successione, si vedrà che, nel corso di questa, certi contenuti emergono, si dissolvono e si presentano di nuovo. Molti sognano spesso le stesse figure o situazioni, gli stessi paesaggi; tuttavia, se ci si desse la briga di seguire la serie di tali immagini, ci si renderebbe conto che esse mutano, lentamente ma percettibilmente. Questi mutamenti possono accelerare il loro ritmo, se l’atteggiamento del soggetto sognante è influenzato da opportune interpretazioni dei sogni e dei loro contenuti simbolici.
Così, la nostra attività onirica crea e segue uno schema tortuoso nel quale, di volta in volta, le tendenze e i motivi individuali si manifestano, scompaiono e si presentano nuovamente. Esaminando, nel corso di un lungo periodo di tempo, questo disegno obliquo, sarà possibile individuare l’opera di una recondita tendenza direzionale o regolatrice, che determina un lento, impercettibile processo di sviluppo psichico – il processo di individuazione.
Lentamente emerge una personalità più ampia e più matura, che, di grado in grado, acquista corposità e si manifesta agli altri. Il fatto che spesso si parla di «arresti nello sviluppo», dimostra che comunemente si ritiene che un simile processo di sviluppo e maturazione è possibile in qualsiasi soggetto. Dal momento che lo sviluppo psichico non può essere determinato da un consapevole atto di volontà, ma si verifica del tutto involontariamente e naturalmente, esso viene di frequente simboleggiato in sogno dalla immagine dell’albero, il cui sviluppo lento, involontario e poderoso si adegua e risponde a un preciso schema.
Il centro organizzativo, da cui dipende l’effetto regolarizzatore, è una specie di «atomo nucleare» del nostro sistema psichico. Si potrebbe definirlo un centro di creazione e di organizzazione, il centro di origine delle immagini oniriche, lung chiama tale centro «sé», e lo descrive come costituente la totalità della vita psichica, per distinguerlo dall’«ego», che comprende solo una parte ridotta della psiche totale.2
Nel corso delle varie epoche gli uomini hanno avuto una conoscenza intuitiva dell’esistenza di tale centro interiore. I Greci lo chiamavano l’intimo daimon dell’uomo; in Egitto, esso trovava espressione nel concetto dell’anima di Ba; e i Romani lo veneravano come il genius innato in ogni individuo. Nelle società primitive esso assumeva l’aspetto di uno spirito protettore, che si riteneva incorporato in un animale o in un feticcio.
Questo centro interiore è individuato in una forma eccezionalmente pura e disadorrna dagli Indiani Naskapi, che vivono tuttora nelle foreste della penisola del Labrador.3 Questi popoli semplici sono composti da cacciatori che vivono in gruppi familiari isolati, tanto distanti l’uno dall’altro da precludere lo sviluppo di costumi tribali, di credenze e di riti religiosi di carattere collettivo. Nel corso della sua vita solitaria, il cacciatore naskapi deve necessariamente aver fiducia nelle proprie «voci interne», e nelle rivelazioni che provengono dal suo inconscio; non conosce una tradizione religiosa che lo guidi, non riti, solennità o costumi che lo possano sostenere. Nella sua fondamentale concezione della vita, l’anima dell’uomo è semplicemente il «compagno intimo», che egli chiama «il mio amico», o Mista’peo, che significa «il grande uomo». Mista’peo risiede nel cuore urnano, ed è immortale: al momento della morte, o poco prima, lascia l’uomo, e si reincarna successivamente in un altro essere.
Quei naskapi che esaminano i propri sogni, e cercano di individuarne il significato, e di saggiarne la verità, entrano in un più profondo rapporto con il «grande uomo». Questi li favorisce, e invia loro sogni più belli, e con maggiore frequenza. Così, l’impegno più serio del naskapi è di seguire le indicazioni ricevute in sogno, e di esprimerne il contenuto in modo permanente, per mezzo dell’arte. Menzogne e disonestà allontanano il «grande uomo» dall’intimo regno del soggetto, laddove la generosità, e l’amore del prossimo e degli animali, lo attraggono e lo vitalizzano. I sogni consentono al naskapi di trovare la propria via nella vita, non solo in rapporto al suo mondo interiore, ma anche al mondo esterno della natura. Lo aiutano a prevedere il tempo, e gli sono di guida sicura nella caccia, da cui dipende la sua stessa vita. Ho voluto ricordare queste popolazioni estremamente primitive, perché esse sono incontaminate dalle idee della nostra ci viltà, e conservano ancora un atteggiamento naturale nei confronti di quello che Jung chiama il sé.
Il sé può essere definito un principio interiore di guida, distinto dalla personalità conscia, e tale che può essere individuato solo tramite l’interpretazione dei sogni dei vari soggetti. I sogni dimostrano che esso è il centro regolatore che determina la maturazione e l’espansione costante della personalità. Ma questo elemento così ampio, in cui sembra incentrarsi quasi la totalità della psiche, si rivela, a tutta prima, solo come una possibilità innata. Può emergere lentissimamente, o può svilupparsi, in maniera relativamente completa, solo nel corso dell’intero ciclo vitale del soggetto. Fino a che punto, in concreto, esso possa svilupparsi, dipende dalla circostanza che l’ego sia, o meno, disposto a seguire i messaggi che gli giungono dal sé. Proprio come i naskapi hanno avvertito che chi accoglie i suggerimenti del «grande uomo» fa sogni più ricchi e più utili, così possiamo affermare che il «grande uomo» innato in ciascuno di noi acquista maggiore realtà in coloro che gli danno ricetto, che in coloro che lo trascurano. Quelli sono anche, più compiutamente di questi, esseri umani.
È come se l’ego fosse stato creato dalla natura non per seguire indefinitamente i propri impulsi arbitrari, ma per contribuire a rendere più reale la totalità, il complesso della psiche. È l’ego che vale a illuminare tutto il sistema, facendo sì che questo acquisti coscienza, e in tal modo si realizzi.
Così, per esempio, il talento artistico di cui l’ego non sia consapevole, va interamente perduto; solo se l’ego lo avverte, sarà possibile portarlo a rivelarsi. L’innata, ma recondita totalità della psiche, non è la stessa cosa di una complessità che venga pienamente realizzata e vissuta.4
Si potrebbe esprimere immaginativamente questo concetto nel modo seguente: il seme di un pino montano contiene, in forma latente, tutto l’albero futuro; ma ogni seme cade, a suo tempo, in un luogo particolare, caratterizzato da vari fattori speciali, come la qualità della roccia e del terreno, la pendenza della zona, la posizione rispetto al sole e ai venti. La totalità latente del pino nel seme reagisce a queste circostanze rifuggendo dalla roccia, e tendendo verso il sole, in modo che si delinea chiaramente il futuro sviluppo dell’albero. Così, lentamente, il singolo pino perviene all’esistenza, soddisfacendo la pienezza della sua totalità, la sua emersione al livello della realtà. Senza l’albero vivente, l’immagine del pino è solo una possibilità, una idea astratta. Analogamente, la realizzazione della unicità individuale nell’uomo è lo scopo del processo di individuazione.
Da un certo punto di vista, questo processo si attua nell’uomo – e in ogni altro essere vivente – autonomamente, nell’inconscio; è un processo tramite il quale l’uomo porta a esistenza la propria innata natura umana. A rigore, tuttavia, il processo di individuazione è reale solo se l’individuo ne è consapevole, e istituisce consapevolmente una relazione vitale con esso. Non sappiamo se il pino sia consapevole della propria crescita, se si rallegri o soffra delle varie vicende attraverso le quali acquista la sua forma; ma l’uomo può, certamente, partecipare consapevolmente al proprio sviluppo. Egli avverte anche che, di tempo in tempo, con libere decisioni, può cooperare attivamente a esso. Una simile cooperazione pertiene al processo di individuazione nel senso più stretto del termine.
L’uomo, tuttavia, ha una esperienza che non rientra nei limiti della nostra metafora del pino. Il processo di individuazione è qualche cosa di più che un rapporto dialettico fra il germe innato della totalità e gli eventi del mondo esteriore. L’esperienza soggettiva di esso ci rivela che qualche forza soprapersonale opera attivamente in modo creativo. Si ha talvolta la sensazione precisa che l’inconscio tracci la via da seguire secondo un disegno segreto. È come se una entità indeterminata ci guardasse, una entità che non possiamo vedere, ma che ci vede – forse il «grande uomo» che vive all’interno del nostro cuore, che esprime le sue opinioni su noi per il tramite dei sogni.
Ma questo aspetto creativamente attivo del nucleo psichico entra in gioco solo quando l’ego rinuncia a tutte le sue deliberate intenzioni, e cerca di assurgere a una forma più profonda, più fondamentale di esistenza. L’ego deve riuscire a seguire pienamente, abbandonandosi senza più alcun fine o proposito, quell’intimo impulso allo sviluppo. Molti filosofi esistenzialisti cercano di descrivere questa condizione, ma riescono solo a spogliarci delle illusioni della coscienza: procedono speditamente fino alla porta dell’inconscio, ma omettono di aprirla.
Coloro che vivono nell’ambito di culture più profondamente radicate della nostra, comprendono facilmente che è necessario rinunciare all’atteggiamento utilitaristico della pianificazione consapevole, per far luogo allo sviluppo interiore della personalità. Ho conosciuto un’anziana signora che non aveva ricevuto dalla vita troppe soddisfazioni – intendo soddisfazioni esteriori. Si era sposata con un uomo dal carattere estremamente difficile, ed era riuscita a sviluppare la propria personalità fino al livello della maturità. Una volta che si lamentò con me per non aver «fatto» niente nella vita, le raccontai una storia che ci è stata trasmessa da un saggio cinese, Chuang-Tzu. Ella comprese perfettamente il senso del racconto, e ne provò un grande conforto. Ecco la storia:
Un falegname girovago, che si chiamava Pietra, vide, nel corso di uno dei suoi viaggi, una quercia gigantesca che si ergeva in un campo, vicino a un altare agreste. Il falegname disse al suo garzone, che si era fermato a guardare a bocca aperta la quercia: «È un albero inutile; se volessi trarne fuori una barca, marcirebbe; se volessi farne degli arnesi, si spezzerebbero. Non puoi farne niente di buono, ed è questa la ragione per cui è potuto invecchiare tanto».
Ma quella stessa notte, all’osteria, quando il falegname andò a dormire, la quercia gli apparve in sogno, e gli disse: «Perché mi paragoni agli alberi di campo, come biancospini, peri, aranci e meli, e a tutti gli altri che producono frutti? Ancor prima che possano maturare i loro frutti, gli uomini li aggrediscono e li violentano. I loro rami vengono spezzati, le loro fronde strappate. I loro doni procurano il loro danno, ed essi non possono condurre a termine la loro naturale esistenza. È un fatto che si verifica dovunque, ed e per questo che da tempo ho imparato a essere completamente inutile. Povero mortale! Credi che, se fossi stata utile a modo tuo, avrei potuto raggiungere questa altezza? Senza dire che, io e tu, siamo entrambi creature? come può credere una cosa creata di essere in grado di giudicarne un’altra? Tu, inutile mortale, cosa sai tu degli alberi inutili?»
Il falegname si svegliò, e meditò sul sogno; e in seguito, quando il garzone gli chiese perché mai proprio quell’albero servisse a proteggere l’altare agreste, rispose: «Taci! Non ne parlare più! L’albero è cresciuto qui, perché, in qualsiasi altro luogo, gli uomini lo avrebbero maltrattato. Se non fosse stato l’albero dell’altare, avrebbe potuto venire abbattuto».5
Il falegname, evidentemente, aveva compreso il sogno. Egli comprese che adempiere fino in fondo il proprio destino è il più grande risultato che l’uomo possa conseguire, e che le nostre nozioni utilitaristiche devono cedere alle esigenze della psiche inconscia. Traducendo questa metafora in linguaggio psicologico, diremo che l’albero simbolizza lo sviluppo interiore, ed ammaestra il nostro sprovveduto ego.6
Sotto l’albero che aveva adempiuto il proprio destino c’era, secondo il racconto di Chuang-Tzu, un altare agreste. Si tratta di una pietra grezza, non lavorata, sulla quale si compivano sacrifici in onore del dio locale,7 che «reggeva» quello spazio di terra. Il simbolo dell’altare agreste indica il fatto che, per realizzare il processo di individuazione, ci si deve consapevolmente arrendere alla forza dell’inconscio, invece di misurare la nostra attività nei termini dei comuni criteri utilitaristici. Non si deve fare altro che ascoltare, per sapere ciò che la totalità interiore – il sé – vuole che si faccia hic et nunc, in una particolare situazione.
Il nostro atteggiamento deve essere simile a quello del pino di montagna, di cui abbiamo già detto: esso non si irrita quando il suo sviluppo è ostacolato da una pietra, né pianifica i modi in cui potrà aver ragione degli ostacoli; cerca solo di avvertire se debba crescere in una direzione piuttosto che in un’altra, nel senso della pendenza, o nel senso contrario. Come l’albero, dobbiamo cedere a questo quasi impercettibile, ma poderoso impulso – un impulso che deriva dalla tendenza all’unica, creativa autorealizzazione. E si tratta di un processo nel corso del quale si devono spesso ricercare soluzioni a problemi che sono ignoti a qualsiasi altro soggetto. Gli impulsi direttivi provengono non dall’ego, ma dalla totalità della psiche: il sé.
È inutile, inoltre, spiare furtivamente gli altri, per individuare il modo in cui si sviluppano le varie personalità, perché ciascuno si trova davanti un compito di autorealizzazione che presenta caratteri di unicità. Se molti problemi umani sono simili, non sono mai identici. Tutti i pini si assomigliano (altrimenti non li potremmo classificare come pini), ma nessuno è esattamente simile a un altro. Proprio per l’incidenza di questi fattori di similitudine e differenza, è diffìcile schematizzare le infinite possibilità di variazione del processo di individuazione.8 Il fatto è che ciascuno di noi deve fare qualche cosa di diverso, qualche cosa di assolutamente privato e personale.
Molti hanno criticato la posizione di Jung, sotto il profilo che essa non presenta il materiale psichico in modo sistematico. Ma queste critiche trascurano il fatto che quel materiale è un’esperienza viva fermentata dall’emozione, per natura irrazionale e mutevole, che non si adatta se non superficialmente alle strettoie sistematiche. La moderna psicologia del profondo ha, a questo punto, toccato gli stessi limiti che sbarrano la via alla microfisica. Cioè, quando si ha a che fare con dati statistici, una descrizione razionale e sistematica è sempre possibile. Ma quando si cerca di descrivere un singolo evento psichico, non possiamo fare altro che presentarne una onesta raffigurazione dal maggior numero possibile di punti di vista. Analogamente, gli scienziati devono ammettere di non sapere che cosa è la luce. Possono solo dire che, in certe condizioni sperimentali, essa sembra costituita da particelle, mentre in altre condizioni sembra composta da onde. Ma che cosa essa sia «in sé» è ignoto. La psicologia dell’inconscio, e qualsiasi descrizione del processo di individuazione, incontrano analoghe difficoltà di definizione. Cercherò tuttavia di delinearne alcuni degli aspetti più tipici.
La prima manifestazione dell’ inconscio
Per molti gli anni dell’adolescenza sono caratterizzati da uno stato di graduale risveglio, nel corso del quale l’individuo acquista coscienza di sé e del mondo. La fanciullezza è un periodo di grande intensità emozionale, e i primi sogni della fanciullezza manifestano spesso in forma simbolica la struttura fondamentale della psiche, indicando in che modo essa plasmerà in seguito il destino del soggetto. Per esempio, Jung parlò una volta, a un gruppo di studenti, di una ragazza tanto oppressa dall’angoscia che si suicidò quando aveva appena ventisei anni. Costei, da piccola, aveva sognato che «Jack Frost» era entrato nella sua cameretta, mentre essa stava dormendo, e le aveva premuto una mano sullo stomaco. Svegliatasi, scoprì che era stata lei stessa a premersi lo stomaco con le proprie mani. Il sogno non la spaventò; anzi, si ricordava appena, in seguito, di avere avuto un simile sogno. Ma il fatto che essa non reagisse emotivamente al suo strano incontro con il demone del freddo – della vita congelata – non era di buon auspicio per il futuro, ed era indice di anormalità. Fu con una mano fredda e priva di sensibilità che essa pose fine alla sua vita. Da questo solo sogno era possibile desumere il tragico destino della sognante, anticipato dalla sua psiche nel periodo della fanciullezza.9
Talvolta non è un sogno, ma qualche evento reale particolarmente impressionante che, come una profezia, anticipa il futuro in forma simbolica. È noto che i fanciulli spesso si dimenticano di avvenimenti che agli adulti sembrano importanti, ma conservano una memoria vivida di incidenti o avvenimenti che per altri passano inosservati. Quando si consideri uno di questi ricordi della fanciullezza, si constata sempre che esso raffigura (se lo si interpreta simbolicamente) un problema fondamentale dello sviluppo psichico del fanciullo.
Quando un fanciullo raggiunge l’età di andare a scuola, inizia la fase costruttiva dell’ego, la fase dell’adattamento al mondo esteriore. Questa fase, in genere, comporta una serie di dolorosi turbamenti. Al contempo, alcuni fanciulli incominciano a sentirsi diversi dagli altri, e questo sentimento determina una certa tristezza, che è un elemento caratteristico della solitudine di tanti ragazzi. Le imperfezioni del mondo, il male che ognuno porta in sé, e il male del mondo assurgono al ruolo di problemi consapevolmente posti; il fanciullo deve cercare di contrastare urgenti impulsi intimi (non ancora ben compresi), e le esigenze del mondo esteriore.
Se lo sviluppo della coscienza è turbato nel suo svolgimento, i fanciulli, davanti alle difficoltà intime o esterne, si ritirano in una loro privata «fortezza»; e, quando ciò capita, i loro sogni, e i disegni simbolici del materiale inconscio rivelano, in misura insolita, il ricorrere di un motivo di tipo circolare, quadrangolare e «nucleare» (sul punto ci soffermeremo in seguito). Questo ci rinvia al nucleo psichico di cui dicevo più sopra, il centro vitale della personalità, da cui origina il complesso sviluppo strutturale della coscienza. È naturale che l’immagine di quel centro si manifesti in modo particolarmente impressionante quando la vita psichica dell’individuo è minacciata. Da tale nucleo centrale (per quel che a tutt’oggi ne sappiamo) viene diretta la fase costruttiva della coscienza dell’ego, il quale, evidentemente, è un doppione, o un pendant strutturale del centro originario.
In questa prima fase molti fanciulli cercano con serietà un significato della vita che possa aiutarli a fronteggiare il caos che trovano dentro e fuori di sé. Altri, invece, sono ancora inconsapevolmente guidati dal dinamismo degli schemi archetipi ereditari e istintivi. A questi giovani non interessa il senso più profondo della vita, perché le loro esperienze in materia di amore, di sport e lavoro contengono un significato che li soddisfa immediatamente. Non è che essi siano, di necessità, più superficiali; di solito si muovono, nella corrente della vita, con minori difficoltà e imbarazzi dei loro compagni dal carattere maggiormente introspettivo. Se viaggio in treno senza guardare fuori del finestrino, sono solo le fermate e le partenze e gli improvvisi mutamenti di direzione che mi fanno capire che sto muovendomi.
II vero processo di individuazione, la presa consapevole di contatto con il proprio centro interiore (nucleo psichico) o sé,10 inizia generalmente con una lacerazione della personalità e con la sofferenza che ne consegue. Questo turbamento iniziale costituisce una sorta di «chiamata», sebbene non sempre ci si renda conto di ciò. Al contrario, l’ego si sente colpito nella sua volontà o nei suoi desideri, e di solito proietta l’ostacolo nell’ambiente esterno. Cioè, l’ego accusa Dio o la situazione economica, o il coniuge, e accolla a essi la responsabilità di ciò che lo contrasta.
O può darsi che, se visto dall’esterno, il soggetto presenti un aspetto sereno, mentre, sotto la superficie, soffre di una noia mortale, che rende tutto vuoto e privo di senso. Molti miti e racconti di fate descrivono simbolicamente questo grado iniziale del processo di individuazione, quando parlano di un re che si ammala o diviene vecchio. Altri schemi di storie familiari sono nel senso che una coppia regale è sterile; o che un mostro porta via dal regno tutte le donne, i bambini, i cavalli, in genere tutta la ricchezza; o che un demone impedisce all’esercito o alla nave del re di proseguire verso la meta; o che l’oscurità si estende sul regno, le fonti si seccano, gelo, inondazioni o siccità affliggono il paese.” Sembra così che il primo contatto con il sé proietti nel tempo un’ombra scura, o che 1’«amico interiore» si manifesti, inizialmente, come un cacciatore che sorprenda, nel suo nido, l’ego, e lo impegni a una lotta disperata.
Nei miti si trova spesso che il potere magico, o il talismano, che possono porre rimedio alle sventure che affliggono il re, o il paese, si rivelano sempre elementi del tutto peculiari. In un racconto, a far recuperare la salute del re occorre un «merlo bianco», o «un pesce con un anello d’oro infilato nelle branchie». In un altro, il re vuole 1’«acqua di vita», o «tre capelli d’oro della testa del diavolo», o la «treccia d’oro di una donna» (e in seguito, naturalmente, anche la proprietaria della treccia). Qualunque cosa sia, il rimedio capace di eliminare il male e l’angoscia è sempre qualche cosa di unico, di difficile da trovare.
È esattamente lo stesso per quanto riguarda la crisi iniziale della vita individuale. Si cerca qualche cosa che è impossibile trovare, o di cui non si sa assolutamente niente. In queste circostanze sono completamente inutili i consigli saggi e bene intenzionati – consigli volti a fare assumere al soggetto le proprie responsabilità, o a fargli prendere una vacanza, consigli di non lavorare troppo (o di lavorare di più), di cercare più (o meno) rapporti umani, di dedicarsi a un hobby. Niente di tutto ciò può essere, in genere, di aiuto. Una sola cosa sembra veramente utile: volgersi direttamente, senza pregiudizi e con piena sincerità, verso l’oscurità che si approssima, e cercare di scoprirne il segreto e quello che pretende da noi.
Il fine recondito dell’oscurità incombente è in genere tanto insolito, così straordinario e imprevedibile, che di solito si può individuarlo solo tramite i sogni e le fantasie che sgorgano dall’inconscio. Se si centra l’attenzione sull’inconscio, senza avventate supposizioni e refusi emozionali, esso precipita in una corrente di utilissime immagini simboliche. Ma non sempre. Talvolta esso presenta una serie di dolorose raffigurazioni di ciò che non funziona nel soggetto e nei suoi atteggiamenti coscienti. Allora, l’individuo deve iniziare il processo «inghiottendo» ogni sorta di amare verità.
Il contatto con l’ombra
Si riveli per la prima volta l’inconscio in forma positiva o negativa, dopo un certo tempo si manifesta l’esigenza di riadattare più opportunamente l’atteggiamento cosciente ai fattori inconsci, quindi di accettare quelle che possono chiamarsi le «critiche» dell’inconscio. Attraverso i sogni si acquista coscienza degli aspetti della propria personalità che, per varie ragioni, non si desidera di conoscere direttamente troppo da vicino. Questo è ciò che Jung definisce «la coscienza dell’ombra» (Jung usa il termine «ombra» per indicare questa parte inconscia della personalità, perché effettivamente essa si manifesta spesso nei sogni in forma personalizzata.) 12
L’ombra non costituisce peraltro tutta la personalità inconscia. Essa rappresenta attribuzioni e qualità ignote, o poco note, dell’ego – aspetti che appartengono, essenzialmen
te, alla sfera personale, e che potrebbero senz’altro divenire coscienti. Da un certo punto di vista, l’ombra può anche essere costituita da fattori collettivi che hanno origine da una sorgente che si situa all’esterno della vita personale del soggetto.
Quando un soggetto tenta di individuare la sua «ombra», acquista coscienza (e spesso se ne vergogna) di quelle qualità e di quegli impulsi che nega in se stesso, ma che può agevolmente scorgere negli altri, – aspetti come l’egotismo, la pigrizia mentale, la sciatteria; fantasie irreali, schemi, trame; mancanza di profondità, viltà; amore disordinato del denaro, o della proprietà – in breve, di tutti quei piccoli peccati dei quali può essersi detto, in precedenza, «non importa, nessuno se ne accorgerà, e in ogni caso anche gli altri fanno così».
Se si avverte montare una rabbia soverchiante, quando un amico ci rimprovera di qualche colpa, si può esser certi che a questo punto ci si imbatte in qualche elemento della nostra ombra, di cui non siamo consapevoli. È del tutto naturale seccarsi quando gli altri, che non sono «migliori di noi», ci criticano per colpe che originano dalla nostra ombra. Ma che cosa si può fare, quando a riprenderci sono i nostri sogni – un giudice che risiede dentro di noi? È il momento in cui l’ego viene assoggettato e il risultato è, in genere, un silenzio imbarazzato. In seguito inizia l’opera dolorosa e lenta dell’autoeducazione – un’opera, si potrebbe dire, che è il corrispondente psicologico delle fatiche di Ercole. Il primo incarico affidato a questo sfortunato eroe, come vi ricorderete, fu quello di ripulire in un sol giorno le stalle di Augia, nelle quali si era ammonticchiato, per molte decine di giorni, il letame di centinaia di cavalli – un compito così imponente, che il mortale comune si sentirebbe sopraffatto dallo scoraggiamento solo a pensarci.
Ma l’ombra non presenta solo aspetti omissivi. Spesso essa si rivela in un atto impulsivo o involontario. Prima ancora che si possa rifletterci, la cattiva osservazione è già stata fatta, il complotto è stato ordito, la decisione iniqua è stata presa, e ci si trova davanti a risultati che non si sono mai consapevolmente voluti. Inoltre, l’ombra è esposta alle influenze della collettività in misura molto più notevole di quanto non lo sia la personalità cosciente. Quando un uomo è solo, per esempio, egli avverte che tutto va relativamente bene; ma, appena gli «altri» compiono atti di carattere involutivo e primitivo, egli incomincia a credere che, se non si unisce a loro, sarà ritenuto uno sciocco. Così, egli libera impulsi che non gli sono affatto propri. È particolarmente nei contatti con soggetti dello stesso nostro sesso, che ci si rivela così la nostra ombra come quella degli altri. Sebbene si riesca a scorgere l’ombra in una persona dell’altro sesso, ne siamo sempre seccati in misura minore, e siamo disposti a chiudere un occhio.
Nei miti e nei racconti, dunque, l’ombra si manifesta sotto le vesti di una persona dello stesso sesso del sognante. Il sogno seguente può servire da esempio. Il soggetto era un uomo di 48 anni, che cercava di vivere da solo, lavorando sodo e imponendosi una dura disciplina, reprimendo gli istinti e il richiamo del piacere più di quanto non convenisse alla sua natura.
Abitavo in città, in una casa di mia proprietà, della quale non conoscevo ancora tutte le parti. Così la visitai, e scoprii, soprattutto nel sottosuolo, varie stanze delle quali non sapevo niente, e anche certe porte, che conducevano in altre cantine e in passaggi sotterranei. Mi sentii a disagio quando mi accorsi che molte di quelle porte non erano chiuse, e alcune non avevano neppure la serratura. Per di più, c’erano alcuni operai che lavoravano nelle vicinanze, e che avrebbero potuto introdursi facilmente in casa mia […].
Quando risalii al piano terreno, passai attraverso un cortile, nel quale scorsi diverse porte, che immettevano nella strada o in altre case. Quando mi accinsi a esaminarle più da vicino, mi venne incontro un tale che, ridendo, mi disse che eravamo vecchi compagni delle elementari. Anch’io mi ricordai di lui, e, mentre mi parlava della moglie, ci avviammo verso l’uscita, e ci mettemmo a camminare per le strade.
C’era una strana, tenue oscurità nell’aria mentre passeggiavamo per una enorme strada circolare. Arrivammo a una prateria erbosa, dove tre cavalli galoppanti ci passarono accanto. Erano belli, forti, selvaggi, ma ben strigliati, e non portavano cavalieri (erano fuggiti da qualche reparto dell’esercito?).
L’intrico di strani corridoi, di stanze e di porte aperte nel sottosuolo, ci richiama alla mente l’antica configurazione egiziana del mondo sotterraneo, che è un noto simbolo dell’inconscio e delle sue ignote possibilità.13 Esso dimostra anche come la nostra ombra inconscia sia «aperta» alla influenza altrui, e come possano irrompervi elementi ignoti ed estranei. Il sottosuolo, si potrebbe dire, rappresenta le fondamenta della psiche del sognante. Nel cortile dello strano edificio (che simboleggia lo scopo tuttora ignoto della personalità del sognante), arriva all’improvviso un vecchio compagno di scuola. Costui, come è ovvio, personifica un altro aspetto proprio della psiche dello stesso sognante, un aspetto, un carattere che era stato tipico della sua vita di fanciullo, ma che in seguito era stato dimenticato e perduto. Capita spesso che le qualità che si manifestano nell’infanzia di un soggetto (per esempio, la gaiezza, l’irascibilità, la fiducia) vengano meno tutto a un tratto, né si sa dove o come siano sparite. Si tratta proprio di una delle caratteristiche smarrite del sognante, che ricompare (nel cortile), e cerca di riconquistare il posto perduto. Questa figura simboleggia probabilmente la obliata capacità del sognante di godere la vita, e il lato estroverso della sua ombra.
Ma abbiamo già visto perché il sognante si sente «a disagio» proprio un attimo prima di incontrare questo vecchio compagno, apparentemente privo di affanni. Mentre passeggia con costui, ecco che irrompono liberamente i cavalli al galoppo. Il sognante pensa che essi siano fuggiti da un reparto militare (cioè, dalla stretta disciplina che aveva caratterizzato fino allora la sua vita). Il fatto che questi cavalli non portino cavalieri, dimostra che le energie istintive possono sfuggire al controllo della coscienza. Nel vecchio compagno e nei cavalli si manifesta la forza positiva, mancata fino allora, della quale il soggetto avvertiva confusamente il bisogno.
Questo è un problema che si presenta spesso quando ci si imbatte nell’«altro aspetto» della nostra personalità. L’ombra, di solito, contiene dei valori di cui la coscienza avverte il bisogno, ma che esistono in forma tale da renderne estremamente problematico il recupero nella nostra vita. I corridoi e la grande casa del sogno dimostrano ancora che il sognante non conosce le sue reali dimensioni psichiche, e non riesce ancora ad ampliarle.
L’ombra, in questo sogno, è l’ombra tipica di un soggetto introverso (un uomo che tende a ritirarsi eccessivamente dalla vita esteriore). Nel caso di un estroverso, invece, che si proietta maggiormente nella direzione degli oggetti della vita esterna, l’ombra avrebbe avuto un carattere del tutto diverso.
Un giovane, dal carattere molto vivace, aveva portato a termine con successo molte iniziative, mentre, al contempo, i suoi sogni insistevano sulla circostanza che egli doveva completare un lavoro, di ordine creativo, che aveva iniziato. Ecco uno di questi sogni.
Un uomo giace sul letto, e si è tirato sul viso la coperta. È un francese, un desperado capace di ogni crimine. Un agente mi fa scendere al piano terra, e so che un complotto è stato ordito ai miei danni: il francese mi deve uccidere, facendo poi apparire la cosa come dovuta al caso (così almeno dovrebbe sembrare). Effettivamente, egli scivola dietro a me come ci avviciniamo all’uscita, ma io sto in guardia. Un uomo alto, corpulento (dall’aspetto sembrerebbe molto facoltoso), all’improvviso si sente male, e si appoggia contro il muro, accanto a me. Subito colgo l’occasione per uccidere l’agente, colpendolo al cuore. «Si osserva soltanto un getto di vapore», viene detto a commento. Sono in salvo, perché il francese non mi assalirà più, ora che è morto chi gli impartiva gli ordini (probabilmente l’agente e l’uomo corpulento sono la stessa persona, visto che il secondo ha la funzione di rimpiazzare il primo).
Il desperado rappresenta l’«altro aspetto» del sognante, la sua introversione, che è stata completamente trascurata. Giace sul letto (cioè, ha un carattere passivo) e si tiene la coperta sul viso, perché vuole essere lasciato solo. L’agente, d’altra parte, e l’uomo corpulento e facoltoso (che sono arcanamente la stessa persona) rappresentano la condizione e- steriore del soggetto, le sue attività e il suo successo. L’improvviso malessere dell’uomo corpulento è connesso con il fatto che il sognante si era effettivamente ammalato tutte le volte che aveva consentito alla sua energia dinamica di espandersi troppo impetuosamente nella sua vita esteriore. Ma questo uomo di successo non aveva sangue nelle vene – solo una specie di vapore, e questo significa che quelle ambiziose attività del sognante sono prive di vita e di passione, sono attività meccaniche e senza nerbo. Così, la morte dell’uomo corpulento lascia tutti indifferenti. Alla fine del sogno, il francese è soddisfatto; egli manifestamente rappresenta un aspetto positivo dell’ombra, che ha acquistato un carattere negativo e pericoloso solo perché l’atteggiamento conscio del sognante non concordava con esso.
Questo sogno ci dimostra che l’ombra può essere costituita da svariati elementi – per esempio, da elementi di ambizione inconscia (l’uomo corpulento), e di introversione (il francese). La particolare associazione del sognante col francese era nel senso che essi sapevano trattare assai bene i loro affari amorosi. Così, le due raffigurazioni dell’ombra rappresentano due moventi ben noti: il potere e il sesso. Il movente del potere si manifesta momentaneamente in duplice forma, nelle due figure dell’agente e dell’uomo di successo. L’agente simboleggia l’adattamento collettivo, laddove l’uomo di successo significa l’ambizione; ma, naturalmente, l’uno e l’altro sono manifestazioni del movente del potere. Quando al sognante riesce di paralizzare questa pericolosa forza interna, il francese non si mostra più ostile. In altre parole, è venuto meno anche l’aspetto, altrettanto pericoloso, del movente del sesso.
Come è ovvio, il problema dell’ombra gioca un ruolo importante in tutte le controversie politiche. Se il giovane che ha fatto questo sogno non fosse stato sensibile ai problemi posti dalla sua «ombra», avrebbe potuto facilmente identificare il desperado francese con i «pericolosi comunisti» della vita di ogni giorno, o l’agente e il signore facoltoso con gli «avidi capitalisti». In tal modo, non sarebbe riuscito a comprendere che portava in sé quegli elementi contrastanti. Quando si osservano in altri le nostre tendenze inconsce, si ha il fenomeno che si definisce «proiezione».’4 L’attività di agitazione politica, in ogni continente, è ricca di tali proiezioni, proprio come il pettegolezzo delle donnette, o di piccoli gruppi o congreghe. Proiezioni di ogni tipo ostacolano la nostra comprensione degli altri, allontanandoci dalla obiettività, e quindi da qualsiasi possibilità di veri rapporti umani.
Ma la proiezione dell’ombra comporta un altro inconveniente. Se, per esempio, si identifica la nostra ombra con i comunisti, o con i capitalisti, una parte della nostra personalità resta, per così dire, scissa e distinta da noi. Il risultato è che di solito, se pure involontariamente, si compiono azioni contrastanti con la linea di condotta che intendiamo seguire, cedendo alle richieste della nostra personalità scissa; e così, poco saggiamente, si finisce per giovare ai nostri avversari. Se, al contrario, ci si rende conto della proiezione, e si possono discutere i vari problemi senza timore e ostilità, trattando il contendente con sensibilità, è possibile raggiungere una comprensione reciproca, o, quanto meno, un terreno di compromesso.
Il fatto che l’ombra assuma, nei nostri confronti, un atteggiamento ostile o amichevole dipende, in larga misura, da noi. Come dimostrano i sogni che abbiamo riferito, della casa sconosciuta e del desperado francese, l’ombra non si colloca sempre su un piano di ostilità. In effetti, essa è né più né meno che simile a un altro essere umano, con il quale dobbiamo compiere il cammino, talvolta cedendo alle sue pretese, talvolta resistendogli, talvolta facendolo oggetto del nostro amore, a seconda delle circostanze. L’ombra è ostile solo quando sia ignorata o misconosciuta.
Certe volte, anche se raramente, il soggetto si sente spinto a esprimere il lato peggiore della propria natura, e a comprimerne il migliore. In questi casi, l’ombra si manifesta nei suoi sogni come una figura positiva. Ma, a coloro che danno libero sfogo ai propri sentimenti e alle proprie emozioni naturali, l’ombra si presenta sotto l’aspetto di un intellettuale dal carattere freddo e negativo; essa dà, così, vita a giudizi di riprovazione e a pensieri critici che sono stati respinti dalla coscienza del soggetto. In tal modo, in qualunque forma essa si manifesti, la funzione dell’ombra è quella di rappresentare l’aspetto dialetticamente contrario all’ego, e di originare quegli stati qualitativi che più si disapprovano negli altri.
Il nostro compito sarebbe relativamente facile, se si potesse integrare l’ombra nella personalità cosciente semplicemente agendo onestamente e riferendosi alle proprie convinzioni. Purtroppo, un tentativo del genere non riesce spesso. Nell’ombra di ciascuno esiste una tale carica passionale, che la ragione non può prevalere su di essa. Può essere di ausilio qualche amara esperienza di origine esterna; per così dire, è necessario che ci cada un mattone sulla testa, perché si possa riuscire ad arginare impulsi e tendenze dell’ombra. Talvolta, può conseguire questo risultato una decisione eroica, ma un simile sforzo sovrumano è possibile solo se il «grande uomo» che vive dentro di noi (il sé) ci aiuta a sostenerlo.
Il fatto che l’ombra eserciti il potere soverchiante di irresistibili impulsi, non significa, tuttavia, che quelle tendenze debbano venir sempre eroicamente represse. Talvolta l’ombra è potente perché la pressione del sé si esercita nella stessa direzione, sicché è difficile appurare se è il sé o l’ombra che si manifesta dietro quella tendenza interiore. L’inconscio, purtroppo, è come un paesaggio illuminato dalla luna: i suoi elementi sono indistinti e fusi l’uno nell’altro, e non si sa mai esattamente dove abbiano inizio e dove si concludano (si parla di «contaminazione» dei contenuti inconsci).
Quando Jung definisce «ombra» un aspetto della personalità inconscia, si riferisce a un fattore relativamente ben definito. Ma talvolta tutto ciò che viene conosciuto dall’ego è frammisto a elementi tipici dell’ombra, comprese anche le forze e le tendenze più valide e di carattere più alto. Ad esempio, chi potrebbe essere certo che il desperado francese del sogno ricordato fosse un vagabondo inetto e non piuttosto un introverso degno di rispetto? E i cavalli irrompenti nell’altro sogno, sarebbero stati lasciati liberi di galoppare o no? Nel caso in cui non sia il sogno a chiarire il problema, sarà la personalità conscia che dovrà prendere una decisione.
Se la figura espressa dall’ombra è caratterizzata da forze e tendenze vitali, queste dovrebbero venire assunte nell’esperienza effettiva, e non represse. Tocca allora all’ego di rinunciare al proprio orgoglio e alle proprie presunzioni, e di dare espressione a una forza che può sembrare, ma non è, ambigua o pericolosa. Ciò può richiedere un sacrificio eroico, del tipo di quelli che occorrono per domare una passione, ma in un senso del tutto opposto.
Le difficoltà che insorgono quando si entra in contatto con la propria ombra, sono efficacemente descritte nel 18° capitolo del Corano}5 In esso si dice dell’incontro nel deserto fra Mosè e Khidr (1’«essere verde», o «il primo angelo di Dio»). Essi procedono insieme, e Khidr esprime il proprio timore che Mosè non riesca ad assistere senza indignarsi alle sue imprese. Se Mosè non riuscirà a tollerarlo, e ad aver fiducia in lui, Khidr lo dovrà abbandonare.
Per prima cosa, Khidr sfonda la barca di certi poveri pescatori. Quindi, davanti agli occhi di Mosè, uccide un bel ragazzo, e infine restaura le mura rovinate di una città di infedeli. Prima di lasciare Mosè, comunque, gli spiega le ragioni dei suoi atti: sfondando la barca dei pescatori, egli in realtà l’ha salvata, perché i pirati erano in attesa al largo per assalirla. Così come è ora, i pescatori potranno ripararla. Il bel ragazzo stava andando a commettere un delitto, e, uccidendolo, Khidr ha preservato dall’infamia i suoi pii genitori. Il restauro delle mura, infine, è valso a salvare dalla rovina economica due giovani, il cui tesoro era rimasto sepolto sotto di esse. Mosè, che era rimasto indignato davanti alle azioni di Khidr, comprese (quando era troppo tardi) che il suo giudizio era stato affrettato. Le azioni di Khidr gli erano sembrate totalmente malvage, ma, in effetti, non lo erano.
Esaminando con una certa ingenuità questo racconto, si potrebbe supporre che Khidr sia l’ombra, irrazionale e capricciosa, del pio Mosè, osservante della legge. Ma non è così. Khidr è piuttosto la personificazione di arcane azioni creative della mente divina (si può trovare un significato analogo nel famoso racconto indiano «il re e il cadavere», nella interpretazione che ne dà Henry Zimmer).16 Non è per caso che non sono ricorso a un sogno per chiarire questo arduo problema. Ho scelto il notissimo racconto del Corano perché in esso è sintetizzata l’esperienza di una intera vita, con tale chiarezza quale ben raramente si potrebbe riscontrare nel sogno di un singolo soggetto.
Quando nei nostri sogni si manifestano figure ambigue, e ci sembra che pretendano qualche cosa da noi, non possiamo sapere se esse rappresentino la nostra ombra, o il sé, o l’una e l’altro al contempo. Sapere in anticipo se il misterioso compagno dei nostri sogni rappresenti un difetto che si deve vincere, o un significativo elemento vitale che si deve accettare – ecco uno dei problemi più ardui che si presentano nello studio del processo di individuazione. Inoltre, i simboli onirici sono spesso così incerti e complessi, che non si può mai essere sicuri della loro interpretazione. In tali circostanze, non resta altra soluzione che accettare il disagio del dubbio etico – senza prendere decisioni o impegni definitivi, e continuando a esaminare attentamente i propri sogni. C’è, in questo, una strana rassomiglianza con la situazione in cui venne a trovarsi Cenerentola, quando la matrigna le pose davanti un mucchio di piselli, e le ordinò di separare quelli buoni da quelli inutilizzabili. Sebbene il compito potesse sembrare disperato, Cenerentola incominciò pazientemente a scegliere i piselli, e a un tratto le vennero in aiuto le colombe (o, secondo altre versioni, le formiche). Questi animaletti simboleggiano i benefìci impulsi dell’inconscio profondo, che si possono sperimentare solo sulla propria pelle, per così dire, e che ci indicano una soluzione per i nostri problemi.
Talvolta capita che si senta, nella profondità del proprio essere, quello che si deve fare e secondo quali vie si deve procedere. Ma, altre volte, il clown che chiamiamo «io» si comporta in maniera tanto stravagante che la voce interna non può avvertire la sua presenza.
Può accadere che falliscano tutti i tentativi per comprendere i suggerimenti dell’inconscio, e, quando si verifica un simile caso, non ci resta che assumere le nostre responsabilità e fare quello che ci sembra più giusto, pronti a mutare l’indirizzo della nostra attività, se ci accorgiamo che i suggerimenti dell’inconscio tendono verso un’altra direzione. Può anche accadere (se pure più di rado) che si ritenga miglior soluzione resistere all’impulso dell’inconscio, anche a costo di sentirsi affranti, piuttosto che allontanarsi di troppo dalla condizione normale degli esseri umani. (Tale potrebbe essere la situazione di coloro che devono svolgere imprese criminali per realizzare appieno la propria personalità.)
La forza e la chiarezza interiore di cui l’ego necessita per poter prendere una simile decisione derivano, per canali segreti, dal «grande uomo», il quale, evidentemente, non tiene a manifestarsi in maniera diretta. Può essere che sia il sé a pretendere che l’io compia una libera scelta, o può anche essere che il sé dipenda interamente dalla coscienza dell’uomo, e dalla decisione di questi di renderlo manifesto. Quando si devono superare problemi etici di tale gravità, non è possibile giudicare rettamente l’operato degli altri. Ciascuno deve affrontare i propri problemi, t stabilire quale sia la soluzione migliore nel proprio caso. Come diceva un vecchio maestro Zen, dobbiamo seguire l’esempio del mandriano, che «con il bastone impedisce che il suo bue vada a pascolare nei prati del vicino».”
Queste nuove acquisizioni della psicologia del profondo determineranno probabilmente importanti modificazioni nei nostri comuni criteri di valutazione etica; perché, in forza di esse, ci troviamo costretti a giudicare le azioni umane secondo schemi dal carattere molto più sotile e individualistico. L’individuazione dell’inconscio è una delle scoperte più ricche di conseguenze dei nostri tempi. Ma poiché l’individuazione di questa realtà comporta la necessità di una onesta autocritica, e di una generale riorganizzazione della propria vita, molti continuano a comportarsi come se niente fosse accaduto. Ci vuole molto coraggio per affrontare seriamente l’inconscio, e i problemi che esso pone. Per lo più, gli uomini sono troppo indolenti per impegnarsi profondamente nell’esame anche solo di quegli aspetti morali del loro comportamento, dei quali hanno consapevolezza; a maggior ragione è ovvio che trascurino l’incidenza su essi dell’inconscio.
L’anima: la donna dentro di noi
Non è solo il manifestarsi dell’«ombra» che determina l’insorgenza di ardui e sottili problemi etici. Spesso si avverte la presenza di un altro «elemento interiore». Se il sognante è un uomo, questi individuerà nel proprio inconscio un elemento simbolico femminile; se una donna, un elemento dalle caratteristiche maschili. Spesso questo elemento si confonde con l’ombra, provocando nuovi e svariati problemi. Jung denominò animus e anima i due elementi, rispettivamente maschile e femminile.
L’anima è la personificazione di tutte le tendenze psicologiche femminili della psiche dell’uomo, cioè sentimenti e atteggiamenti vaghi e imprecisi, presentimenti, la ricettività dell’irrazionale, l’ahiore di sé, il sentimento della natura, e l’atteggiamento nei confronti dell’inconscio. Non è per caso che nell’antichità spettava a sacerdotesse (come la sibilla dei Greci) l’incombenza di penetrare la volontà divina, e di istituire rapporti con gli dèi.18
Un esempio particolarmente calzante del modo in cui l’anima si manifesta come una figura interiore della psiche dell’uomo è fornito dai medici-profeti (shaman) delle tribù eschimesi e di altre tribù artiche.19 Taluni di costoro indossano indumenti femminili, o si dipingono il petto o le vesti, proprio per esprimere il loro intimo carattere femminile – quel carattere che fa sì che essi possano comunicare con la «terra dei fantasmi» (cioè con l’inconscio, come noi lo chiamiamo)
In un caso di cui siamo informati, un giovane, che veniva iniziato da uno sciamano, fu da questi seppellito in una fossa di neve. Il giovane cadde in uno stato onirico di esaurimento pressoché totale. Nel coma gli apparve all’improvviso una donna luminosa. Costei gli insegnò tutto ciò che al giovane interessava sapere e in seguito, in veste di spirito tutelare, lo protesse nell’espletamento della sua diffìcile professione, mettendolo in contatto con le forze dell’ai di là. Questa esperienza ci presenta appunto l’anima come personificazione dell’inconscio dell’uomo.
Nelle sue manifestazioni individuali, il carattere dell’anima deve la sua particolare struttura alla madre di ciascun soggetto. Se il soggetto ritiene che la propria madre abbia su lui una influenza negativa, la sua «anima» si esprimerà spesso secondo atteggiamenti di irritazione, incertezza, insicurezza, emotività. (Ma, se riesce a respingere gli influssi negativi, quei caratteri possono anche valere a convalidare la sua vitalità.) In simili personalità, la figura negativa della madre-anima ripeterà senza sosta il proprio motivo: «Non sono niente, non valgo niente. Niente ha senso. Per gli altri è diverso, ma per me… Niente mi rallegra». Questi «atteggiamenti dell’anima» determinano una sorta di torpidità, un acuto timore della fatica, dell’impotenza, delle circostanze accidentali. Tutta la vita si colloca così in una dimensione tetra e oppressiva – e il soggetto può anche essere spinto al suicidio: in tal caso l’anima si manifesta come un demone di morte. Tale essa è presentata nel film Orphée di Cocteau.
I francesi chiamano femme fatale questa raffigurazione del- l’anima. (Una versione più mite di questo tenebroso elemento psichico è costituita dalla Regina della Notte del Flauto magico mozartiano.) Le sirene dei Greci e le Lorelei dei Germani, a loro volta, ancora personificano questo carattere pernicioso dell’anima che, in questa particolare forma, simbolizza l’illusione distruttiva. Il racconto siberiano che riproduciamo illustra appunto l’atteggiamento fondamentale dell’«anima distruttiva».^
Un giorno un cacciatore solitario scorge una bella donna che esce dal fondo della foresta, sull’altra riva del fiume. Essa lo saluta, e canta:
Oh vieni, cacciatore solitario, nell’immobilità del crepuscolo!
Vieni, vieni. Ho bisogno di te!
Ti abbraccerò, ti abbraccerò.
Vieni, vieni! Il mio nido è vicino, vicino.
Vieni, vieni, cacciatore solitario, nell’immobilità del crepuscolo.
II cacciatore si spoglia delle vesti e attraversa il fiume, ma essa vola via in forma di civetta, beffeggiandolo oscenamente. Il cacciatore cerca di tornare a riva per rivestirsi, ma annega nel fiume gelido.
In questo racconto l’anima è il simbolo di un sogno ideale di amore, di felicità, del desiderio di affetto materno (il nido) – un sogno che allontana gli uomini dalla realtà. Il cacciatore annega perché corre dietro a una fantasia irreale, che non avrebbe mai potuto realizzare.
L’anima negativa, nella personalità maschile, può manifestarsi anche nelle osservazioni velenose, donnesche, con le quali l’uomo svaluta qualsiasi aspetto della vita. Osservazioni di questo genere contengono sempre un carattere di gratuito pervertimento della verità, e hanno una natura sottilmente distruttiva. Certe leggende, proprie di varie parti del mondo, presentano la figura della «damigella-veleno» (come la chiamano in Oriente). Essa è una creatura bellissima che nasconde, sotto le vesti, armi o filtri segreti, con i quali uccide i suoi amanti nel corso della prima notte d’amore.21 In tal guisa, l’anima si manifesta fredda e impietosa come certi ignoti aspetti della natura, e in Europa trova espressione nella credenza delle streghe.
D’altra parte, se l’esperienza che il soggetto ha avuto della madre è positiva, la sua «anima» ne risente in modi tipici, ma vari, col risultato che egli acquista un carattere effeminato, o si perde con le donne, e diviene così incapace di fronteggiare le difficoltà della vita. Un’anima di questo tipo può fare degli uomini esseri sentimentali, o suscettibili come zitelle, o sensibili come la principessa della fiaba, che poteva avvertire un pisello nascosto sotto trenta materassi. Una rappresentazione ancor più sottile dell’anima negativa è contenuta in molte fiabe, le quali presentano una principessa che pone indovinelli ai suoi innamorati, o li obbliga a nascondersi sotto il suo naso. Se questi non sanno rispondere, o se essa riesce a trovarli, dovranno morire — e, invariabilmente, la principessa risulta vittoriosa.22 L’anima, in tal guisa, invischia gli uomini in un distruttivo gioco intellettuale. Possiamo avvertire l’effetto di questo inganno dell’anima in tutti quei dialoghi pseudo-intellettuali, dal carattere nevrotico, che impediscono all’uomo di affrontare adeguatamente la vita e i suoi nodi fondamentali. L’uomo, in tali casi, riflette tanto sulla vita che si preclude di viverla, e smarrisce la propria spontaneità e i propri sentimenti.
Ma l’anima si manifesta più di frequente nelle fantasie erotiche. Gli uomini possono essere spinti a nutrire le loro fantasie assistendo a film e a spettacoli di spogliarello, oppure perdendosi immaginativamente su fotografìe e materiali pornografici. Si tratta di un aspetto duro, primitivo, dell’anima, che assume un carattere compulsivo solo quando l’uomo non coltiva sufficientemente le sue relazioni sentimentali – quando il suo atteggiamento sentimentale nei confronti della vita è rimasto al livello infantile.
Tutti questi aspetti dell’anima rivelano la stessa tendenza, che abbiamo già individuata come tipica dell’ombra: essi possono, cioè, proiettarsi e oggettivarsi all’esterno in modo tale da apparire come qualità caratteristiche di una determinata donna. È la presenza operante dell’anima che fa sì che l’uomo si innamori all’improvviso, quando, vedendo una donna per la prima volta, si rende improvvisamente conto di aver trovato «la» donna. In tal caso, il soggetto ha l’impressione di aver conosciuto intimamente e da sempre quella donna; e la sua dedizione è tanto incondizionata da sfiorare, agli occhi di chi lo conosce, i limiti della follia totale. Sono specialmente le donne dal carattere di «fata» che incorporano queste proiezioni dell’anima, perché gli uomini possono attribuire pressoché tutte le qualità a una creatura dai contorni così affascinanti e indeterminati, e possono porla al centro delle più varie fantasie.
La proiezione dell’anima in una forma così improvvisa e appassionata come quella dell’amore, può essere fonte di gravi perturbamenti di unioni familiari, e determinare l’origine del cosiddetto «triangolo umano», con tutte le difficoltà che ne conseguono.23 L’unica soluzione decente del dramma può consistere solo nel riconoscimento dell’anima come forza interiore. L’intento segreto dell’inconscio, nel determinare l’insorgenza di una situazione tanto conturbante, è di costringere l’uomo a sviluppare e portare a maturazione la propria personalità, attraverso una più ampia integrazione, al livello della vita reale, degli elementi del proprio inconscio.24
Ma si è già detto abbastanza degli aspetti negativi dell’anima. Ce ne sono anche di positivi, e altrettanto importanti. Si deve attribuire all’anima, ad esempio, il fatto che taluno riesca a trovare la donna che fa per lui. E c’è un’altra funzione, almeno altrettanto importante, che l’anima adempie: quando la mentalità logica dell’uomo non riesce a individuare i fatti che restano occultati al livello dell’inconscio è l’anima che lo aiuta a precisarli e a riconoscerli. Ancor più importante è il ruolo che l’anima svolge sintonizzando, per dir così, la mente dell’uomo con i più vitali valori interiori, aprendo così la via verso la conoscenza delle profondità più recondite dell’inconscio. È come se una «radio» interiore venisse sintonizzata su una lunghezza d’onda tale che impedisse la ricezione di frivolezze, ma consentisse l’ascolto della voce del «grande uomo». Nel consentire la percezione di questa voce interiore l’anima assume il ruolo di guida, o di mediatrice, fra il mondo interiore e il sé. In tal guisa si manifesta nel caso della iniziazione degli sciamani, come abbiamo già visto; tale è il ruolo di Beatrice nel «Paradiso» di Dante, e della dea Iside, quale apparve ad Apuleio, il famoso autore dell’Asino d’oro, per iniziarlo a una forma di vita di ordine più elevato, più spirituale.
A comprendere in che modo l’anima possa svolgere il ruolo della guida interiore, può aiutarci il sogno di uno psicoterapeuta di 45 anni. Andando a letto, la sera in cui ebbe il sogno, costui rimuginava fra sé quanto è arduo superare da soli tutte le difficoltà della vita, senza l’ausilio di una fede religiosa. E si rendeva conto di invidiare coloro che sono protetti dall’abbraccio materno di una qualsiasi organizzazione. (Era, per nascita, protestante, ma non aveva più alcun legame con la sua Chiesa.) Ed ecco il sogno:
Mi trovo nella navata di una antichissima chiesa, affollata di fedeli. Insieme con mia madre e mia moglie mi siedo all’estremità della navata, su certe sedie speciali.
Sto per iniziare la celebrazione della Messa in veste di sacerdote, e ho in mano un grosso messale, o, meglio, un libro di preghiere, o una antologia poetica. Sono piuttosto eccitato, perché devo iniziare subito la celebrazione, mentre, ad aumentare il mio nervosismo, mia madre e mia moglie mi disturbano parlando di sciocchezze. A un tratto cessa il suono dell’organo. Tutti aspettano che dia inizio alla celebrazione, e io mi alzo con decisione e chiedo a una delle suore inginocchiate dietro di me di passarmi il suo messale e di indicarmi il punto da cui devo iniziare – ciò che essa fa in modo inappuntabile. Quindi, come una specie di chierico, questa stessa suora mi precede all’altare, che ho l’impressione sia situato dietro a me, sulla sinistra, come se ci si avvicinasse a esso da una navata laterale. Il messale è come un foglio ricco di disegni, una sorta di tavola lunga tre piedi, e larga uno, con il testo disposto a colonne, una accanto all’altra, e intervallato da antiche miniature.
La suora, prima che sia il mio turno, deve leggere un capitolo della liturgia, e io non sono ancora riuscito a trovare il punto giusto del libro. La suora mi ha detto che si tratta del n. 15, ma i numeri sono scritti confusamente, e insomma non mi riesce di trovarlo. Tuttavia mi volgo con decisione verso i fedeli, ed ecco che mi riesce di trovare il n. 15 (è il penultimo della tavola), anche se non so se mi riuscirà di decifrarne la scrittura. Comunque, voglio tentare. A questo punto mi sveglio.
Questo sogno esprime la risposta dell’inconscio ai pensieri sui quali il sognante si era intrattenuto prima di addormeritarsi. E la risposta è questa: «Tu stesso devi farti sacerdote della tua chiesa interiore, della chiesa della tua anima». Il sogno dimostra così che il sognante gode, in effetti, dell’aiuto prezioso di una organizzazione; egli fa, in realtà, parte di una chiesa – non di una chiesa esteriore, ma di una che sussiste nella sua intimità.
I fedeli (cioè, tutte le caratteristiche psichiche del soggetto) esigono che egli svolga le funzioni sacerdotali, e che sia lui a celebrare la messa. È chiaro che, con ciò, non si deve intendere la vera normale messa, perché il messale del sogno è molto diverso dai comuni messali. Si deve concludere che l’idea della messa ha una funzione simbolica – essa significa un atto sacrificale che implica la presenza della divinità, talché l’uomo possa comunicare con questa. Naturalmente, una simile interpretazione in chiave simbolica ha una validità non generale, ma limitata al caso in esame. Si tratta di una soluzione tipica, per un protestante, perché chi fa parte della chiesa cattolica, in genere, identifica la propria anima con le immagini della Chiesa stessa, le cui sacre manifestazioni rituali sono per lui simboli dell’inconscio.
II nostro soggetto non aveva avuto una simile esperienza chiesastica, ed è per questo motivo che ha dovuto seguire la direzione dell’interiorità. Inoltre, il sogno gli ha fatto comprendere chiaramente quello che egli avrebbe dovuto fare. «I legami che ti stringono a tua madre, e la tua estroversione (rappresentata dalla moglie, che è una estroversa) ti distruggono, ti fanno sentire insicuro, e ti impediscono, avvolgendoti in una rete di discorsi privi di importanza, di celebrare la tua messa interiore. Ma se tu seguirai la suora (l’anima introversa), essa ti guiderà nella duplice veste di serva e di sacerdotessa. Essa possiede uno strano messale composto da sedici (cioè, quattro volte quattro) miniature. La tua messa consiste nella contemplazione di queste immagini psichiche che la tua anima religiosa ti rivela.» In altre parole, se il soggetto riuscirà a vincere la propria incertezza interiore, causata dal suo complesso materno, troverà che il compito che la vita lo chiama ad assolvere ha la natura e il carattere di una attività religiosa, e che, se mediterà sul significato simbolico delle immagini della sua anima, queste gli consentiranno di portare a termine il suo compito.
Nel sogno, l’anima si manifesta nel suo aspetto propriamente positivo – nel ruolo di mediatrice fra l’ego e il sé. Il numero (quattro volte quattro) delle miniature indica che la celebrazione di quella messa interiore è attuata anche a beneficio della comunità. Come Jung ha dimostrato,25 il nucleo della psiche (il sé) si esprime, normalmente, secondo configurazioni dalla struttura quaternaria. Il numero 4, inoltre, come ha osservato Jung, è connesso con l’anima anche sotto un altro aspetto: sono quattro, infatti, i gradi dello sviluppo dell’«anima». Il primo grado trova la sua rappresentazione simbolica nella figura di Eva, che significa i rapporti di ordine puramente istintivo e biologico. Il secondo, nella figura di Elena, della faustiana Elena, che simboleggia uno stato romantico, come di estasi, caratterizzato sempre, pur tuttavia, da elementi sessuali. Il terzo grado può trovare la propria raffigurazione, per esempio, nella vergine Maria, una donna che solleva l’amore all’altezza della devozione spirituale. Il quarto grado è simbolizzato nella Sapientia, la saggezza che trascende anche le manifestazioni umane più pure e più sante. Un altro simbolo della Sapientia è costituito dalla Shulami- te, nel cantico di Salomone. (Date le caratteristiche dello sviluppo psichico dell’uomo moderno, questo livello è raggiunto solo in casi eccezionali. La Monna Lisa leonardesca può forse, meglio di qualsiasi altra figurazione, simboleggiare questa suprema saggezza.)
Per ora mi preme soltanto mettere in rilievo il fatto che il carattere quaternario si manifesta di frequente in certo materiale simbolico. Le conseguenze essenziali di ciò potranno essere esaminate approfonditamente solo in seguito.
Ma, in pratica, qual è la portata del ruolo, che l’anima si assume, di guidare l’uomo verso il proprio mondo interiore? Tale funzione positiva viene esercitata quando l’uomo affronta con consapevole serietà i sentimenti, gli atteggiamenti, le speranze e le fantasie che si manifestano e prendono corpo nella sua anima, e cristallizza e oggettiva tale materia in una forma definita – per esempio, nella poesia, nella pittura, nella musica, nella scultura o nella danza. Quando l’uomo si accinge a questo compito con pazienza e serenità, dagli abissi dell’inconscio emergono altri elementi, di ancor maggiore profondità. Dopo che una fantasia sia stata cristallizzata in una forma definita, essa va esaminata da un punto di vista etico e intellettuale, nell’ambito di una reazione sentimentale di carattere valutativo. Ed è essenziale considerarla come una realtà; non si deve avere alcun dubbio o imbarazzo, non si deve pensare che, in fondo, si tratta «solo di una fantasia». Se si mantiene a lungo, e religiosamente, un simile atteggiamento, il processo di individuazione si manifesta come la sola realtà, e può svolgersi e dispiegarsi nella sua vera forma.
La letteratura è ricca di esempi che ci mostrano l’anima nella sua veste di mediatrice e di guida al mondo interiore: la Hypnerotomachia di Francesco Colonna,26 il romanzo Lei di Rider Haggard, per non parlare dell’«eterno femminino» nel Faust di Goethe. In un testo mistico medievale, una rappresentazione dell’anima illustra in tal modo la sua natura:
Io sono il fiore del campo e il giglio delle valli. Sono la madre dell’amore puro, del timor di Dio, della conoscenza e della speranza santa […]. Sono la mediatrice degli elementi, che accordo l’uno con l’altro; rendo freddo ciò che è caldo, e caldo ciò che è freddo, umido quel che è asciutto, e asciutto quel che è umido, rendo morbido ciò che è duro […]. Sono la legge nel sacerdote, la parola nel profeta, il consiglio nel saggio. Uccido e vivifico, e non c’è nessuno che possa salvarsi senza di me.27
Nell’età di mezzo si verificò una importante differenziazione spirituale nella religione, nella poesia e in altri campi culturali; il mondo fantastico dell’inconscio venne conosciuto con maggior chiarezza di prima. Il culto cavalleresco della donna esprimeva il tentativo di differenziare l’aspetto femminile della natura dell’uomo, sia in rapporto alla donna reale del mondo esteriore, sia in rapporto alla vita del mondo psichico.28
La dama al servizio della quale il cavaliere si votava, e in onore della quale compiva le sue eroiche gesta, era naturalmente una personificazione dell’anima. Il nome del messaggero del Graal, nella versione di Wolfram von Eschenbach, è particolarmente significativo: Conduir-amour («guida negli affari amorosi»). La dama insegnava al cavaliere a differenziare così i propri sentimenti come il proprio atteggiamento nei confronti delle donne. Successivamente, tuttavia, questo tentativo personale e individuale di sviluppare il rapporto con l’anima venne abbandonato, quando l’aspetto sublime di questa fu incentrato e simboleggiato nella Vergine Maria, che divenne oggetto di devozione e di adorazione. Quando l’anima, identificata nella Vergine, venne considerata come globalmente positiva, gli aspetti negativi di essa trovarono espressione nella credenza nelle streghe.
In Cina, la figura corrispondente alla Vergine Maria è quella della dea Kwan-Yin. Una raffigurazione cinese dell’anima, di carattere ancor più popolare, è la «Signora della luna», che riversa sui suoi favoriti il dono della poesia e della musica, e che può anche donar loro l’immortalità. In India, lo stesso archetipo è rappresentato da Shakti, Parvati, Rati, e da molte altre divinità; per i Mussulmani, l’anima è rappresentata da Fatima, la figlia di Maometto.
Il culto dell’anima, personificata da una figura religiosa ufficialmente riconosciuta, presenta il serio inconveniente che l’anima smarrisce così i suoi caratteri individuali. D’altra parte, a considerarla come una entità esclusivamente individuale, c’è il pericolo che, se l’anima venga proiettata nel mondo esteriore, solo in questo finisca per vivere e manifestarsi. Questa condizione può determinare un continuo stato di disagio, perché l’uomo o diviene vittima delle proprie fantasie erotiche, o si rende schiavo di una donna vera e reale. Solo la dolorosa (ma semplicissima) decisione di considerare con la massima serietà i propri sentimenti e le proprie fantasie può impedire un arresto completo del processo di individuazione, perché solo in tal modo si può appurare il significato e la portata di questa entità interiore. Così, ancora una volta, l’anima potrà manifestare la propria intima natura – quella della «donna dentro di noi» che ci trasmette il messaggio vitale del sé.
L’animus: l’uomo dentro di noi
La personificazione maschile dell’inconscio della donna – l’animus – presenta aspetti positivi e negativi, proprio come l’anima nell’uomo. Ma l’animus non si manifesta così spesso in forma di fantasia erotica; più di frequente assume la forma di una intima convinzione «sacra»z29 Quando una simile convinzione venga espressa con voce sicura, maschile, o venga imposta ad altri tramite violente scenate emozionali, la mascolinità latente nella donna si rivela apertamente. Tuttavia, anche in una donna che presenti spiccati i caratteri della femminilità, l’animus può avere la forza di un potere inesorabile. Tutto a un tratto si individua, in una simile donna, un inaspettato elemento di fredda, inaccessibile ostinazione.
Uno dei temi favoriti con i quali l’animus si presenta in tali tipi di donna può sintetizzarsi così: «la sola cosa al mondo che mi interessa è l’amore; e lui non mi ama»; oppure così: «in questa situazione ci sono solo due possibilità: e l’una e l’altra sono negative». (L’animus non crede negli imprevisti.) È difficile opporsi alla tendenza dell’animus, perché questa, in genere, è una tendenza giusta; e, tuttavia, solo raramente essa sembra corrispondere alla situazione individuale. È una tendenza che sembra ragionevole, ma al di là delle nostre possibilità.
Come la caratteristica tipica dell’anima dell’uomo è determinata dalla madre del soggetto, così l’animus subisce fondamentalmente l’influenza del padre della donna – è il padre che fornisce all’animus della figlia il «colore» speciale delle convinzioni indiscutibili, incontestabilmente «vere» – quelle convinzioni che non esauriscono mai, fra l’altro, la reale personalità della donna stessa, quale essa effettivamente è.
Questa è la ragione per cui l’animus si rivela talvolta, alla stregua dell’anima, un demone di morte. Per esempio, in una fiaba zingaresca un bellissimo straniero viene ricevuto da una donna che vive sola, nonostante il fatto che essa abbia sognato che il visitatore è il re dei morti. Dopo essersi intrattenuta con lui, la donna lo prega di dirle chi realmente egli sia. Da principio egli rifiuta, avvertendola che essa dovrà morire se verrà a conoscenza della sua vera identità. La donna insiste, e all’improvviso lo straniero le rivela di essere la stessa morte. La donna muore all’istante, fulminata dal terrore.30
Considerato dal punto di vista mitologico, il bellissimo straniero è probabilmente una immagine-rappresentazione del padre o del dio, che si manifesta qui come re dei morti (è evidente l’analogia col ratto di Persefone da parte di Ade). Ma, dal punto di vista psicologico, egli rappresenta una particolare forma dell’animus che tiene lontane le donne dai concreti rapporti umani, e in particolare da ogni contatto con gli uomini reali. È come l’involucro delle immaginazioni oniriche, costituite da giudizi e desideri relativamente al modo in cui le cose «dovrebbero essere», che strappa e distoglie la donna dalla realtà della vita.
Ma l’animus, nel suo aspetto negativo, non si manifesta soltanto come un demone di morte. Nei miti e nelle fiabe esso assume anche l’aspetto del bandito o dell’assassino. Potremmo citare ad esempio Barbablù, che uccide tutte le sue mogli in una camera segreta. In tal guisa l’animus personifica tutte quelle riflessioni seminconsce, fredde, distruttive che angustiano le donne nelle ore notturne, specialmente quando abbiano omesso di soddisfare qualche impegno sentimentale. È in momenti del genere che esse incominciano a pensare ai caratteri ereditari familiari, e a questioni del genere – una serie di calcoli e valutazioni, di congetture maliziose, che spingono la donna in uno stato tale da farle desiderare la morte di certe persone («quando morirà uno di noi, me ne andrò in Riviera», disse una donna al marito, ammirando le splendide coste del Mediterraneo; in questo caso il suo pensiero perdeva gran parte della sua pericolosità, perché essa lo aveva espresso!).
Nutrendo segreti atteggiamenti distruttivi, la moglie può spingere il marito, la madre e i figli a stati morbosi che possono sfociare anche nella morte. O può decidere di impedire ai figli di sposarsi – atteggiamento questo solitamente recondito, che raramente perviene al livello della coscienza. (Una vecchia signora mi disse una volta, mostrandomi la fotografia di un figlio annegato all’età di 27 anni: «preferisco che sia morto; meglio così che vedermelo portar via da un’altra donna».)
Talvolta il risultato di tendenze inconsce dell’animus può essere costituito da una sorta di strana passività, da una paralisi di tutti i sentimenti, da una incertezza profonda che ingenera il senso della nullità. Nelle profondità della psiche femminile, l’animus sussurra: «Non hai speranze. Perché darsi da fare? Non c’è nessuna utilità nell’azione. La vita non sarà mai migliore».
Purtroppo, quando simili personificazioni dell’inconscio si impadroniscono della nostra mente, ci sembra che siamo noi stessi a nutrire simili pensieri e sentimenti. L’ego si identifica con essi fino al punto di non riuscire a considerarli con distacco, per quello che in realtà sono. In tal caso, si è davvero «posseduti» dalla raffigurazione dell’inconscio. Solo quando lo stato di asservimento sia venuto meno, ci si rende conto con orrore di aver detto o fatto cose diametralmente contrarie ai nostri pensieri e ai nostri intendimenti effettivi – ci si rende conto di essere stati preda di un fattore psichico estraneo.
Come l’anima, così anche l’animus non presenta solo aspetti negativi, che si esemplificano in atteggiamenti di brutalità, in pettegolezzi, in idee malvage sorde e ostinate. Anche esso manifesta caratteri altamente positivi; anche esso può contribuire, per mezzo della sua attività creativa, alla costruzione di un ponte verso il sé. Valga, a illustrare tali aspetti positivi, il sogno di una donna di 45 anni:
Due figure mascherate si arrampicano verso il balcone, e quindi penetrano in casa. Sono avvolti in mantelli neri, e incappucciati, e mi pare che vogliano torturare me e mia sorella. Questa si nasconde sotto il letto, ma i due la tirano fuori con uno spazzolone, e la torturano. Poi è la mia volta. Quello che fra i due è il capo mi spinge verso il muro, e compie gesti magici sul mio viso. Nel frattempo il suo compagno traccia un disegno sul. muro, e, quando lo guardo (per assumere un comportamento amichevole nei loro confronti), esclamo: «Oh, che bel disegno!» Improvvisamente il mio torturatore si scopre, rivelando la nobile testa di un artista, e dice, con orgoglio: «Sì, davvero bello», e si pulisce gli occhiali.
Il carattere sadico di queste due figure era ben noto alla donna, la quale era soggetta a frequenti attacchi di angoscia, nel corso dei quali era oppressa dal pensiero che i suoi cari si trovassero in situazioni di estremo disagio, o che fossero addirittura morti. Ma il fatto che l’animus si presenta nel sogno in una duplice raffigurazione, ci suggerisce l’idea che i due torturatori personifichino un fattore psichico che si sdoppia al livello dei suoi effetti, e che potrebbe avere un carattere essenzialmente diverso da quello di quei pensieri tormentosi. La sorella della donna, che cerca di sfuggire ai due uomini, viene presa e torturata. In realtà, essa era morta quando era ancora una fanciulla; aveva avuto una spiccata inclinazione alla attività artistica, ma non aveva saputo utilizzare il proprio talento. Il sogno a un certo punto rivela che le due figure mascherate sono in realtà degli artisti, e che se la sognante riconosce e apprezza la loro abilità artistica (che è anche la sua abilità) essi rinunciano alle loro cattive intenzioni.
Qual è il significato profondo di questo sogno? Dietro i tormenti dell’angoscia si nasconde un pericolo effettivo, mortale; ma anche una possibilità costruttiva. La sognante, come già sua sorella, aveva un certo talento come pittrice, ma riteneva che la pittura fosse, per lei, un’attività priva di qualsiasi significato. Il sogno le rivela, nella maniera più seria, che essa deve permettere al proprio talento di manifestarsi. Se essa saprà seguire questo suggerimento, l’animus distruttivo, tormentoso, intraprenderà un’attività creativa, significativa.
Come in questo sogno, l’animus si manifesta sovente sdoppiato. In tal modo, l’inconscio simboleggia il fatto che l’animus rappresenta un fattore piuttosto collettivo che individuale. In ragione di ciò, le donne sensibili alle esigenze della convivenza (quando è l’animus che parla in esse) si riferiscono a soggetti che indicano impersonalmente – «si» — o con i pronomi «essi», «ciascuno», e simili, e in tali circostanze ricorrono spesso, nei loro discorsi, locuzioni o verbi come «sempre», «dovrebbero», «sarebbe bene».
In molti miti, e nella maggior parte delle fiabe, si racconta di un principe trasformato, per stregoneria, in un animale selvaggio, o in un mostro, che viene salvato dall’amore di una fanciulla – si tratta di un processo che simboleggia il modo in cui l’animus diviene cosciente. (Il dott. Henderson si è diffuso, nel capitolo precedente, sul significato di questo motivo ricorrente della Bella e della Bestia.) Spesso all’eroina è interdetto di porre domande sulle condizioni del suo misterioso e ignoto marito e amante; o capita che essa lo incontri solo nelle tenebre, e non possa quindi mai vederlo. Il sottinteso è che, amandolo e nutrendo in lui una fiducia cieca, essa riuscirà a salvare il proprio matrimonio. Ma questo non si verifica mai. La donna finisce sempre col rompere la propria promessa, e potrà ritrovare l’amato solo dopo una lunga serie di ricerche e di sofferenze.
Se lo si proietta nella vita reale, questo motivo simbolico significa che l’attenzione, con cui la donna deve dare ascolto al proprio animus, comporta numerosi sacrifici. Ma se la donna riesce ad appurare la natura del proprio animus e la portata di esso, e se ne affronta la reale incidenza sulla propria personalità, invece di lasciarsene possedere, Vanimus può divenire per lei un prezioso amico intimo, che la arricchirà delle qualità maschili dello spirito di iniziativa, del coraggio, della obiettività, della maturità spirituale.31
Anche l’animus, come l’anima, passa attraverso un processo di sviluppo di quattro gradi. In principio, esso si manifesta come la personificazione di un puro potere psichico – per esempio, come un campione dell’atletica, un «uomo-musco- io». Al secondo grado, esso rivela spirito di iniziativa, e la capacità di svolgere un’attività pianificata. Al terzo, l’animus diviene la «parola», manifestandosi spesso nelle vesti di un sacerdote, o di un professore. Infine, nella sua quarta realizzazione, l’animus è l’incarnazione del «significante». A questo altissimo livello esso, come già abbiamo visto per l’anima, assume la funzione di mediatore della esperienza religiosa, mentre la vita si apre alla pienezza di nuovi significati. La donna acquista fermezza spirituale, una sorta di invisibile sostegno interno, che la compensa della sua fragilità esteriore. L’animus, al livello superiore del suo sviluppo, collega spesso la mentalità della donna con l’evoluzione spirituale tipica dell’età di essa, e può così renderla ancor più ricettiva dell’uomo a nuove idee creative. È per questo motivo che, nell’antichità, le donne venivano impiegate presso molti popoli per espletare le funzioni di veggenti e indovine. La pienezza creativa del loro animus – nel suo aspetto positivo – si esprime talvolta tramite pensieri e idee che stimolano gli uomini a nuove imprese.
L’«uomo interiore» della psiche femminile può provocare imbarazzi, nell’ambito dei rapporti matrimoniali, simili a quelli che già abbiamo considerato nel paragrafo dedicato all’anima. A complicare maggiormente le cose, se uno dei due coniugi è «posseduto» dall’animus (o dall’anima) anche l’altro può divenirne preda. L’animus e l’anima tendono sempre a spingere la conversazione a un livello molto basso, e determinano così una atmosfera imbarazzante di irritabilità e di accesa emotività.
Come ho già detto, l’aspetto positivo dell’animus può manifestarsi attraverso il coraggio, lo spirito di iniziativa, l’obiettività, e, nella forma più elevata, attraverso la profondità spirituale. Tramite l’animus, una donna può individuare i processi reconditi che determinano la sua posizione culturale o personale, o può riuscire a intensificare il proprio atteggiamento spirituale nei confronti della vita. Ciò, naturalmente, presuppone che l’animus cessi di manifestare tendenze che si pongano al di sopra di ogni critica. La donna deve trovare il coraggio e la libertà necessari per porre in dubbio il carattere «sacro» delle proprie convinzioni. Solo allora potrà accogliere i suggerimenti dell’inconscio, specialmente quando questi contraddicano le tendenze del suo animus. Solo allora potranno pervenirle gli impulsi del sé, ed essa potrà consapevolmente intenderne il profondo significato.
Il sé: simboli della totalità
Se un soggetto ha affrontato a lungo, e con sufficiente serietà, i problemi dell’anima (o dell’animus), tanto da non identificarsi più, se non parzialmente, con questa o con quello, viene modificato, ancora una volta, il carattere fondamentale dell’inconscio, che si rivela secondo una nuova raffigurazione simbolica, il sé, il nucleo più centrale della psiche. Nei sogni della donna questa zona focale viene rappresentata, generalmente, tramite raffigurazioni femminili di altissimo livello – così, ad esempio, una sacerdotessa, una maga, la madre terra, la dea dell’amore o della natura. Se si tratta di un uomo, invece, essa sarà simbolizzata nella figura del maestro o del custode (un guru indiano), del vecchio saggio, dello spirito della natura, e così via. Due racconti popolari varranno a illustrare il ruolo che una simile raffigurazione può svolgere. Il primo è un racconto austriaco:32
Il re ordina ai suoi soldati di montare di guardia, durante la notte, al cadavere di una principessa nera, che è caduta vittima di un maleficio. Alla mezzanotte in punto, la principessa si alza dalla tomba e uccide il soldato di guardia. Infine un soldato, al quale tocca di montare la guardia, si lascia prendere dalla disperazione, e fugge nel bosco. Qui incontra «un vecchio con la chitarra», che è nientemeno che Nostro Signore. Il vecchio musico gli spiega dove debba nascondersi, dentro la chiesa, e in che modo potrà far sì che la principessa non riesca ad avere ragione di lui. Protetto così dalla benevolenza divina, il soldato riesce a liberare dall’incantesimo la principessa, e la sposa.
È chiaro che «il vecchio con la chitarra, che è nientemeno che Nostro Signore», da un punto di vista psicologico non è niente altro che la personificazione del sé. Con l’aiuto di questo, l’ego riesce a sfuggire alle proprie tendenze distruttive, e ad aver ragione di un elemento estremamente pericoloso insito nella propria anima.
Nella psiche femminile, come ho già detto, il sé si manifesta tramite raffigurazioni femminili. Ciò risulta all’evidenza nel secondo racconto, una favola eschimese:33
Una fanciulla solitaria, vittima di una delusione amorosa, incontra un mago che viaggia su una barca di rame. È lo «spirito della luna», che ha donato agli uomini tutte le specie degli animali, e che dispensa pure la fortuna nella caccia. Costui convince la fanciulla 4 seguirlo nel regno celeste. Un giorno, mentre lo spirito della luna è fuori, essa visita una casetta in prossimità del suo palazzo. In questa trova una donna minuscola, rivestita della «membrana intestinale della foca barbuta», che la mette in guardia contro lo spirito della luna, avvertendola che questi è intenzionato a ucciderla. [Lo spirito della luna si rivela così un assassino, una specie di Barbablù.] La donna prepara una corda robusta con cui la fanciulla potrà discendere sulla terra al tempo della luna nuova, che è anche il momento in cui essa, la donnetta, potrà aver ragione dello spirito della luna. La fanciulla si lascia scivolare a terra ma, quando Vi giunge, non apre subito gli occhi, come le era stato raccomandato dalla benefica donnina. Per questo viene trasformata in un ragno, e non potrà più riacquistare la sua forma umana.
Come abbiamo detto, il musico divino del primo racconto è una rappresentazione del «vecchio saggio», una tipica personificazione del sé. È simile al mago Merlino della leggenda medievale, o al dio greco Hermes. La donnetta, tanto stravagantemente rivestita di una membrana intestinale, è una raffigurazione parallela, che simboleggia il sé, quale si manifesta nella psiche femminile. Il vecchio musico salva l’eroe del racconto dalle tendenze distruttive dell’anima, mentre la donnetta protegge le fanciulla contro il Barbablù eschimese (che, sotto le vesti dello spirito della luna, ne rappresenta in realtà l’animus). In questo caso, tuttavia, le cose non vanno felicemente in porto – e sul punto ci soffermeremo in seguito.
Il sé, tuttavia, non si manifesta sempre sotto l’aspetto di un vecchio saggio, o di una vecchia maga. Queste paradossali personificazioni non sono altro che tentativi di dare corpo a una entità che non può venire compiutamente racchiusa entro i confini temporali – una entità che simultaneamente presenta le caratteristiche della giovinezza e della maturità.
Il seguente sogno, di un uomo di mezza età, ci dimostra come il sé possa manifestarsi anche con l’aspetto di un giovanetto: 34
Provenendo dalla strada, un ragazzo a cavallo entra nel nostro giardino. [Non ci sono né siepi né muretti, come usa nella realtà, e il giardino è così completamente aperto.! Non riesco a capire se vi è entrato di proposito, o se vi è stato portato, contro la sua volontà, dal cavallo.
Sto in piedi, nel vialetto che conduce al mio studio, e sono molto rallegrato dall’arrivo del ragazzo. La visione di costui e del suo bel cavallo mi impressiona profondamente.
Il cavallo è un animale piuttosto piccolo, ma selvaggio e poderoso, un simbolo di energia (assomiglia a un cinghiale), e ha un manto folto, ruvido, color grigio argento. 11 ragazzo cavalca dietro di me, fra lo studio e la casa; a un tratto salta giù dal cavallo, e lo conduce a mano, con cautela, in modo da non fargli calpestare l’aiuola, con i suoi bei tulipani rossi e arancione – l’aiuola è stata sistemata di recente, e i fiori sono stati piantati da mia moglie (si tratta di una circostanza esclusivamente onirica).
Il ragazzo simboleggia il sé, il rinnovamento della vita, un élan vital creativo, un nuovo orientamento spirituale, per mezzo del quale ogni cosa acquista nuova vitalità ed energia.
Se l’uomo segue gli impulsi dell’inconscio, può arrivare a questo meraviglioso risultato: la vita, in precedenza opaca e corrotta, si trasforma in una avventura interiore, ricca e senza limitazioni, colma di possibilità creative. Nella psiche femminile, la stessa personificazione del sé può essere rappresentata da una fanciulla dalla personalità soprannaturale. Ecco il sogno di una donna sulla cinquantina:
Stavo davanti a una chiesa, e lavavo il marciapiede. A un certo punto mi misi a correre lungo la strada, proprio al momento dell’uscita degli studenti delle scuole superiori. Arrivai così a un rivo stagnante, attraverso il quale era posta una barca, o un tronco d’albero; ma quando cercai di passarci sopra, uno studente malvagio saltò nella barca, che si spezzò, tanto che io quasi caddi nell’acqua. «Idiota!» gli gridai. Dall’altra parte del ruscello stavano giocando tre fanciulle, e una di esse mi tese la mano per aiutarmi. Pensai che la sua manina non potesse servire a trarmi dalle mie difficoltà, ma, quando l’ebbi presa, la fanciulla riuscì, senza il minimo sforzo, a trarmi a riva.
La sognante è una credente, ma, secondo il suo sogno, non può più restare nella propria Chiesa (la Chiesa protestante); in realtà, sembra che essa non abbia ormai alcuna possibilità di entrare in chiesa, sebbene cerchi, per quanto può, di tenerne pulito l’ingresso. Seguendo il sogno a questo punto ella si trova nella necessità di attraversare un ruscello stagnante, e questo indica che il corso della vita è come paralizzato da tutti i suoi irrisolti problemi religiosi. (L’attraversamento di un fiume è una comune immagine simbolica che vale a indicare un mutamento fondamentale di abitudini.) Lo studente viene considerato, dalla stessa sognante, come la personificazione del pensiero che essa aveva formulato in precedenza – del pensiero, cioè, di potere eliminare il suo travaglio spirituale frequentando la scuola superiore. Come è naturale, il sogno non si attarda su questo punto. Quando la donna si decide ad attraversare, da sola, il fiume, una personificazione del sé (la fanciulla), minuscola ma soprannaturalmente forte, le corre in aiuto.
Ma la forma di un essere umano, giovane o vecchio, è solo una delle tante nelle quali il sé si manifesta, in sogni o in visioni. Il fatto che il sé si manifesti, assumendo ora l’aspetto di un giovane, ora quello di un vecchio, indica che il sé ci accompagna lungo tutto il corso della vita, ma anche che esso esiste al di là della vita consapevolmente organizzata e realizzata, cioè, al di là della nostra coscienza del tempo.
Proprio come il sé trascende la nostra consapevole esperienza del tempo (tipica della nostra dimensione spazio-temporale), così esso è simultaneamente onnipresente. Inoltre, si manifesta spesso in una forma che suggerisce una onnipresenza speciale: cioè, si manifesta come un essere umano gigantesco e simbolico, che comprende e sussume in sé l’intero cosmo.
Quando una simile immagine ricorre nei sogni del soggetto, è possibile sperare in una soluzione creativa dei suoi problemi, perché il centro psichico vitale si mostra, in tal modo, riattivato (la personalità del soggetto tende all’unitarietà), così che sarà possibile superare le varie difficoltà.
Non c’è da stupirsi che questa figura dell’uomo-cosmo ricorra in numerosi miti e in molte parabole di carattere religioso. In genere, lo si descrive come un essere positivo e premuroso. Lo si può riconoscere sotto le vesti di Adamo, del persiano Gayomart, o del Purusha indù. Taluni racconti lo presentano anche come un essere che regge le basi del mondo. Gli antichi cinesi, ad esempio, pensavano che, prima della creazione, esistesse un colossale uomo-dio, dal nome di P’an Ku, il quale dava alla terra e al cielo la loro forma. Quando pianse, le sue lacrime formarono il Fiume Giallo e lo Yangtze; dal suo respiro originò il vento; dalla sua parola irruppe il tuono e, dal suo sguardo, la luce. Se era di buon umore, faceva bel tempo; altrimenti, si rannuvolava. Quando morì, cadde in pezzi, e dal suo cadavere nacquero le cinque sacre montagne della Cina. La sua testa divenne la montagna T’ai, all’est, il tronco formò la montagna Sung, nella zona centrale del paese, il suo braccio destro la montagna Heng del nord, il sinistro la montagna Heng del sud, e i suoi piedi formarono, all’ovest, la montagna Hua. I suoi occhi divennero il sole e la luna.35
Abbiamo già visto che la struttura simbolica, quando è connessa con il processo di individuazione, tende a basarsi sul motivo del numero quattro, – come le quattro funzioni della coscienza, o i quattro stadi dello sviluppo dell ‘animus o dell’anima. Tale motivo si ripresenta nella struttura della configurazione cosmica di P’an Ku. Soltanto in circostanze particolari si realizzano, nelle esperienze psichiche, altre combinazioni numeriche.
Le manifestazioni più naturali e spontanee del centro psichico sono caratterizzate dal motivo quaternario – cioè a dire dal fatto che presentano quattro aspetti distinti, o una struttura collegata in qualche modo alla serie numerica 4 – 8 – 16, e così via. Il numero 16, poi, ha una particolare importanza, risultando composto da quattro volte quattro.
Nel nostro mondo occidentale, concezioni similari dell’uomo cosmico si rivelano, ad esempio, nel simbolo di Adamo, il primo uomo.36 Secondo una leggenda ebraica, quando Dio creò Adamo, incominciò col raccogliere polvere di colore rosso, giallo, nero e bianco dai quattro angoli del mondo, così che Adamo si estendeva «da un confine all’altro del mondo». Quando si piegava, la sua testa era all’est, e i suoi piedi all’ovest. Secondo un altro racconto tradizionale ebraico, tutta l’umanità era contenuta in Adamo fin dall’inizio, o piuttosto l’anima di tutti coloro che sono nati o nasceranno dopo di lui. L’anima di Adamo in tal modo, era «simile allo stoppino di una lampada, composto di innumerevoli fibre». In questo simbolo, l’idea di una totale unitarietà dell’esistenza umana, al di là delle singole persone individuali, trova manifesta espressione.
Nell’antica Persia, il primo uomo, l’uomo dell’origine del mondo, chiamato Gayomart, veniva raffigurato come un essere di enorme statura, promanante luce. Quando morì, dal suo corpo sprizzarono tutte le specie dei metalli, e dalla sua anima nacque l’oro. Il suo seme ricadde sulla terra, e ne derivò la prima coppia umana, sotto la forma di due arbusti di rabarbaro. Non può non colpire la circostanza che anche il cinese P’an Ku venisse raffigurato come ricoperto di foglie, a mo’ di una pianta. Forse ciò dipende dal fatto che il primo essere umano veniva ritenuto un essere unitario, autogeno, che viveva libero dall’urgenza di impulsi animali, o della volontà egoistica. Per certe popolazioni, che vivono sulle rive del Tigri, ancora ai nostri giorni Adamo è oggetto di culto, in quanto lo si ritiene la recondita «super-anima», o il mistico «spirito protettivo» dell’intera razza umana. Secondo tali credenze, Adamo è nato da una palma da datteri – ancora una ripetizione del motivo vegetale.37
All’est, e in certi ambienti gnostici occidentali, si è presto ammesso che l’uomo cosmico non è altro che una immagine psichica interiore, e non una realtà esteriore. Per esempio, secondo la tradizione indù, si tratta di una entità che vive nel profondo di ogni individuo, e ne costituisce anzi la sola parte immortale. Questo «grande uomo» interiore riscatta l’individuo, sollevandolo dal livello del mondo effettuale e delle sue miserie, a quello della sua eterna, originaria sfera. Ma il passaggio riesce solo se l’uomo riconosce la propria guida, e si desta dal suo torpore per seguirla. Nei miti simbolici della antica India si indica questa entità col nome di Purusha, nome che significa semplicemente «uomo», o «persona». Purusha vive dentro il cuore di ogni soggetto, e, al contempo, riempie di sé l’intero universo.
Secondo la testimonianza di molti miti, l’uomo cosmico costituisce non solo il punto iniziale, ma anche la meta finale di tutta la vita dell’intera creazione. «Quando si parla di cereali, si intende frumento, quando si parla di tesori si intende oro, e quando si parla di cose generate, si intende l’uomo», dice il saggio medievale Meister Eckhart.38 E, se si considera questa affermazione da un punto di vista psicologico, non si può non trovarla esatta. La realtà psichica interiore di ogni individuo, nella sua totalità, è definitivamente orientata verso questo simbolo archetipo del sé.
In termini pratici, ciò significa che l’esistenza degli uomini non potrà mai essere adeguatamente spiegata nei termini di certi istinti isolati, o meccanismi funzionali, come la fame, il potere, il sesso, la sopravvivenza, la perpetuazione della specie, e così via. In altre parole, lo scopo essenziale dell’uomo non è di mangiare, bere, eccetera, ma di essere umano. Al di sopra e al di là di questi impulsi, la nostra realtà psichica manifesta un mistero vivente, che può trovare espressione solo simbolica — espressione che spesso l’inconscio realizza tramite la potente immagine dell’uomo cosmico.39
Nell’ambito della civiltà occidentale, l’uomo cosmico è stato identificato, in notevole misura, con Cristo, e in Oriente con Krishna o Budda. Nel Vecchio Testamento, la stessa figura simbolica viene presentata come il «figlio dell’Uomo», e, nelle tradizioni mistiche ebraiche di epoca posteriore, assume il nome di Adam Kadmon.40 Certi movimenti religiosi della tarda antichità lo denominavano semplicemente «Anthropos» (il termine greco che significa «uomo»). Come tutti i simboli, anche questa immagine rimanda a un mistero ignoto, – l’arcano, fondamentale mistero dell’esistenza umana.
Come abbiamo già visto, per certe tradizioni l’uomo cosmico è la meta della creazione; ma il conseguimento di tale meta non va considerato sul piano degli avvenimenti esteriori. Per esempio, secondo gli Indù non è tanto vero che il mondo esteriore finirà per dissolversi, un giorno, nel «grande uomo originario», quanto piuttosto che la tendenza estroversa dell’io verso il mondo esteriore verrà meno, per dar luogo all’avvento dell’uomo cosmico. E ciò avviene quando l’io si sprofonda nel sé. Il divagante flusso di rappresentazioni dell’io (che trascorre da un pensiero all’altro), e i suoi desideri (che si posano volubilmente sui più svariati oggetti) si acquetano quando l’io trova il contatto con il «grande uomo» che vive all’interno di esso. In effetti, non va mai dimenticato che, per noi, la realtà esterna esiste solo nei limiti in cui la percepiamo al livello della coscienza, e che non è possibile provare che essa esista «in sé e per sé».
Infiniti esempi, che è possibile trarre dalle tradizioni di varie civiltà, e di diversi periodi storici, dimostrano l’universalità del simbolo del «grande uomo». La sua immagine si presenta alla mente dell’uomo come una sorta di meta finale, o come l’espressione del mistero fondamentale della vita. Proprio perché questo simbolo rappresenta la totalità e l’integralità, spesso esso viene raffigurato sotto l’aspetto di un essere bisessuato. Così, in tale simbolo, trovano conciliazione due fra i più importanti «opposti» psicologici – il carattere maschile e quello femminile. Questa conciliazione si attua e si manifesta spesso nei sogni, simboleggiata in una coppia divina, o reale, o comunque di altissimo grado.41 Ecco come il sogno di un uomo di 47 anni dimostra, in modo drammatico, l’evidenza di questo carattere:
Mi trovo sopra una specie di terrazza, e sotto di me vedo una enorme, stupenda orsa nera, con una pelliccia ruvida, ma ben curata. Essa sta in piedi, ritta sulle zampe posteriori, e, su una lastra di marmo, sta ripulendo una pietra nera, piatta e ovale, che diviene sempre più lucida. Non molto lontano una leonessa e il suo cucciolo sono impegnati nella stessa attività, ma le pietre che essi lucidano sono molto più grandi, e di forma rotonda. Dopo un po’, l’orsa si volge verso una donna grassa e nuda, dai capelli neri e dagli occhi scuri e selvaggi. Io provo una forte attrazione erotica nei confronti di questa; ma lei, all’improvviso, si avvicina per catturarmi. Mi spavento, e cerco rifugio sull’impalcatura sulla quale mi trovavo all’inizio del sogno. In seguito, ecco che mi trovo in mezzo a molte donne, una buona metà delle quali sono selvagge, dai lunghi capelli neri (come se prima fossero state tanti animali) ; per l’altra metà, sono donne normali [della stessa nazionalità del sognante] e hanno capelli biondi o castani. Le selvagge intonano un canto sentimentale, con voci malinconiche e suggestive. A questo punto, su una vettura alta ed elegante, si approssima un giovane che porta sulla testa una regale corona di oro, tempestata di rubini scintillanti – una visione stupenda. Accanto a lui è seduta una giovane donna, bionda, probabilmente sua moglie, ma senza corona. Mi sembra che si tratti della leonessa e del cucciolo che si sono trasformati nella coppia reale. Anche essi appartengono al gruppo dei selvaggi. A questo punto tutte le donne (le selvagge e le altre) intonano un canto solenne, e il carro reale si allontana lentamente verso l’orizzonte.
In questo sogno il nucleo interiore della psiche del sognante si rivela inizialmente nella immagine temporanea della coppia regale, che emerge dalle profondità della sua natura animale e dal fondo selvaggio del suo inconscio. L’orsa che compare all’inizio è una specie di madre-dea (Artemide, per esempio, veniva venerata nella antica Grecia sotto le vesti di un’orsa). La nera pietra ovale che essa struscia e lucida, simboleggia, verosimilmente, il carattere più intimo del sognante, la sua personalità più vera. Come è noto, l’attività volta a sfregare e lucidare le pietre risale ai primordi della storia umana. In Europa sono state rinvenute numerose pietre «sacre», avvolte in fogli di corteccia, e nascoste nelle caverne; esse vi erano state probabilmente abbandonate dagli uomini dell’età della pietra, che le credevano depositarie della potenza divina. Attualmente, alcuni aborigeni australiani credono che lo spirito dei loro antenati continui a vivere nelle pietre, informandole di poteri divini e miracolosi, e che, strusciando queste pietre, se ne aumenti il valore mistico (quasi come per una trasmissione di elettricità) a vantaggio così del vivo, come dell’antenato morto.42
L’uomo, del quale stiamo esaminando il sogno, aveva sempre rifiutato di sottoporsi al legame matrimoniale. Il suo timore di restare prigioniero di quel rapporto fa sì che, nel sogno, egli si allontani dalla donna-orsa per risalire sulla piattaforma dalla quale, in veste di spettatore, potrà passivamente osservare gli eventi senza restare impigliato in essi. Con il motivo della pietra strofinata dall’orsa, l’inconscio cerca di far comprendere al sognante che egli dovrebbe tentare di accettare un contatto con questo aspetto peculiare della vita – è attraverso i contrasti della vita coniugale che la sua personalità potrà acquisire una struttura più pura.
Quando la pietra è completamente lucida, essa risplende come uno specchio, e l’orsa può contemplarvisi; ciò significa che solo accettando il contatto con il mondo, e le sofferenze che ne conseguono, l’anima dell’uomo potrà divenire uno specchio in cui i suoi poteri divini riescano ad avere percezione di sé. Ma il sognante si rifugia in un luogo più alto – cioè, cerca scampo in quelle meditazioni che possono farlo sfuggire alle esigenze della vita. Il sogno gli fa così capire che, se egli si ritirerà davanti a quelle esigenze, una parte della sua personalità (la sua anima) resterà una entità indifferenziata, e di ciò si può scorgere un simbolo nel gruppo delle donne indefinite, con la sua eterogenea composizione.
La leonessa e il suo cucciolo, che compaiono a questo punto sulla scena, rappresentano l’impulso misterioso alla individuazione, che si manifesta nella attività che essi dispiegano, nel sogno, per foggiare le pietre (una pietra rotonda è simbolo del sé). I leoni, una coppia reale, sono, di per sé, simbolo della totalità. Nel simbolismo medievale, la «pietra filosofale», simbolo per eccellenza della integralità della natura umana, è raffigurata da una coppia di leoni, o da una coppia umana che cavalca leoni. Simbolicamente, ciò indica il fatto che l’impulso alla individuazione si manifesta in forma ambigua, per esempio occultato nella passione travolgente che può nutrirsi per un’altra persona. (In effetti, la passione che travolge i limiti naturali dell’amore, tende in definitiva al mistero dell’unità nel suo farsi, ed è per questo che, quando si ama appassionatamente, si avverte che lo scopo supremo della propria vita è la confusione e il naufragio di sé nella persona amata.)
Fino a quando, in questo sogno, l’immagine della totalità si manifesta, simbolicamente, nella coppia leonina, essa non trascende l’ambito di tale travolgente passionalità. Ma quando il leone e la leonessa si trasformano nella coppia regale, allora l’impulso alla individuazione raggiunge il livello della realizzazione consapevole, e l’ego può facilmente scorgere in esso lo scopo essenziale della vita.43
Prima che i leoni si mutassero in esseri umani, erano solo le donne selvagge che cantavano, in maniera particolarmente sentimentale; in altri termini, i sentimenti del sognante restavano a un livello primitivo e sentimentale. Ma, in onore dei leoni umanizzatisi, tutte le donne (le selvagge e le civili) intonano concordemente un canto di gloria. L’espressione unitaria dei loro sentimenti, dimostra che la frattura interiore dell’anima si è ora sanata in una superiore armonia.
Ancora una ulteriore personificazione del sé è quella che si manifesta nei risultati della cosiddetta «immaginazione attiva» della donna. (L’immaginazione attiva è un tipo di meditazione immaginativa, con cui si può deliberatamente entrare in contatto con l’inconscio, e stabilire una connessione consapevole con i fenomeni psichici. L’immaginazione attiva è la più importante scoperta di Jung. Mentre, da un certo punto di vista, essa può paragonarsi alle attività meditative tipiche dell’estremo oriente, quali le tecniche del Buddismo Zen, o dello Yoga tantrico, o alle tecniche occidentali, quali quelle degli esercizi spirituali dei Gesuiti, ne differisce fondamentalmente, in quanto il meditante resta completamente privo di qualsiasi scopo o programma. In tal modo, la meditazione diviene il solitario esperimento di un soggetto libero, che si colloca all’estremità opposta di qualsiasi tentativo organizzato di impadronirsi dell’accesso all’inconscio. Non è, tuttavia, il caso di intraprendere, a questo punto, un esame minuzioso della immaginazione attiva; il lettore potrà trovarne una esauriente esposizione nello scritto di Jung La funzione trascendente).44
Alla mente di una donna esaminata, il sé si presentava come un cervo, che diceva all’ego: «Sono tuo figlio e tua madre. Mi chiamano l'”animale della congiunzione”, perché congiungo gli uomini, gli animali e perfino le pietre, se le informo di me. lo sono il tuo fato, l'”io oggettivo”. Quando sono presente, valgo a riscattarti dalle difficoltà senza senso della vita. Il fuoco che arde in me, arde in grembo a tutta la natura. Se l’uomo perde il contatto con me, diviene egocentrico e solitario, si disorienta e intristisce».
Il sé viene spesso simboleggiato da un animale, che rappresenta la nostra natura istintiva, e i legami di questa con l’ambiente. (Ecco perché, nei miti e nelle favole, si può registrare la presenza di tanti animali benigni.) Tale rapporto del sé con la natura circostante e con il cosmo deriva, con ogni probabilità, dal fatto che 1’«atomo nucleare» della nostra psiche è, in qualche modo, intimamente intrecciato nella totalità del mondo, così del mondo esteriore come di quello intimo. Tutte le manifestazioni più alte della vita si armonizzano con il circostante continuum spazio-temporale. Per esempio, gli animali hanno il loro cibo peculiare, peculiari materiali per la costruzione delle loro tane, territori sui quali vivono di preferenza, e i loro modelli istintivi si armonizzano perfettamente con queste esigenze differenziate, e si adattano a esse. Anche il ritmo del tempo svolge una parte importante: pensiamo anche solo al fatto che la maggior parte degli animali erbivori partoriscono proprio nella stagione dell’anno nella quale l’erba è più folta e più abbondante. In base a tali coincidenze, un ben noto zoologo ha detto che la «struttura interiore» degli animali si riflette nel mondo circostante, e «psichizza» il tempo e lo spazio.45
Secondo modi che restano al di là della nostra possibilità di comprensione, il nostro inconscio si armonizza con l’ambiente – con il gruppo di cui facciamo parte, con la società e, in generale, con il continuum spazio-temporale e con la totalità della natura. Così, il «grande uomo» degli Indiani Naskapi non vale solo a rivelare le verità interiori; ma suggerisce anche il luogo e il momento più adatti alla caccia. E dai sogni il cacciatore naskapi districa le parole e la melodia delle formule magiche con le quali attira gli animali.
Ma questa specifica influenza ausiliatrice dell’inconscio non opera solo a favore dei primitivi. Jung ha scoperto che anche gli uomini «civilizzati» possono trovare nei propri sogni la guida necessaria per risolvere i problemi che incontrano così nel mondo esterno, come in quello interiore. In realtà, molti dei nostri sogni contengono particolari riferimenti ad aspetti della vita esteriore. Oggetti come l’albero che vediamo solitamente dalla finestra, la nostra bicicletta o la nostra automobile, o la pietra raccolta nel corso di una gita, possono raggiungere il livello del simbolismo tramite la nostra attività onirica, e acquisire così pienezza di significato. Se facciamo attenzione ai nostri sogni, invece di vivere come in un mondo freddo e impersonale caratterizzato da una casualità senza senso, possiamo incominciare a inserirci in un mondo che intimamente ci appartiene, in cui gli eventi si dispongono secondo un principio regolatore di arcana importanza.
I nostri sogni, tuttavia, non concernono il nostro adattamento al mondo esteriore. Almeno nel nostro mondo civilizzato, la maggior parte dei sogni riguardano lo sviluppo (sollecitato dall’ego) della «valida» tendenza interiore verso il sé, perché questo contatto è ben più ostacolato nell’ambito dei moderni sistemi di vita, che non nel caso dei popoli primitivi. I sogni, generalmente, prendono vita direttamente dal centro interiore, ma noi, con la nostra coscienza scissa, siamo implicati nella trama dei problemi esteriori, che ci sono in fondo completamente estranei, e i messaggeri provenienti dal sé di rado riescono a raggiungerci. La nostra mentalità conscia continuamente ricrea l’illusione di un mondo esteriore chiaramente configurato, «reale», che è la fonte di molte altre percezioni. Pure, tramite la nostra natura siamo inesplicabilmente collegati al nostro ambiente fisico e psichico.
Ho già detto che il sé viene frequentemente simboleggiato nella forma di una pietra, più o meno preziosa. Ne abbiamo visto un esempio nella pietra che veniva lustrata dall’orsa e dai leoni. In molti sogni il centro nucleare, il sé, si manifesta anche come un cristallo. La struttura matematicamente esatta del cristallo ci richiama alla mente il sentimento intuitivo per cui anche nella cosiddetta materia «bruta», opera un principio spirituale ordinatore. Così spesso il cristallo simboleggia l’unione degli estremi contrari – lo spirito e la materia.
Forse i cristalli e le pietre sono simboli appropriati del sé, a causa della «giustezza» della loro natura. Sono molti coloro che non sanno trattenersi dal raccogliere pietre che abbiano una forma o un colore anche appena fuori dal normale, senza sapere perché lo fanno. È come se in quelle pietre si racchiudesse un mistero vivente che li affascina. Gli uomini hanno raccolto e collezionato pietre fino dai primordi, e hanno supposto che in certune si incentrasse la forza vitale, con tutto il suo mistero. Gli antichi Germani, per esempio, credevano che gli spiriti dei morti continuassero a vivere nelle pietre sepolcrali.46 L’abitudine di collocare pietre sulle tombe può derivare, in parte, dall’idea simbolica che resta, del morto, l’elemento non caduco, eterno, e questo può adeguatamente essere rappresentato da una pietra. Perché, mentre l’essere umano è diverso dalla pietra per quanto è possibile essere diversi, il suo centro interiore presenta una arcana e particolare similitudine con la pietra (forse perché questa simboleggia la mera esistenza, assolutamente intatta dalle e- mozioni, dai sentimenti, dalle fantasie e dal pensiero discorsivo, tutti tipici elementi del mondo cosciente dell’ego). In questo senso, la pietra è forse il simbolo dell’esperienza più assoluta e profonda – l’esperienza dell’eterno, che l’uomo realizza in quei momenti nei quali si sente immortale e non caduco.
Anche l’impulso, comune a tutte le civiltà, di erigere monumenti a uomini illustri, o a ricordo di eventi importanti, deriva probabilmente da questo significato simbolico della pietra. La pietra che Giacobbe collocò nel luogo in cui ebbe il suo famoso sogno, o certe pietre lasciate dalla gente comune sulle tombe del santo o dell’eroe locale, rivelano la natura profonda dell’impulso umano di esprimere, mediante il simbolo della pietra, esperienze altrimenti inesprimibili. Non c’è da stupirsi del fatto che, in molti culti religiosi, ci si serva di una pietra per indicare Dio, o per contrassegnare un luogo sacro alla devozione dei fedeli. La sacra reliquia per eccellenza del mondo islamico è la Ka’aba, la pietra nera della Mecca, per venerare la quale tutti i Maomettani sperano di poter compiere almeno un pellegrinaggio.
Per il simbolismo ecclesiastico cristiano. Cristo è «la pietra che i muratori hanno refuso», e che è divenuta poi «la pietra angolare» (Luca, XX, 17). Alternativamente, egli è chiamato «la roccia dello spirito, da cui sgorga l’acqua della vita» (I Cor., X, 4). Gli alchimisti del Medioevo, che cercavano di carpire il segreto della materia con metodi pre- scientifici, sperando di cogliervi non dirò Dio, ma almeno la vivente presenza della sua operosa energia, credevano che quel segreto fosse racchiuso nella famosa «pietra filosofale». Ma alcuni alchimisti confusamente avvertivano che la tanto desiderata pietra era il simbolo di una entità che poteva essere rinvenuta solo nella psiche dell’uomo. Un antico alchimista arabo, Morieno, diceva: «Questa pietra [la pietra filosofale] si cava da voi: voi ne siete il minerale, e in voi la si può trovare. Se ve ne renderete conto, sentirete vivere in voi l’amore della pietra. Sappiate che questo è vero senza ombra alcuna di dubbio».47
La pietra degli alchimisti (la lapis) è dunque il simbolo di una esperienza che non può andare perduta o distrutta, di una entità eterna che alcuni alchimisti paragonavano all’esperienza mistica di Dio nell’anima umana. Di solito, occorre un lungo travaglio per procedere alla eliminazione di tutti gli elementi psichici superflui che occultano la «pietra».48 Ma una profonda esperienza interiore del sé è vissuta a un dipresso da tutti, almeno una volta nel corso della vita. Dal punto di vista psicologico, l’atteggiamento genuinamente religioso consiste nel tentativo di conseguire questa particolarissima esperienza, e di assumerla, gradualmente, come regola generale (è sintomatico il fatto che la pietra riveli, tipicamente, il carattere della «persistenza»), così che il sé divenga l’amico interiore al quale di continuo si rivolge la nostra attenzione.
Il fatto che il più alto e il più comune simbolo del sé sia una cosa inerte, costituita di materia inorganica, apre un nuovo campo alla indagine e alla riflessione: intendo parlare della natura, tuttora ignota, dei rapporti fra la psiche inconscia e quella che chiamiamo la «materia», – un mistero con il quale la medicina psicosomatica è attualmente alle prese. Studiando questo rapporto, ancora indefinito e incerto (può essere che «materia» e «psiche» siano lo stesso fenomeno, osservato, nel primo caso, «dal di fuori», e, nel secondo, «dal di dentro»), il dottor Jung espose una nuova concezione, che egli battezzò con il termine «sincronicità».49. Questo ,rmine indica la «coincidenza significativa» degli eventi esteriori con quelli interiori, che non sono peraltro, in se stessi, fra loro causalmente collegati. L’accento batte sulla parola «significativa».
Se un dirigibile esplode davanti a me mentre mi sto soffiando il naso, si ha una coincidenza di eventi che non è significativa. Si tratta solo di un caso, di uno dei tanti casi della vita di ogni giorno. Ma, se compro un vestito blu, e, per errore, il negoziante me ne manda a casa uno nero proprio il giorno che muore un mio caro parente, ecco che siamo in presenza di una coincidenza significativa. I due eventi non sono causalmente collegati ma sono connessi dal significato simbolico che la nostra società attribuisce al colore nero.
Tutte le volte che il dottor Jung aveva occasione di individuare simili coincidenze significative nella vita di qualche soggetto, aveva l’impressione (del resto avvalorata dai sogni del soggetto stesso) che venisse attivato un archetipo nell’inconscio dell’individuo in esame. Ci spiegheremo riferendoci all’esempio del vestito nero: in quel caso, la persona che riceve il vestito nero potrebbe anche aver fatto un sogno imperniato sul tema della morte. È come se l’archetipo sottostante si manifestasse simultaneamente in eventi di carattere interno ed esterno. Il denominatore comune è un «messaggio» simbolico – in questo caso, un messaggio di morte.
Quando si arriva a comprendere che certi tipi di eventi «amano» verificarsi insieme con certi altri, in determinati momenti si può comprendere anche l’atteggiamento mentale dei Cinesi, le cui teorie mediche, filosofiche, e perfino quelle attinenti alla scienza delle costruzioni, si basano sulla «scienza» delle coincidenze significative. I testi classici cinesi non si chiedono, davanti a un evento, che cosa lo abbia causato, ma piuttosto che cosa «ama» verificarsi insieme con esso. Si può ritrovare lo stesso motivo di fondo nell’astrologia, e nel modo in cui i popoli di varie civiltà hanno fatto dipendere decisioni essenziali dal responso di oracoli, o dagli auspici degli àuguri. Si tratta, in tutti questi casi, di fornire una spiegazione della coincidenza, che si diversifica totalmente da quella che si incentra, in maniera diretta, nel rapporto causa- effetto.
Elaborando il concetto di «sincronicità», il dottor Jung ha indicato in che modo è possibile pervenire a una più profonda comprensione delle interrelazioni fra psiche e materia. Ed è proprio a tali relazioni che sembra fare diretto riferimento il simbolo della pietra. Ma si tratta di una materia ancora insufficientemente studiata, che lascia dunque adito a varie soluzioni, e che sarà compito delle generazioni future di fisici e psicologi esaminare a fondo.
Potrà forse sembrare che questa esposizione del concetto di «sincronicità» mi abbia allontanata dal tema, ma ho ritenuto necessario un esame, sia pure di carattere introduttivo e necessariamente sommario, di tale concetto, perché si tratta di una ipotesi jungiana che ci sembra gravida di conseguenze, di ordine così speculativo come pratico. Gli eventi «sincronici», inoltre, accompagnano quasi invariabilmente le fasi cruciali del processo di individuazione. Ma troppo spesso passano inosservati, perché il soggetto non ha imparato a prestare attenzione alle coincidenze, e ad attribuire a esse un significato in relazione al simbolismo dei suoi sogni.
Il rapporto con il sé
Al giorno d’oggi molti uomini, specialmente se vivono in grandi città, sono affetti da un terribile senso di vuoto e di noia, come se fossero in attesa di qualche cosa che non arriva mai. Possono distrarli, momentaneamente, cinema e televisione, la partita allo stadio o le controversie politiche, ma sempre, stanchi e disingannati, essi finiscono per ritornare alla terra desolata della loro vita.
La sola avventura che valga la pena di essere vissuta dall’uomo moderno è l’esplorazione del regno interiore della psiche inconscia. Vagamente convinti di ciò, sono molti coloro che si dedicano all’esercizio dello Yoga, o di altre tecniche orientali. Ma queste non consentono alcuna possibilità di reali avventure, perché, nella loro pratica, ci si limita ad apprendere ciò che è già noto al cinese o all’indù, senza entrare in contatto con il nucleo centrale della propria vita interiore. Mentre è vero che le tecniche orientali consentono di realizzare la concentrazione del pensiero, e di indirizzarlo verso il mondo interiore, e che questo procedimento è, in certo senso, simile all’introversione determinata dal trattamento analitico, non si può trascurare una differenza significativa. Jung ha elaborato un metodo per pervenire al centro interiore del soggetto, e per stabilire un contatto con il vivente mistero dell’inconscio, senza bisogno di ricorrere ad aiuti esterni.50 Si tratta di tutt’altra cosa che seguire un sentiero ben battuto.
Cercare di prestare costantemente, giorno per giorno, la dovuta attenzione alla realtà vivente del sé è come cercare di vivere simultaneamente a due livelli, o in due mondi diversi. Si continua, come in precedenza, ad adempiere doveri e incombenze impostici dal mondo esteriore, ma si resta altresì continuamente in attesa degli indizi e dei segnali, sia che si manifestino in sogni oppure in eventi esteriori, ai quali il sé ricorre per esprimere simbolicamente le sue intenzioni, – per indicare la direzione nella quale si sta muovendo la corrente vitale.
Gli antichi testi cinesi, che si sono occupati di questa esperienza, ricorrono spesso alla similitudine del gatto in agguato davanti al rifugio del topo. In uno di essi si dice che non si dovrebbe consentire di venir distratti da altri pensieri, ma che, al contempo, la nostra attenzione non dovrebbe essere né troppo tesa, né troppo rilassata. Si indica così, con esattezza, quello che deve considerarsi il valido livello percettivo.
Se si assume questo atteggiamento, e ci si adegua a esso […] gli effetti si manifesteranno con l’andar del tempo, e quando giungerà il momento della realizzazione, come una mela matura che automaticamente si stacca dal ramo, qualsiasi cosa con cui possa capitare che si istituisca un contatto o un rapporto determinerà il supremo risveglio dell’individuo. È questo il momento in cui l’iniziato si troverà del tutto simile a colui che beve acqua, e solo sa se quella sia fredda o tiepida. Si libererà da tutti i dubbi su se stesso, proverà una grande letizia, analoga a quella che si avverte incontrando il proprio padre a un incrocio, per strada.51
Così, nel corso della vita normale, che si attua nel mondo esteriore, si è improvvisamente proiettati in una meravigliosa avventura interiore; e poiché questa è unica per ciascun soggetto, essa non potrà mai essere oggetto di imitazione o di plagio.
Ci sono soprattutto due motivi essenziali per cui l’uomo smarrisce il contatto con il centro regolatore della propria psiche. Il primo è che qualche isolato impulso istintivo, o qualche immagine emotiva, possono segregarlo in una unilateralità nella quale egli perde il senso del proprio equilibrio psichico. Ciò capita anche agli animali; per esempio, un cervo sessualmente eccitato dimenticherà completamente la fame, e diventerà imprudente. Tale unilateralità, e il conseguente smarrimento dell’equilibrio psichico, sono grandemente temuti dai primitivi, che definiscono il fenomeno «perdita dell’anima». Un’altra minaccia all’equilibrio interiore proviene dalle eccessive «fantasticherie a occhi aperti», che, misteriosamente, di solito accompagnano particolari complessi. In realtà, le fantasticherie intanto sussistono, in quanto mettono in rapporto l’uomo con i suoi complessi; e, al con tempo, minacciano la possibilità della concentrazione e la continuità della coscienza del soggetto.
Il secondo ostacolo è di carattere del tutto opposto al primo, ed è dovuto a un superconsolidamento della coscienza dell’ego. Sebbene una certa forma di consapevolezza disciplinata sia necessaria per lo svolgimento delle attività inerenti alla nostra vita «civile» (si sa benissimo, per esempio, quello che accade se un capostazione o un addetto agli scambi ferroviari si lasciano prendere dalle fantasticherie), essa presenta tuttavia il serio inconveniente di bloccare la ricezione degli impulsi e dei messaggi provenienti dal centro psichico. Questa è la ragione per cui tanti sogni degli uomini civili riguardano la necessità di restaurare tale ricettività, tramite la modificazione dell’atteggiamento della coscienza nei confronti del centro interiore, cioè del sé.
Fra le rappresentazioni mitologiche del sé, sovente si trova posto l’accento sui «quattro angoli del mondo», e, in molti dipinti, il «grande uomo» è collocato nel centro di un cerchio diviso in quattro parti. Jung impiegò il termine indù «mandala» (cerchio magico) per indicare ogni struttura di questo ordine, che è una rappresentazione simbolica dell’«a- tomo nucleare» della psiche umana, – della cui essenza non sappiamo assolutamente niente. Al riguardo, è interessante osservare che un cacciatore naskapi ha rappresentato pittoricamente il suo «grande uomo» non come un essere umano, ma come un mandala.
Mentre il naskapi ha una esperienza diretta e immediata del centro interiore, e non ricorre dunque all’ausilio di riti e dottrine religiose, altre popolazioni impiegano il motivo del mandala per restaurare il perduto equilibrio spirituale. Per esempio, gli Indiani Navaho cercano, per mezzo di dipinti sulla sabbia, e a struttura mandalica, di ricondurre i malati in armonia con se stessi e con il cosmo – e quindi di far loro recuperare la salute.
Nel mondo della civiltà orientale, tali disegni valgono a consolidare l’essere interiore, o a consentire la concentrazione in profonde meditazioni. Si ritiene che la contemplazione di un mandala determini l’acquisizione della pace interiore, il senso e la consapevolezza, cioè, che la vita ha ritrovato il suo ordine e il suo significato. Il mandala determina l’insorgere di questo sentimento anche quando si manifesta spontaneamente nei sogni degli uomini moderni che non sono influenzati da tradizioni religiose di questo tipo, e anzi non ne sanno assolutamente niente. Di più, forse l’efficacia positiva è ancora maggiore nel loro caso perché la conoscenza e la tradizione, in un certo senso, possono oscurare, o impedire addirittura, l’esperienza spontanea.
Ecco l’esempio di un mandala, che si è spontaneamente presentato nel sogno di una donna di 62 anni. Il sogno costituì il preludio di una nuova fase nella vita della donna, caratterizzata da un atteggiamento creativo:
Vedo un paesaggio immenso in una luce opaca. Sullo sfondo, il crinale di una collina, regolare e costante. Lungo il dorsale di origine della collina, si muove una lastra quadrangolare, che splende come oro. In primo piano, una estensione scura di terra coltivata, prossima a germogliare. A un tratto scorgo una tavola rotonda, con una pietra massiccia nel mezzo; al contempo la lastra quadrangolare si posa su essa. Ha lasciato la collina, ma come e quando abbia mutato la sua posizione, non lo so.
I paesaggi, nei sogni, come del resto nelle realizzazioni artistiche, simboleggiano spesso un atteggiamento inesprimibile. In questo sogno, la luce opaca del paesaggio indica che la pienezza della coscienza, totale durante il giorno, si è offuscata. La «natura interiore» può incominciare a rivelarsi nella sua vera luce, e così vediamo che la lastra quadrangolare si manifesta, visibilmente, al limite dell’orizzonte. Fino a questo momento il simbolo del sé, la lastra, era stato oggetto di una idea molto vaga e imprecisa, al limite dell’orizzonte mentale della sognante – ma nel sogno muta posizione, e diviene il centro del suo paesaggio spirituale. Un seme, gettato chissà quanto tempo prima, incomincia a fruttare: per un lungo periodo la sognante aveva seguito con partecipe attenzione i suoi sogni, e ora la sua fatica viene ricompensata. (Ci viene in mente la relazione fra il simbolo del «grande uomo» e il mondo vegetale, già precisata più sopra.) Ora, improvvisamente, la lastra d’oro si muove verso il settore destro, il settore nel quale le cose emergono al livello della coscienza. Fra l’altro, la «destra» indica spesso, psicologicamente, il mondo della coscienza e dell’adattamento, della corrispondenza legittima, laddove la «sinistra» simboleggia la sfera delle reazioni di adattamento inconsce, e, talvolta, anche aspetti e atteggiamenti «sinistri» in senso traslato. Infine, la lastra aurea si ferma, e va a posarsi, significativamente, su una tavola di pietra, rotonda. Ha così trovato una base stabile.
Come osserverà Aniela Jaffé nel corso di questo libro, la rotondità (il motivo mandala) simboleggia in genere una totalità naturale, mentre una struttura quadrangolare ne rappresenta la realizzazione a livello della coscienza. Nel sogno, il piano quadrangolare e la tavola rotonda entrano in contatto, e si rende così possibile la realizzazione consapevole del centro vitale. La tavola rotonda, sia detto incidentalmente, è un notissimo simbolo della totalità, e svolge un ruolo importante nella mitologia – per esempio, la tavola rotonda di Re Artù, che è, a sua volta, una immagine derivata dalla tavola dell’Ultima Cena.
In effetti, quando l’uomo si volge seriamente al proprio mondo interiore, nel tentativo di conoscere se stesso – non meditando inutilmente sui propri pensieri e sui propri sentimenti soggettivi, ma seguendo le più genuine manifestazioni della sua natura oggettiva, quali i sogni, e le fantasie più spontanee – prima o poi il sé finisce per manifestarsi. L’ego avrà così rinvenuto un potere interiore, capace di consentire la realizzazione di qualsiasi possibilità di rinnovamento.
Ma c’è una grossa difficoltà, alla quale finora ho accennato solo indirettamente. Questa consiste nel fatto che ogni personificazione dell’inconscio – l’ombra, l’anima, l’animus, il sé – presentano aspetti sia positivi che negativi. Abbiamo già visto che l’ombra può avere un carattere malvagio, può incentrarsi in una tendenza istintiva che si deve vincere; ovvero può costituire un impulso allo sviluppo, che si deve coltivare e seguire. Parimenti, l’anima e l’animus hanno un duplice aspetto: essi possono determinare, nella personalità, la maturazione dello sviluppo vitalizzante, e l’acquisizione di atteggiamenti creativi, ovvero l’atrofia e la morte psichica. E anche il sé, l’onnicomprensivo simbolo dell’inconscio, può svolgere un’attività di duplice carattere, come nel racconto eschimese che abbiamo riportato a pag. 177 nel quale la «donnetta» si prestava a salvare l’eroina dallo spirito della luna, ma, in definitiva, la tramutava in ragno.
Il lato negativo del sé è il più pericoloso di tutti, proprio perché il sé è il depositario del più rilevante potere psichico. Può far sì che gli uomini si «costruiscano» fantasie megalomani o altrimenti illusorie, che li avvincono e li «posseggono». Chi si trova in tale stato ritiene, con crescente senso di orgoglio, di avere affrontato e risolto i nodi di tutti i grandi problemi cosmici, e smarrisce ogni contatto con la concreta realtà umana. Un sintomo attendibile di tale situazione è la perdita del senso dell’umorismo, del gusto dei rapporti umani.
Così, la comparsa del sé può risultare gravemente dannosa all’ego consapevole. Questo duplice aspetto del sé viene stupendamente illustrato in una. vecchia fiaba iraniana, che si intitola II segreto di Bath Bâdgerd:52
Al grande e nobile principe Hâtim Tâi viene ordinato dal re di esplorare il misterioso Bath Bâdgerd (il castello che non esiste). Quando il principe vi si avvicina, dopo aver superato molte e pericolose avventure, nonostante venga avvertito del fatto che nessuno ne è mai ritornato, insiste per visitarlo. Egli viene ricevuto, in una costruzione dalla forma circolare, da un barbiere, che tiene in mano uno specchio e che lo conduce nel bagno. Ma, non appena il principe entra nell’acqua. si ode uno spaventoso fragore, piomba la tenebra più fitta, il barbiere sparisce, e l’acqua incomincia lentamente a salire. Hâtim nuota disperatamente, finché l’acqua raggiunge il culmine della cupola rotonda, che costituisce il tetto del bagno. Hâtim, a questo punto, ritiene di essere ormai perduto; e tuttavia, dopo aver pregato, afferra la pietra centrale della cupola. Ancora un fragore di tuono, tutto sparisce, e Hâtim si ritrova, solo, nel deserto.
Dopo aver camminato a lungo, e superato enormi disagi, giunge a un bel giardino, nel mezzo del quale sono disposte, circolarmente, delle statue di pietra. Nel centro del cerchio c’è un pappagallo in gabbia. Una voce proviene dall’alto: «Oh, eroe, non ti riuscirà mai di scampare vivo di qui. Una volta Gayomart [il primo uomo] trovò un enorme diamante, che risplendeva più del sole e della luna. Decise di nasconderlo dove nessuno potesse trovarlo, e costruì questo bagno magico perché vi fosse custodito. Il pappagallo, che tu vedi, fa parte dell’incantesimo. Ai suoi piedi giace un arco d’oro, e una freccia su una catena d’oro, con cui, per tre volte, puoi tentare di colpire il pappagallo. Se ti riuscirà, il maleficio verrà infranto, altrimenti sarai trasformato in una statua, come tutti costoro».
Hâtim tenta una prima volta, e fallisce il colpo. Le gambe gli diventano di pietra. Anche la seconda volta fallisce, e diviene di pietra fino all’altezza del busto. La terza volta, chiude gli occhi, gridando «Dio è grande», tira alla cieca e colpisce il pappagallo. Scoppia un tuono, si sollevano nugoli di polvere. Quando gli elementi si sono placati, al posto del pappagallo c’è un enorme, stupendo diamante, mentre le statue hanno ripreso vita. Tutti ringraziano il principe della loro liberazione.
Il lettore avrà riconosciuto, nel corso del racconto, i vari simboli del sé – il primo uomo, Gayomart, la costruzione rotonda, a forma di mandala, la pietra centrale, il diamante. Ma il diamante è circondato da mille pericoli. Il pappagallo diabolico indica e simboleggia il cattivo spirito di imitazione, che fa sì che si manchi il bersaglio, e ci si atrofizzi, da un punto di vista psicologico. Come ho osservato più sopra, il processo di individuazione non tollera imitazioni pappagallesche. A più riprese, in tutti i paesi, gli uomini hanno cercato di copiare e riflettere, in atteggiamenti «esteriori» o ritualistic!, l’originale esperienza religiosa dei loro grandi maestri – Cristo, Budda, o altri – e si sono pertanto «pietrificati». Seguire le orme di un grande maestro spirituale, non significa che si debba copiare e ricalcare lo schema del processo di individuazione attuatosi nella sua vita. Significa solo che si deve, con sincerità e devozione pari alla sua, vivere la nostra vita.
Il barbiere con lo specchio, che a un tratto scompare, simboleggia il dono-potere della riflessione, che Hâtim smarrisce quando più vorrebbe disporne; le acque, che improvvisamente incominciano a crescere, simboleggiano il rischio, che ciascuno di noi corre, di annegare nell’inconscio, di perdersi nelle proprie emozioni. Per comprendere le indicazioni simboliche dell’inconscio, bisogna guardarsi bene dal «porsi» fuori o «accanto» a se stessi; occorre invece vivere, emozionalmente, dentro a se stessi. In effetti, è di vitale importanza che l’ego continui a operare normalmente. Solo se si resta un comune essere umano, consapevole della propria incompletezza, si potranno recepire i contenuti significanti e i processi dell’inconscio. Ma come può, l’uomo, reggere alla tensione fra il sentimento della propria integrazione nell’ambito dell’intero universo, e la sua persistente natura di creatura terrestre, bassa e miserabile? Se, da un lato, mi disprezzo in quanto non sono altro che una mera cifra statistica, la vita si rivela priva di senso, e non vale la pena viverla.53 Ma se, dall’altro, mi sento una fibra di qualche entità molto più vasta, come posso evitare di perdermi con la testa fra le nuvole? È davvero difficile armonizzare questi due «opposti» di carattere intimo, senza cadere nell’uno o nell’altro estremo.
L’aspetto sociale del sé
Al giorno d’oggi, l’enorme aumento della popolazione, particolarmente evidente nelle grandi città, produce inevitabilmente un effetto deprimente. Pensiamo: «Ecco, sono solo uno che vive, nel tal modo, al tale indirizzo, come migliaia di altre persone. Se alcuni di noi muoiono, vengono uccisi, che differenza c’è? Ci sarà sempre troppa gente, in ogni caso». E quando si legge, sui giornali, della morte di innumerevoli sconosciuti, che personalmente non significano niente per noi, si intensifica ancor più il sentimento che la nostra vita non ha alcun valore. Ecco il momento in cui può essere estremamente utile prestare ascolto alle indicazioni dell’inconscio; i sogni, infatti, rivelano al sognante come ogni particolare della sua vita sia collegato strettamente con le più significative realtà.
Ciò che sappiamo solo teoricamente – e cioè, il fatto che tutto dipende dall’individuo – acquista, nei sogni, una evidenza palpabile, che ciascuno può sperimentare direttamente.
Talvolta avvertiamo, con speciale intensità, che il «grande uomo» pretende qualche cosa da noi, e che ci ha assegnato dei compiti peculiarissimi. La nostra reazione a questa esperienza ci può aiutare a risalire la corrente dei pregiudizi collettivi, quando si prenda seriamente in considerazione la nostra psiche.
Naturalmente, non si tratta sempre di un compito semplice, o piacevole. Per esempio, potete aver stabilito di fare una gita con gli amici a fine settimana; un sogno ve lo interdice, e pretende che svolgiate qualche attività creativa. Se date ascolto al suggerimento dell’inconscio, e lo seguite, dovrete aspettarvi una continua interferenza nei vostri piani e propositi consapevoli. La vostra volontà verrà contrastata da altre intenzioni – intenzioni che dovrete seguire, o quanto meno considerare con estrema serietà. Questo vale, almeno in parte, a spiegare perché il senso di dovere, che inerisce inscindibilmente al processo di individuazione, viene più spesso avvertito come un ostacolo ingombrante che come un impulso benefico.
San Cristoforo, il santo patrono di tutti i viaggiatori, è il simbolo che meglio esprime questa esperienza. Secondo la leggenda, egli era arrogantemente orgoglioso della sua tremenda forza fisica, e voleva servire solo chi fosse più forte di lui. Dapprima, lavorò al servizio di un re; ma quando si accorse che il re aveva timore del diavolo lo abbandonò per trasferirsi al servizio di questo. Ma, quando si rese conto che il diavolo aveva terrore del crocifisso, decise che avrebbe servito Cristo, se mai fosse riuscito a trovarlo. Cristoforo seguì il consiglio di un prete, che gli suggerì di aspettare Cristo nei pressi di un guado. Negli anni seguenti trasportò moltissime persone attraverso il fiume. Ma una volta, in una notte oscura e tempestosa, sentì la voce di un fanciullo, che lo chiamava, perché voleva essere portato di là dal fiume. Con estrema facilità, san Cristoforo sollevò il fanciullo sulle spalle, ma si accorse con grande stupore di procedere sempre più lentamente a ogni passo, perché il peso diveniva, a ogni momento, più grave. Quando arrivò in mezzo alla corrente, ebbe come la sensazione di «portare sulle spalle tutto l’universo». Si rese così conto di aver preso su di sé Cristo – e Cristo lo premiò rimettendo i suoi peccati e concedendogli la vita eterna.
Il fanciullo miracoloso è un evidente simbolo del sé, che letteralmente «opprime» il comune essere umano, anche se è la sola realtà che possa riscattarlo. In molte opere d’arte, Cristo fanciullo è raffigurato insieme con la sfera terrestre, un motivo che indica chiaramente il sé, perché il fanciullo e la sfera sono simboli universali délia totalità.
Quando l’uomo cerchi di seguire i suggerimenti dell’inconscio, si renderà conto, come abbiamo già detto, di non poter fare quello che vuole. Ma, altrettanto spesso, egli sarà incapace di fare quello che gli altri pretendono che egli faccia. Accade sovente, per esempio, che egli debba abbandonare il suo gruppo – la sua famiglia, i suoi compagni, tutti i suoi rapporti personali – al fine di ritrovare se stesso. Ecco perché si è talvolta detto che seguire l’inconscio vuol dire assumere un carattere egocentrico e antisociale. Questo, di regola, non è vero, perché, nell’atteggiamento di chi presta attenzione all’inconscio, assume particolare rilevanza un fattore poco conosciuto: l’aspetto collettivo (o, come si potrebbe dire, sociale) del sé.
Da un punto di vista pratico diremo che questo fattore si esprime nella circostanza che chi segue per un considerevole periodo di tempo i propri sogni trova che questi riguardano spesso i suoi rapporti con gli altri. Il soggetto può essere diffidato dai suoi sogni nei confronti di una certa persona: non riponga in essa la sua fiducia! O può sognare di un incontro piacevole e utile con un tale che egli, precedentemente, non ha mai osservato e individuato in modo consapevole. Se il sogno non ci presenta, secondo questi schemi, l’immagine di un’altra persona, ci sono due possibili interpretazioni. La prima, secondo cui la raffigurazione sognata può essere una proiezione; in altri termini, l’immagine onirica del soggetto può essere il simbolo di un atteggiamento interiore dello stesso sognante. Si sogna, ad esempio, di un vicino disonesto, ma questi non è che un simbolo di cui l’inconscio si serve per indicare la nostra disonestà. In tal caso, è compito specifico dell’interprete individuare in quali limiti è la disonestà del soggetto stesso che viene presa in considerazione. (Si parla, a questo riguardo, di interpretazione dei sogni a livello soggettivo.)54
Ma può anche essere che i sogni ci parlino davvero degli altri. In questo modo, l’inconscio svolge un ruolo che siamo ancora ben lungi dall’avere pienamente compreso. Come capita al livello delle forme superiori, anche l’uomo è in contatto, in notevole misura, con gli esseri viventi che lo circondano. Egli ne avverte le sofferenze e i problemi, gli aspetti e le caratteristiche di ordine sia positivo che negativo, istintivamente – in modo del tutto indipendente da ciò che egli, consapevolmente, ne pensa.55
La nostra vita onirica ci consente, per così dire, di gettare un’occhiata su queste percezioni subliminali, e ci dimostra che esse hanno un’indubbia efficacia sulla nostra personalità. Se si sogna «bene» di qualcuno, anche senza interpretare il sogno inevitabilmente accade che si consideri quella persona con maggiore interesse. L’immagine onirica può averci tratto in inganno: si trattava solo di proiezioni di aspetti soggettivi; ma può anche averci dato «informazioni» di carattere oggettivo. Per individuare l’interpretazione esatta, occorre un atteggiamento mentale attento e solerte. Ma, come accade sempre quando si tratti di processi interiori, in definitiva è sempre il sé che ordina e dispone i nostri rapporti umani, finché l’ego consapevole si assume il compito di individuarle, e di ridurle e considerarle all’interno, e non all’esterno della personalità. È in tal modo che si incontrano coloro che hanno una particolare affinità spirituale, o identità di tendenze, e ne risulta un gruppo che si differenzia da tutte le comuni congregazioni sociali. Non che questo gruppo si ponga in conflitto con gli altri; soltanto, ne differisce integralmente, è indipendente da essi. Il processo di individuazione, consapevolmente realizzato, modifica dunque, in tal modo, anche l’ordinaria sfera di rapporti umani del soggetto. I legami familiari, come la parentela o gli interessi comuni, sono sostituiti da un diverso tipo di unità – il legame tramite il sé.
Tutte le attività e le incombenze che appartengono esclusivamente al mondo esteriore sono decisamente dannose alle segrete attività dell’inconscio. In virtù di questi arcani collegamenti, coloro che tendono l’uno verso l’altro finiscono per incontrarsi. È per questo che i vari tentativi di influenzare gli uomini, sia con consigli che con la propaganda politica, anche quando siano ispirati da motivi ideali, si rivelano sempre pericolosi.
A questo punto sorge un problema importante: la parte inconscia della psiche umana può essere in qualche modo influenzata? Esperienze pratiche e osservazioni accurate dimostrano che non si possono influenzare i propri sogni. Ci sono alcuni soggetti, è vero, che asseriscono di poterlo fare. Ma, se si esamina il materiale onirico di costoro, ci si rende conto che essi si comportano come talvolta noi con il nostro cane: gli si ordina di fare quello che si sa bene che esso farebbe comunque, in modo da salvaguardare la nostra illusione di autorità. Solo quando si siano a lungo interpretati i propri sogni, e se ne abbia coscienziosamente esaminato il significato, può accadere che il nostro inconscio venga gradualmente modificato. E, in questo processo di modificazione, vengono necessariamente coinvolti anche i nostri atteggiamenti consapevoli.
Se chi vuole influenzare l’opinione pubblica opera con un uso improprio di simboli, questi saranno efficaci sulle masse nei limiti in cui sono veri, ma se l’inconscio della massa possa essere, o meno, emozionalmente affetto da essi, è un problema che non può essere né impostato né risolto in anticipo, un’incognita del tutto irrazionale. Nessun editore di musica per esempio, può sapere in anticipo se una canzone avrà successo o no, anche se questa si basa su parole o melodie popolari. Nessun deliberato tentativo di influenzare l’inconscio ha avuto esito positivo, e sembra che l’inconscio della massa conservi la sua autonomia, proprio come l’inconscio individuale.56
Talvolta, per esprimere le sue intenzioni, l’inconscio può far uso di un motivo di derivazione esterna; sembra, così, che ne sia influenzato. Per esempio, io ho esaminato molti sogni connessi in un modo o in un altro con Berlino. In questi sogni Berlino è il simbolo del settore psichico debole o malato – il punto focale del pericolo – e, per questo, il punto in cui è verosimile che il sé finisca per manifestarsi. È il punto in cui la personalità del sognante è lacerata e scissa da un conflitto interiore, il punto, pertanto, in cui egli potrà riuscire a comporre gli aspetti contrari della sua psiche. Ho anche avuto a che fare con un numero straordinario di reazioni oniriche al film Hiroshima mon amour. Nella maggior parte di questi sogni veniva espressa l’idea che i due amanti del film dovessero unirsi (e questo simboleggia l’unione degli opposti psichici), altrimenti si sarebbe verificata un’esplosione atomica (simbolo, questo, della dissociazione completa, equivalente alla follia).
Solo quando i manipolatori dell’opinione pubblica confortano la loro attività con l’ausilio di pressioni di ordine commerciale, o di atti di violenza, sembrano conseguire un successo temporaneo. Ma, in realtà, ciò vale solo a determinare una rimozione delle genuine reazioni inconsce. E la rimozione di massa conduce allo stesso risultato della rimozione individuale: vale a dire, alla dissociazione nevrotica e alla malattia psichica. Simili tentativi di rimuovere le reazioni dell’inconscio sono destinati, in prospettiva, al fallimento, perché contrastano radicalmente con i nostri istinti.
Sappiamo, dall’esame del comportamento sociale degli animali superiori, che i piccoli gruppi (composti, approssimativamente, da un numero di individui che varia dalle 10 alle 50 unità), consentono le migliori condizioni di vita così per il singolo animale come per l’intero gruppo, e sembra che l’uomo non faccia eccezione sotto questo riguardo. Il suo benessere fisico, la sua salute psichica, la sua efficienza culturale, fioriscono in simili formazioni sociali. Nei limiti nei quali possiamo attualmente comprendere il processo di individuazione, il sé tende manifestamente a determinare la costituzione di tali piccoli gruppi, creando al contempo precisi punti di contatto fra i sentimenti e gli atteggiamenti di certi individui, e un senso di connessione fra questi e tutti gli altri soggetti. Solo se questi rapporti sono determinati dal sé, si può essere certi che l’invidia, la gelosia, i conflitti, e ogni sorta di proiezione negativa non potranno valere a infrangere l’unità del gruppo. Così, la devozione incondizionata al proprio processo di individuazione determina la forma migliore di adattamento sociale.
Ciò non significa, come è naturale, che non debbano verificarsi contrasti di opinioni, di obblighi discordanti, o disaccordi sulla via «giusta» da seguire; in tal caso, si dovrà sempre volgersi ad ascoltare la propria voce interna, per appurare quale sia la posizione individuale che il sé ci indica.
Incompatibili con l’individuazione sembrano talvolta certi fanatici atteggiamenti politici (mai, però, l’adempimento di doveri essenziali). Un uomo, che si era dedicato interamente alla liberazione del proprio paese dalla occupazione straniera, ebbe questo sogno:
Insieme con certi compatrioti, salgo su per le scale fino all’attico di un museo, verso una sala dipinta di nero, che assomiglia alla cabina di una nave. Una distinta signora di mezza età ci apre la porta; si chiama X, ed è figlia di X. [X era un famoso eroe nazionale della patria del sognante, e aveva cercato, qualche secolo prima, di liberare il paese. Potrebbe essere paragonato a Giovanna d’Arco, o a Guglielmo Teli. In realtà, X non ebbe figli.) Nella sala scorgiamo i ritratti di due aristocratiche signore, che indossano vestiti di broccato, a fiorami. Mentre la signora X ci ragguaglia sui ritratti, questi, all’improvviso, prendono vita; prima si muovono gli occhi, poi è il corpo che sembra sollevarsi come nel respiro. Gli uomini sono disorientati, e si dirigono verso la sala di lettura, dove la signora X spiegherà il fenomeno. Essa dice che è tramite le sue intuizioni e i suoi sentimenti che i ritratti hanno acquistato la vita; ma alcuni degli uomini si indignano, e dicono che la signora X è certamente pazza; certi abbandonano addirittura la sala di lettura.
L’aspetto importante di questo sogno consiste nel fatto che la raffigurazione dell’«anima», la signora X, è interamente una creazione onirica. Essa porta, tuttavia, il nome di un famoso eroe nazionale (come se fosse, tanto per comprenderci, Gugiielmina Teli, la figlia di Guglielmo Teli). Tramite le implicazioni espresse da questo nome, l’inconscio sottolinea il fatto che il sognante non dovrebbe più cercare, come fece X ai suoi tempi, di liberare il paese seguendo procedimenti di carattere esteriore. Ora, dice il sogno, la liberazione è compiuta dall’«anima» (la psiche del sognante), che la realizza destando alla vita le immagini dell’inconscio.
Il fatto che la sala nell’attico del museo assomigli alla cabina di una nave, e sia dipinta di nero, è altamente significativo. Il colore nero richiama l’oscurità, la notte, il ripiegamento sulla propria interiorità, e se la sala sembra una cabina, il museo deve in un certo senso essere una nave. Ciò suggerisce l’idea che quando la terraferma della coscienza collettiva venga sommersa dall’incoscienza e dalla barbarie, questa nave-museo, ricca di immagini viventi, può trasformarsi in un’arca di salvezza, che trasporterà in un altro continente spirituale coloro che vi salgono. I ritratti esposti nei musei sono, di solito, morti residui del passato, e tali si considerano spesso le immagini dell’inconscio, finché si scopre che esse sono vive e significanti. Quando l’anima (che si manifesta in questo sogno nel suo ruolo positivo di guida spirituale) fa oggetto tali immagini della sua intuizione e del suo sentimento, quelle incominciano a vivere.
Gli uomini indignati del sogno rappresentano quella parte della psiche del sognante influenzata dall’opinione della collettività – una entità o un atteggiamento interiore che rifiuta l’emersione alla vita delle immagini psichiche, e ne diffida. Essi personificano la resistenza dell’inconscio, che potrebbe esprimersi con questa frase: «Ma cosa direte se essi ci sganceranno addosso delle bombe atomiche? Ci sarà forse di aiuto l’analisi psicologica?»
Questa parte della psiche che oppone resistenza è incapace di liberarsi dalle considerazioni statistiche e dai pregiudizi razionali estrovertiti. Il sogno, comunque, ci fa comprendere che al giorno d’oggi, qualsiasi effettiva liberazione non può che originare da una trasformazione di ordine psicologico. A qual fine si libererebbe il proprio paese, se, dopo, non sussistesse una significante meta vitale – una meta per raggiungere la quale vale la pena di essere liberi? Se l’uomo non riesce a trovare alcun significato nella propria vita, poco importa che passi il suo tempo sotto un regime comunista o sotto un regime capitalista. Solo se egli può usare della propria libertà per creare qualche atteggiamento significante, assume rilevanza il fatto che egli sia o non sia libero.57 Questa è la ragione per cui reperire il profondo significato della vita è il più importante compito umano per cui al processo di individuazione deve concedersi una assoluta priorità.
I tentativi di influenzare l’opinione pubblica per mezzo di giornali, radio, televisione, pubblicità, sono basati su due fattori. Da una parte, essi si fondano su tecniche di tipo statistico, che rivelano la tendenza della «opinione» o dei «desideri» della massa – cioè, degli atteggiamenti collettivi. Dall’altra, essi esprimono pregiudizi, proiezioni e complessi inconsci (soprattutto il complesso del potere) dei manipolatori dell’opinione pubblica. Ma la statistica non rende giustizia all’individuo. Sebbene l’altezza media delle pietre contenute in un mucchio sia di cinque centimetri, solo poche pietre avranno esattamente quella altezza.
Che il secondo fattore non possa determinare niente di positivo, è chiaro fin dall’inizio. Ma se un singolo individuo si vota con devozione alla propria individuazione, costui eserciterà ripetutamente una positiva efficacia sulla gente che lo circonda. È come se una scintilla scoccasse dall’uno all’altro. E ciò si verifica, per lo più, quando non si abbia alcuna intenzione di influenzare gli altri, e senza l’uso di parole. È proprio su questa strada interiore che la signora X cercava di indirizzare il sognante.
Quasi tutti i sistemi religiosi della terra contengono immagini che simboleggiano il processo di individuazione, o quanto meno ne simboleggiano certi stadi.58 Nei paesi cristiani, il sé è proiettato, come già si è visto, nella figura del secondo Adamo: Cristo. In Oriente, le figure rilevanti sono quelle di Krishna e di Budda.
Per coloro che seguono una determinata religione (vale a dire, ne credono effettivamente gli insegnamenti e i dogmi), l’ordinamento psicologico della vita si attua tramite i simboli religiosi, e anche i loro sogni si mantengono spesso entro un tale ambito. Quando il defunto papa Pio xn proclamò il dogma dell’Assunzione di Maria, una donna cattolica sognò, e ciò valga ad esempio, di essere una sacerdotessa cattolica. Nel suo inconscio il dogma trovava una estensione in questo senso: «Se Maria è ora una dea, essa dovrà bene avere delle sacerdotesse». Un’altra donna cattolica, che aveva avvertito una certa ripugnanza per alcuni aspetti secondari ed esteriori del suo credo, sognò che la chiesa della sua città natale era stata abbattuta e ricostruita, ma che il tabernacolo contenente l’ostia consacrata e la statua della Vergine Maria doveva ancora essere trasportato dalla vecchia alla nuova chiesa. Il sogno le fece comprendere che alcuni aspetti antropomorfici della sua religione necessitavano di una revisione, ma che i simboli fondamentali di essa – Dio divenuto Uomo, e la Gran Madre, la Vergine Maria – sarebbero sopravvissuti a quella revisione.
Tali sogni dimostrano l’interesse che l’inconscio ripone nelle rappresentazioni religiose di qualsiasi individuo. A questo punto sorge il problema se sia possibile individuare una tendenza generale comune ai sogni di carattere religioso degli uomini moderni.59 Nelle manifestazioni dell’inconscio nella moderna cultura cristiana – protestante o cattolica – il dottor Jung ha spesso osservato che opera una tendenza inconscia diretta a integrare la nostra formula trinitaria della divinità con un quarto elemento, che presumibilmente avrebbe carattere femminile, e una natura ambigua, o addirittura maligna.60 In realtà, questo quarto elemento ha sempre avuto esistenza nell’ambito delle nostre rappresentazioni religiose, ma separatamente dalla immagine di Dio, fino a divenirne l’antagonista, sotto la forma del principio della materia (o del signore della materia, cioè il diavolo). Ora, sembra che l’inconscio voglia riunire questi estremi, perché la luce è divenuta troppo vivida, e l’oscurità troppo fonda. Naturalmente, è il simbolo centrale della religione, l’immagine della divinità, che risulta più esposto alle tendenze inconsce alla trasformazione.
Un monaco tibetano riferì una volta al dottor Jung che i più significativi mandala tibetani sono elaborati dalla immaginazione, o dalla fantasia diretta, quante volte sia turbato l’equilibrio psichico del gruppo, o un determinato pensiero non possa venire espresso, perché non è ancora compreso nel contenuto della dottrina sacra, ed è quindi ancora oggetto di ricerca e di esame. In queste osservazioni si rilevano due aspetti ugualmente importanti del simbolismo del mandala. 11 mandala opera a fine di conservazione — esattamente, al fine di restaurare un ordinamento precedentemente in vigore. Ma esso persegue anche la finalità creativa di dare espressione e forma a qualche cosa che tuttora non esiste, a qualche cosa di nuovo e di unico. II secondo aspetto è ancora più importante del primo, ma non lo contraddice. Perché, nella maggior parte dei casi, ciò che vale a restaurare il vecchio ordine, comporta simultaneamente qualche nuovo elemento creativo. Nel nuovo ordine viene sussunto, a più alto livello, il vecchio schema. Il processo è quello della spirale ascendente, che si sviluppa verso l’alto, mentre – al contempo – ritorna sempre allo stesso punto.
Il disegno di una semplice donna, educata in ambiente protestante, ci mostra il mandala nella forma di una spirale. In sogno quella donna ricevette l’ordine di disegnare la divinità. Questa le fu successivamente mostrata (sempre in sogno) riprodotta in un libro. Veramente, di Dio ella riuscì a scorgere solo il manto ondeggiante, i cui panneggi determinavano uno stupendo effetto di luce e di ombra. Ciò contrastava vivamente con la stabilità della spirale nel profondo cielo azzurro. Affascinata dal manto e dalla spirale, la sognante non prestò molta attenzione a una terza figura situata sulle rocce. Quando si svegliò, e si pose a riflettere, chiedendosi a chi corrispondessero quelle figure divine, comprese improvvisamente che si trattava dello «stesso Dio». Questo fatto le procurò un terribile shock, di cui risentì gli effetti per molto tempo.
Di solito lo Spirito Santo è rappresentato nell’arte cristiana come una colomba, o come un anello di fuoco, ma in questo sogno, esso si manifestò come una spirale. Si tratta di una nuova idea, «non ancora recepita nella dottrina», sorta spontaneamente dall’inconscio. Che lo Spirito Santo sia la forza che determina ogni sviluppo della nostra mentalità religiosa non è un’idea nuova, naturalmente, ma è nuova la raffigurazione simbolica di esso in forma di spirale.
La stessa donna fece in seguito un altro disegno, ancora ispirato a un sogno, in cui la sognante, insieme con il suo animus positivo, veniva raffigurata davanti a Gerusalemme, nel momento in cui l’ala di Satana si abbassa a oscurare la città. L’ala di Satana le richiamò fortemente alla memoria il manto di Dio nel primo sogno, ma in questo la spettatrice veniva sollevata in alto, nel cielo, e scorgeva davanti a sé una terrificante scissione fra le rocce. I movimenti del mantello di Dio sono un tentativo per raggiungere Cristo, la figura situata sulla destra; ma il tentativo non riesce.’Nel secondo sogno, la stessa scena è vista dal basso, dal punto di vista umano. Se si guarda da un livello di eccezionale altezza, si identificano quei movimenti con una parte di Dio; al di sopra di essi, si innalza la spirale, simbolo di possibili sviluppi ulteriori. Ma se si guarda dal fondo della nostra realtà umana, la stessa cosa, che si muove nell’aria, è niente altro che l’oscura, terribile ala del demonio.
Queste due immagini si «verificarono», per dir così, nella vita della sognante, in un modo sul quale qui non ci interessa insistere, ma è ovvio che esse contengono un significato collettivo che trascende quello individuale. Esse possono suggerire l’idea di una discesa della tenebra divina sul mondo cristiano, una oscurità, tuttavia, che non chiude la porta a un processo evolutivo. Dal momento che l’asse della spirale non si muoveva verso l’alto, ma nello sfondo dell’immagine, si deduce che l’evoluzione non determinerà l’ascesa a sublimi altezze spirituali, né la rovina nel regno della materia, ma il trasferimento in un’altra dimensione, probabilmente, appunto, nel mondo in cui si muovono quelle divine figure. E ciò significa nel mondo dell’inconscio.
Quando dall’inconscio di un soggetto emergono simboli religiosi che sono, anche in parte, diversi da quelli che ci sono noti, si teme, in genere, che ciò possa tornare di danno ai simboli e alla simbologia ufficialmente riconosciuti da una data religione. Anzi, questo timore fa sì che molti respingano la psicologia analitica e l’intero mondo dell’inconscio.
Osservando questa resistenza da un punto di vista esclusivamente psicologico, posso affermare che, nei confronti del fenomeno religioso, gli esseri umani si dividono in tre categorie. La prima, è composta da coloro che davvero credono ai dogmi della loro fede, quali che essi siano. Per costoro simboli o dogmi corrispondono con tanta esattezza a quello che essi avvertono nella loro intimità, che non c’è pericolo che essi vengano mai assaliti da dubbi profondi. Questo si verifica solo quando le opinioni consapevoli e i moti del retroterra inconscio convivono in modo relativamente armonioso. Chi rientra in questa prima categoria può considerare le nuove scoperte psicologiche senza pregiudizi, e senza alcun timore di perdere la propria fede. Anche se i sogni dovessero determinare l’emersione di qualche particolare non ortodosso, questo verrebbe immediatamente integrato e assorbito nell’ortodossia della concezione di base.
La seconda categoria è costituita da coloro che hanno completamente smarrito la fede, e l’hanno sostituita con sistemi di idee puramente consapevoli e razionali. Per questi uomini, la psicologia del profondo non è niente altro che l’introduzione a un nuovo capitolo della conoscenza umana, che riguarda la scoperta di settori psichici di recente individuazione; costoro non dovrebbero dunque trovarsi per niente imbarazzati a imbarcarsi per una nuova avventura conoscitiva, a esaminare i loro sogni e a saggiarne la verità.
C’è infine un terzo gruppo di uomini, i quali in parte non credono più nelle loro tradizioni religiose (e un simile atteggiamento ha natura probabilmente mentale, riflessa), in parte, invece, vi credono tuttora. Ad esempio di questa categoria di uomini potremmo ricordare il filosofo francese Voltaire. Egli attaccò violentemente la Chiesa Cattolica con argomenti di ordine razionale (écrasez l’infâme), ma sul letto di morte, secondo quanto si riferisce, accettò l’estrema unzione. Sia vero o falso questo particolare, è certo che la sua mentalità era assolutamente irreligiosa, mentre il suo mondo sentimentale ed emozionale conservava una certa aderenza all’ortodossia. Uomini del genere ci fanno venire in mente la gente che resta stretta e imprigionata fra le portiere automatiche degli autobus; che non può né liberarsi scendendo a terra, né entrare completamente dentro il veicolo. Naturalmente, i sogni di costoro potrebbero aiutarli a uscire dal loro dilemma, ma in genere essi si trovano imbarazzati a rivolgersi verso le profondità dell’inconscio, perché, in effetti, non sanno bene quello che pensano e quello che vogliono. Per affrontare seriamente l’inconscio occorre una forte dose di coraggio e di integrità personale.
L’intricata situazione di coloro che restano prigionieri nella terra di nessuno situata fra queste due condizioni mentali è in parte determinata dalla circostanza che tutte le dottrine religiose ufficiali appartengono effettivamente al mondo della coscienza collettiva (ciò che Freud chiamava il super-ego); ma originariamente, nell’antichità, nacquero dall’inconscio. Ecco un punto che molti storici della religione e molti teologi contestano. Essi preferiscono supporre che l’origine di quelle dottrine vada ricercata nella «rivelazione». Ho compiuto, nel corso di vari anni, numerosi tentativi di trovare una prova per l’ipotesi jungiana su questo problema; ma essa si è rivelata di difficile reperibilità, perché la maggior parte dei riti sono tanto antichi che è impossibile rintracciarne le origini.
Il seguente caso, tuttavia, mi sembra che possa offrirci, quanto meno, una importante indicazione: i Black Elk [Alce Nero], medico-stregone della tribù dei Sioux Oglala, morto poco tempo fa, ci racconta, nella sua autobiografia intitolata Alce Nero parla, che, all’età di nove anni, si ammalò gravemente, e, durante lo stato di coma, ebbe una terrificante visione. Egli scorse quattro gruppi di stupendi cavalli provenire dai quattro angoli del mondo e, seduti su una nube, i sei Grandi Padri, gli spiriti ancestrali della sua tribù, «i progenitori dell’intero mondo». Essi gli dettero sei simboli taumaturgici per la sua gente, e gli indicarono nuove possibilità vitali. Ma il ragazzo, all’età di sedici anni, divenne improvvisamente affetto da una terribile fobia, che si manifestava, durante i temporali, nell’imminenza dei tuoni, perché egli udiva «gli abitanti del tuono» che lo chiamavano, e gli dicevano «di far presto». Questo fenomeno gli fece venire in mente il fragore di tuono prodotto dal galoppo dei cavalli comparsi nella sua visione. Un vecchio stregone gli spiegò che il suo terrore derivava dal fatto che egli si era tenuto per sé la sua visione, e gli consigliò di riferirla alla sua tribù. Così egli fece, e in seguito la sua visione fu «oggettivata» in un procedimento rituale, nel corso del quale vennero usati veri cavalli. Non solo lo stesso Black Elk, ma anche molti altri membri della sua tribù si sentirono meglio dopo aver partecipato a questo rito. Alcuni furono anche guariti dalle loro malattie. Black Elk dice: «Anche i cavalli sembravano più sani e più felici dopo la loro danza».61
Il rito non venne ripetuto, perché, poco tempo dopo, la tribù fu sterminata. Ma ecco un caso in cui un rito tuttora persiste. Diverse tribù eschimesi, che vivono in Alaska, nei pressi del Colville River, spiegano in questo modo l’origine della loro festa dell’aquila: 62
Un giovane cacciatore uccise un’aquila dalle proporzioni eccezionali, e restò tanto colpito dalla bellezza del rapace che lo impagliò, e ne fece un feticcio, sacrificando in suo onore. Un giorno che il giovane si era spinto molto nell’interno, durante la caccia, gli apparvero due uomini-animali, che lo guidarono nel paese delle aquile. Qui egli udì un rumore confuso, come di tamburo, e i due messi gli spiegarono che si trattava del battito del cuore della madre di quell’aquila che egli aveva abbattuto. Quindi al cacciatore apparve lo spirito dell’aquila, sotto la forma di una donna vestita di nero. Questa gli chiese di promuovere, fra la sua gente, una festa dell’aquila, in onore del figlio ucciso. Dopo che le aquile gli ebbero spiegato come avrebbe dovuto svolgersi questa festa, il giovane si ritrovò, esausto, nello stesso luogo in cui gli si erano fatti incontro i due messi. Tornando a casa, insegnò alla sua gente come avrebbe dovuto essere celebrata la festa dell’aquila – che, da allora, si è sempre svolta secondo quelle stesse indicazioni.
Da questi esempi risulta chiaramente che un rito o un cerimoniale religioso può originare direttamente da una rivelazione inconscia sperimentata da un singolo individuo. Dopo una simile origine, sono i vari gruppi culturali che determinano lo sviluppo delle attività religiose per mezzo della enorme influenza che essi esercitano sull’intera vita della società. Nel corso di un lungo processo evolutivo, il materiale originario viene strutturato e plasmato secondo varie formule e attività rituali, è raffinato, acquista sempre più una forma definita.” Il processo di oggettivazione, tuttavia, presenta un grosso inconveniente. Moltissimi sono infatti coloro che non sanno niente della originaria esperienza, e si limitano a credere a quello che hanno imparato, al riguardo, da parenti o maestri. Essi non hanno alcuna consapevolezza dei fondamenti reali del rito, e ancora meno conoscono gli effetti di quell’esperienza.
Nelle loro forme attuali, elaborate ed eccessivamente antiquate, tali tradizioni religiose spesso ostacolano gli impulsi inconsci allo sviluppo e alle modificazioni creative. I teologi, talvolta, arrivano perfino a difendere questi «veri» simboli religiosi, e le dottrine simboliche, contro la scoperta di una funzione religiosa della psiche inconscia, dimenticando che i valori per cui essi combattono devono la loro esistenza a quella stessa funzione. Senza una psiche umana che ricevesse l’ispirazione divina, e l’esprimesse in parole, o le desse una forma artistica, nessun simbolo religioso avrebbe mai potuto emergere al livello della nostra realtà umana. (Basti pensare ai profeti e agli evangelisti.)
A chi obbietti che esiste una realtà religiosa in sé, indipendentemente dalla psiche umana, posso rispondere solo ponendo, a mia volta, questa domanda: «Ma chi afferma ciò, se non una psiche umana?» Non importa quello che si afferma: resta il fatto che è impossibile prescindere dall’esistenza della psiche – perché, in effetti, siamo compresi in essa, ed essa è il solo mezzo tramite il quale possiamo sperare di afferrare la realtà.
Così, la moderna scoperta dell’inconscio chiude, e per sempre, una porta. Essa vale infatti a confutare l’idea illusoria, così cara a certuni, che l’uomo possa conoscere la realtà spirituale in sé. Anche nella fisica moderna una porta è stata definitivamente chiusa dal «principio di indeterminazione» di Heisenberg, che esclude la possibilità di una conoscenza della realtà fisica in sé.64 La scoperta dell’inconscio, comunque, compensa la perdita di queste care illusioni aprendoci davanti un immenso e inesplorato campo di realizzazioni, in direzione del quale l’oggettività dell’indagine scientifica si compenetra stranamente con la personale ricerca etica.
Ma, come del resto ho già detto, è praticamente impossibile rendere conto dell’intera realtà dell’esperienza che si può realizzare in questo nuovo campo. Gran parte di essa ha carattere di irripetibilità, e può venire espressa solo parzialmente per mezzo del linguaggio. Ecco, ancora, un’altra porta chiusa: questa volta, nei confronti dell’illusione che sia possibile comprendere integralmente un soggetto, e consigliargli quello che deve e quello che non deve fare. Ma, di nuovo, la perdita di tale illusione è compensata, in questo nuovo territorio sperimentale, dalla scoperta della funzione sociale del sé, che opera misteriosamente per fare incontrare quegli individui che, arcanamente, tendono l’uno verso l’altro.
Così, le divagazioni intellettuali sono sostituite dal concreto verificarsi di avvenimenti reali nel mondo della psiche. In tal modo, affrontare seriamente il processo di individuazione secondo gli schemi che abbiamo tracciato, significa, per l’individuo, assumere un atteggiamento completamente diverso nei confronti della propria vita. Per gli scienziati, significa anche un nuovo e diverso metodo per affrontare i fatti del mondo esteriore. Le conseguenze di questo fenomeno nel campo della conoscenza umana e della vita sociale, non possono certo venire attualmente previste. Ma, in quanto a me, mi sembra certo che la scoperta jungiana del processo di individuazione costituisce un fatto del quale le generazioni future dovranno tenere il debito conto, se vorranno evitare un generale ristagnamento, o addirittura il pericolo di un regresso.
Note
1 Un esame approfondito degli schemi labirintici dei sogni è contenuto in Jung, Collected Works, voi. xu, parte I. Si veda anche Gerhard Adler, Studies in Analytical Psychology, London, 1948.
2 Per la nozione jungiana del Sé, si vedano Collected Works, vol. tx, parte H, pagg. 5 e segg., 23 e segg.; e voi. xu, pagg. 18 e segg., 41 e segg., 174, 193.
3 Dei Naskapi parla Franck G. Speck in Naskapi: The Savage Hunter of the Labrador Peninsula. University of Oklahoma Press, 1935.
4 11 concetto della globalità psichica è espresso in Jung, Collected Works, voi. xiv, pag. 117, e voi. ix, parte il, pagg. 6, 190. Si veda anche Collected Works, voi. ix, parte i, pagg. 275 e segg., e pagg. 290 e segg.
5 II racconto della quercia è tradotto da Richard Wilhelm. Dschuang- Dsi; Das wahre Buch vom südlichen Blütenland, Jena, 1923, pagg. 33-34.
6 Jung parla dell’albero come simbolo del processo di individuazione in Der philosophische Baum, in Von der Wurzeln des Bewusstseins, Zürich, 1954.
7 II «dio locale» al quale si sacrificava sull’altare campestre di pietra corrisponde, per molti aspetti, all’antico genius loci. Si veda Henri Maspéro, La Chine antique, Paris, 1955, pagg. 140 e segg. (Questa citazione è dovuta alla gentilezza di Miss Ariane Rump.)
8 Jung sottolinea la difficoltà di descrivere il processo d’individuazione in Collected Works, voi. xvii, pag. 179.
9 Questo breve cenno alla importanza dei sogni infantili deriva soprattutto da fung, Interpretazione psicologica dei sogni infantili, note e lezioni, E.T.H., Zürich, edizione privata. L’esempio riferito nel testo è tratto da un corso non ancora tradotto, Psychologische Interpretation von Kinderträumen, 1939-40, pagg. 76 e segg. Si veda anche, di Jung, Lo sviluppo della personalità, in Collected Works, voi. xvii; di Michael Fordham, The Life of Childhood, London, 1944 (specialmente pag. 104); di Erich Neumann, The Origins and History of Consciousness; di Frances Wiekes, The Inner World of Consciousness, New York-London, 1927; e, di Eleanor Bertine, Human Relationships, London, 1958.
10 Jung esamina il nucleo psichico in Lo sviluppo della personalità. Collected Works, voi. xvn, pag. 175, e voi. xiv, pagg. 9 e segg.
11 Per motivi fiabeschi corrispondenti a quello del re malato, cfr.
Johannes Boite e Georg Polivka, Anmerkungen zu den Kinder- und Hausmärchen der Brüder Grimm, vol. I, 1913-32, pagg. 503 e segg. – cioè, tutte le variazioni del racconto di Grimm L’uccello d’oro.
12 Approfonditi esami del concetto di ombra possono trovarsi anche in Jung, Collected Works, voi. ix, parte il, cap. 2, e voi. xn, pagg. 29 e segg., e in The Undiscovered Self, London, 1958 pagg. 8-9. Vedasi anche Frances Wiekes, The Inner World of Man, New York- Toronto, 1938. Un buon esempio della realizzazione dell’ombra è contenuto in G. Schmalz, Komplexe Psychologie und Körperliches Symptom, Stuttgart, 1955.
13 Particolari sulla concezione egizia del mondo sotterraneo possono trovarsi in The Tomb of Rameses VI, Bollingen Series, xl, parti 1 e 2, Pantheon Books, 1954.
14 Jung parla della natura della proiezione in Opere, voi. vi, «Definizioni», pag. 582; e voi. vili, pag. 272 e segg.
15 II Corano (Qur’an) è stato tradotto da E.H. Palmer, Oxford University Press, 1949 [tr. it.: Il Corano, Sansoni, Firenze, 1961]. Per la interpretazione jungiana della storia di Mosè e di Khidr, si veda Collected Works, voi. ix, pag. 135 e segg.
16 II racconto indiano Somadeva: Vetalapanchavimsati, è stato tradotto da C.H. Tawney, Jaico-Book, Bombay, 1956. Si veda anche l’eccellente interpretazione psicologica di tïenry Zimmer riguardo a The King and the Corpse, Bollingen Series, xi, Pantheon, New York, 1948.
17 11 riferimento al maestro Zen è tratto da Der Ochs und sein Hirte (trad, di Koichi Tsujimura), Pfullingen. 1958. pag. 95.
18 Per ulteriori analisi del concetto di anima, si vedano: Jung, Collected Works, voi. ix, parte 2, pagg. 11-12, e cap. 3; vol. xvn, pagg. 198 e segg.; vol. vin, pag 345; voi. xi, pagg. 29-31, 41 e segg., 476 ecc.; voi. xn, parte i. Si veda anche, di Emma Jung, Animus and Anima, Two Essays, The Analytical Club of New York, 1957; Eleanor Bertine, Human Relationships, parte 2; Esther Harding, Psychic Energy, New York, passim, e altri.
19 Lo sciamanesimo presso gli Eschimesi è stato descritto da Mircea Eliade in Der Schamanismus, Zürich, 1947, specialmente pag. 49 e segg. [tr. it.: Lo sciamanesimo, Bocca, Milano], e da Knud Ras- mussen, in Thulefahrt, Frankfurt, 1926, passim.
20 II racconto del cacciatore siberiano è tratto da Rasmussen, Die Gabe des Adlers, Frankfurt am/Mein 1926, pag. 172.
21 Un esame della figura della «Signorina veleno» è contenuto in W. Hertz, Die Sage vom Giftmädchen. Abh. der k. bayr. Akad. der Wiss., i Cl. xx Bd. i Abt., München, 1893.
22 La figura della principessa omicida è esaminata da Chr. Hahn, in Griekische und Albanesische Märchen, vol. i, München-Berlin, 1918, pag. 301: Der (äger und der Spiegel der alles sieht.
23 La «pazzia d’amore», causata da una proiezione dell’anima è esaminata in Eleanor Bertine, Human Relationships, pag. 113. Si veda anche l’eccellente scritto del dottor H. Strauss, Die Anima als Projektions-Erlebnis, manoscritto non pubblicato, Heidelberg, 1959.
24 Jung esamina la possibilità della integrazione psichica tramite un’anima negativa in Collected Works, voi. xi, pag. 164 e segg.; vol. ix, pagg. 224 e segg.; voi. xn, pagg. 25, 110 e segg., 128.
25 Per quanto riguarda i quattro stadi AeW’anima, si veda Jung, Collected Works, vol. xvi, pag. 174.
26 L’Hypnerotomachia di Francesco Colonna è stata analizzata da
Linda Fierz-David in Der Liebestraum des Poliphilo, Zürich, 1947 [cfr. Hypnerotomachia Poliphili, edizione critica e commento a cura di G. Pozzi e L.A. Ciapponi, 2 voli., Antenore, Padova, 1964].
27 La citazione, ove si definisce il ruolo dell ‘anima è tratta da Aurora Consurgens I, tradotta da E.A. Glover. L’edizione tedesca, a cura di M.-L. von Franz si trova in Jung, Mysterium Coniunctionis, voi. in, 1958.
28 Jung ha esaminato il mito cavalleresco della dama in Collected Works, voi. vi, pagg. 274, 290 e segg. Si veda anche Emma Jung e M.-L. von Franz, Die Graalslegende in psychologischer Sicht, Zürich, 1960.
29 Per quanto concerne l’aspetto con cui l’animus si presenta come «convinzione sacra», si veda Jung, Two Essays in Analytical Psi- chology, London, 1928, pag. 127 e segg.; Collected Works, voi. ix, cap. 3. Si veda anche Emma Jung, Animus and Anima, passim; Esther Harding, Woman’s Mysteries, New York, 1955; Eleanor Bertine, Human Relationships, pag. 128 e segg.; Toni Wolff, Studien zu C.G. Jungs Psychologie, Zürich, 1959, pag. 257 e segg.; Erich Neumann, Zur Psychologie des Weiblichen, Zürich, 1953.
30 II racconto zingaresco può trovarsi in Der Tod als Geliebter, Zigeuner-Märchen. Die Märchen der Weltliteratur, a cura di F. von der Leyen e P. Zaunert, Jena, 1926, pag. 117 e segg.
31 L’animus quale fonte di positive qualità maschili è esaminato da C.G. Jung in Collected Works, voi. ix, pag. 182 e segg., e in Two Essays, cap. 4.
32 Per il racconto austriaco della principessa nera, si veda «Die schwarze Koenigstochter», Märchen der Weltliteratur, Jena, 1926.
33 II racconto eschimese dello spirito della luna e tratto da Von einer Frau die zur Spinne wurde, tradotto dall’opera di K. Rasmussen, Die Gabe des Adlers, cit.
34 Un esame delle personificazioni del Sé (in vesti di giovani o di vecchi) è contenuto in Jung, Collected Works, voi. ix, pag. 151 e segg.
35 Per quanto riguarda il mito di P’an Ku, si veda Donald A. Mac Kenzie, Myths of China and Japan, London, pag. 260, e H. Ma- spéro, Le Taoisme, Paris, 1950, pag. 109. V. anche J.J.M. de Groot, Ùniversismus, Berlin, 1918, pagg. 130-31; H. Koestler, Simbolik der Chinesischen Universismus, Stuttgart, 1958, pag. 40; e Jung, Mysterium Coniunctionis, voi. n, pagg. 160-61.
36 Per la simbologia di Adamo quale Uomo Cosmico, si veda August Wünsche, Schöpfung und Sündenfall des ersten Menschen, Leipzig, 1906, pagg. 8-9, e pag. 14; Hans Leisegang, Die Gnosis, Leipzig, Kroenersche Taschenausgabe. Per una interpretazione psicologica, cfr. Jung, Mysterium Coniunctionis, vol. n, pagg. 160-61; e Collected Works, vol. xn, pag. 346 e segg. Possono esistere anche connessioni storiche fra il cinese P’an Ku, il persiano Gayomart, e le leggende di Adamo; si veda, al riguardo, Sven S. Hartmann, Gayomart, Uppsala, 1953, pagg. 46, 115.
37 II concetto di Adamo come di una «super-anima» che origina da una palma, è esaminato da E. S. Drower, in The Secret Adam, A Study of Nasoraean Gnosis, Oxford, 1960, pagg. 23, 26, 27, 37.
38 La citazione di Meister Eckhart è tratta da F. Pfeiffer, Meister Eckhart, tradotto da C.B. de Evans, London, 1924, voi. n, pag. 80.
39 Per l’esame jungiano del simbolo dell’Uomo Cosmico, si veda da Collected Works, voi. ix, parte 2, pagg. 36 e segg.; Answer to fob, Collected Works, vol. XI, e Mysterium Coniunctionis, vol. ll, pag.
215 e segg. Cfr. anche Esther Harding, Journey into Self, London,
1956, passim.
40 La figura di Adam Kadmon è oggetto di analisi in Gershom Scholem, Major Trends in Jewish Mysticism, 1941 [tr. it.: Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore, Milano]; e in Jung, Mysterium Coniunctionis, voi. il, pag. 182 e segg.
41 II simbolo della coppia regale è esaminato in Jung, Collected Works, voi. xvi, pag. 313, e in Mysterium Coniunctionis, vol. i, pagg. 143, 179; voi. il, pagg. 86, 90, 140, 285. Si consideri anche il Simposio di Platone, e la figura gnostica dell’uomo-Dio, l’anthropos.
42 Per quanto riguarda la pietra simbolo del Sé, si veda Jung, Von den Wurzeln des Bewussteins, Zürich, 1954, pag. 200 e segg., 415 e segg., 449 e segg.
43 II momento in cui viene consciamente avvertita l’esigenza dell’individuazione è studiato in Jung, Collected Works, voi. xn, passim; Von den Wurzeln des Bewussteins, pagg. 200 e segg.; Collected Works, vol. ix, parte 2, pagg. 139 e segg., 236, 247 e segg.; 268; Collected Works, vol. xvi, pag. 164 e segg. Si veda anche Collected Works, vol. vin, pag. 253 e segg.; e Toni Wolff, Studien zu C.G. Jungs Psychologie, pag. 43. Si veda, soprattutto, Jung, Mysterium Coniunctionis, vol. Ii, pag. 318 e segg.
44 Jung, The Trascendent Function, in Collected Works, vol. vm.
45 Lo zoologo Adolf Portmann descrive 1’«interiorità» degli animali in Das Tier als soziales Wesen, Zürich, 1953, pag. 366.
46 Le credenze degli antichi Germani in relazione alle pietre tombali vengono esaminate in Paul Herrmann, Das Alt germanische Priesterwesen, Jena, 1929, pag. 52; e in Jung, Von den Wurzeln des Bewust- seins, pag. 198 e segg.
47 La definizione di Morieno della pietra filosofale è riportata in Jung, Collected Works, voi xn, pag. 300, nota 45.
48 Che la sofferenza sia necessaria per il reperimento della pietra è un principio alchimistico; cfr. Jung, Collected Works, voi. xn, pag. 280.
49 Per una approfondita esposizione del concetto di sincronicità, si veda Jung, Synchronicity: an Acausai Connecting Principle, in Collected Works, vol. vili, pag. 419 e segg.
50 Sull’opinione di Jung relativamente alla necessità di accostarsi alle religioni orientali per entrare in contatto con l’inconscio, si veda Concerning Mandala Symbolism, Collected Works, vol. ix, parte i, pag. 335 e segg., e voi. xn, pag. 212 e segg. (dell’ultimo, si vedano anche le pagg. 19, 42, 91 e segg., 101, 119 e segg., 159, 162).
51 II testo cinese è tratto da Lu K’uan Yii, Charles Luck, Ch’an and Zen Teaching, London, pag. 27.
52 II racconto di Bath Bâdgerd è tratto da Märchen aus Iran, Die Märchen der Weltliteratur, Jena, 1959, pag. 150 e segg.
53 Jung esamina il sentimento, tipicamente moderno, dell’uomo che si sente un «numero statistico» in The Undiscovered Self, pagg. 14, 109.
54 L’interpretazione dei sogni a livello soggettivo è discussa da Jung in Collected Works, voi. xvi, pag. 243, e voi. vili, pag. 266.
55 Che l’uomo sia istintivamente «in armonia» con l’ambiente è idea esaminata in A. Portmann, Das Tier als soziales Wesen, pag. 65 e segg., e passim. Si veda anche N. Tinbergen, A Study of Instinct, Oxford, 1955, pagg. 151 e segg., 207 e segg.
56 El. E.E. Hartley esamina l’inconscio di massa in Fundamentals of Social Psychology, New York, 1952. Si veda anche Th. Janwitz e R.
Schulze, Neue Richtungen in der Massenkommunikationforschung, Rundfunk und Fernsehen, 1960, pagg. 7, 8 e passim. Anche, ibid. pagg. 1-20, e Unterschwellige Kommunication, ibid. 1960, quaderno 3/4, pagg. 283 e 306. (L’informazione è dovuta alla gentilezza di Mr. René Malamud.)
57 II valore della libertà (in vista della creazione di qualche cosa di utile) è sottolineato da Jung, in The Undiscovered Self, pag. 9.
58 Per quanto concerne le figure religiose che simboleggiano il processo di individuazione, si veda Jung, Collected Works, voi. xi, pag. 273 e passim, e ibid. parte 2, e pag. 164 e segg.
59 Jung esamina il simbolismo religioso nei sogni moderni in Collected Works, voi. xu, pag. 92. Si veda anche ibid. pagg. 28, 169 e segg. 207 ecc.
60 L’aggiunta di un quarto elemento alla Trinità è esaminata da Jung in Mysterium Coniunctionis, voi. n, pagg. 112 e segg., 117 e segg., 123 e segg. e in Collected Works, voi. vili, pag. 136 e segg., e 160-62.
61 La visione di Alce Nero è tratta da Black Elk Speaks, a cura di John G. Neihardt, New York, 1922. Edizione italiana: Alce Nero parla, Mondadori, Milano, 1973 ‘, 1977 J.
62 II racconto relativo al festival eschimese dell’aquila è tratto da Knud Rasmussen, Die Gabe des Adlers, pag. 23 e segg., 29 e segg.
63 Jung esamina le modificazioni dell’originale materiale mitologico in Collected Works, voi. xi, pag. 20 e segg., e voi. xu, Introduzione.
64 II fisico W. Pauli ha descritto gli effetti di moderne scoperte scientifiche, come quelle di Heisenberg, in Die Philosophische Bedeutung der Idee der Komplementarität, «Experientia», vol. vi/2, pag. 72 e segg.; e in Wahrscheinlichkeit und Physik «Dialectica», vm/2, pag. 117.