Parla la sociologa israeliana Orna Donath, autore di un libro-indagine che ha fatto discutere: “Ma questo non significa non amare i propri figli”
FRANCESCA SFORZA
“Li chiamo, mi preoccupo, naturalmente sto in ansia per loro, organizzo pranzi e cene, ci parlo, ci gioco. Mentre sto lì però non faccio che pensare: quand’è che finisce? Quand’è che posso andare a letto a leggermi un libro?”. Questa è Tirtza, una delle ventitré “madri pentite” ascoltate dalla sociologa israeliana Orna Donath nel suo libro-bestseller tradotto ora in italiano con il titolo “Pentirsi di essere madri”, per Bollati Boringhieri. Sono molte forse le madri che si riconoscono nelle parole di Tirtza, ma non tutte, alla domanda “Se tornassi indietro, rifaresti i figli?” risponderebbero, senza dubbio alcuno, un definitivo e secco “No”. Il libro di Orna Donath, che ha già provocato polemiche negli Stati Uniti, in Germania e Spagna, racconta di loro, donne che se potessero tornare indietro non sceglierebbero la maternità, donne che si dichiarano insofferenti al solo pensiero dei figli, e che però spesso sono costrette al silenzio. Perché confessare questo genere di scarsa predisposizione – o peggio il proprio pentimento – è ancora un tabù.
Orna Donath, perché ha deciso di scrivere questo libro?
Al termine del mio primo studio, condotto tra il 2003 e il 2007, su donne e uomini ebrei israeliani che non volevano diventare genitori, sono rimasta colpita da una frase che veniva rivolta prevalentemente alle donne: “Te ne pentirai, ti pentirai di non essere diventata madre”. Il rimpianto per la mancata maternità veniva usato nei confronti delle donne come un’arma, mentre ogni possibilità di pensare il pentimento per la maternità realizzata era semplicemente esclusa. E siccome ero sicura che ci fossero madri pentite, ho deciso di lavorarci.
Proviamo a tracciare un profilo psicologico delle madri pentite? Che tipo di donne sono?
Sono una sociologa, dunque tracciare un profilo psicologico supera i limiti del mio mandato. E poi non lo farei anche se ne fossi in grado, perché credo che distolga l’attenzione dai significati socio-politici della questione. Quello che posso dire è che allo studio hanno partecipato donne provenienti da diversi gruppi sociali: giovani e anziane, povere e benestanti, laiche e religiose, sposate e divorziate.
Qual è il significato socio-politico della maternità come scelta?
Il patriarcato ha bisogno di ritrarre e mantenere la maternità come un luogo sacro, come esperienza unica e essenziale nella vita delle donne, al fine di tenerle “al loro posto” e trarne i relativi benefici. Finché le donne restano al posto loro, il sistema può perpetuarsi e l’ordine sociale non è in pericolo. Pertanto, scegliere volontariamente di non diventare madre o pentirsi di esserlo stata sono percorsi di vita che dovrebbero essere nominati il meno possibile, come se non esistessero.
Cosa significa per un figlio convivere con una madre pentita?
Come figlia so perfettamente che i bisogni dei bambini non vanno ignorati, ma nel mio studio non ho parlato con i figli, quindi non posso dire molto sul loro punto di vista. Quel che posso dire è che ci sono importanti possibilità che i bambini sentano che le loro madri non sono interessate alla maternità, e potrebbero assumersene la responsabilità, colpevolizzandosi. Per questa ragione alcune donne che hanno partecipato al mio studio hanno detto di volerne parlare un giorno con i figli, quando saranno anziane. Hanno detto di volerlo fare perché esiste una differenza – secondo loro – tra amare i figli e pentirsi della maternità, e vorrebbero consegnare una mappa emotiva corretta, in modo che i figli non si sentano in colpa. Un’altra cosa che posso dire è che dopo una conferenza che ho tenuto sul libro, uno studente mi si è avvicinato e mi ha detto di aver capito solo allora che sua madre aveva rimpianto tutta la vita di essere diventata madre. Mi disse anche che aveva avuto l’occasione di pensare a sua madre come una donna, una persona autonoma rispetto al suo essere madre, e che questo gli consentiva di provare empatia verso di lei, non solo rabbia, senso di colpa e delusione. Capisco questa rabbia di noi figli, ma forse esiste una stanza per osservare le nostre madri come donne, non solo come madri.
Parliamo un po’ di padri, ma anche di mariti. La divisione dei compiti in casa e con i figli aiuta queste donne ad accettare con più serenità la loro condizione?
Alcune delle donne intervistate sono le prime accuditrici dei loro figli su una base quotidiana, altre invece sono meno coinvolte e hanno delegato il ruolo al padre, altre ancora vedono i loro figli solo occasionalmente o hanno figli già grandi e autonomi. A dispetto delle diversità, ho registrato che un maggiore o minore coinvolgimento dei padri nell’accudimento non elimina il pentimento di queste madri.
Quanto conta l’assenza di un lavoro, di una carriera, di una realizzazione fuori dalle mura domestiche?
Venti su ventitré delle donne intervistate avevano un lavoro fuori casa e uno stipendio. In alcuni casi è ciò che rende loro tutto più difficile, in altri invece è ciò che maggiormente allevia il sentimento di rimpianto.
Lei ha affrontato il tema all’interno di una società molto prolifica come quella israeliana. Crede che valga anche per altre società?
Certamente, anche in società non occidentali se è per questo. Da quando il dibattito si è aperto, dopo la pubblicazione del libro, ho ricevuto centinaia di messaggi da parte di donne di tutto il mondo. Anche se Israele ha una storia particolare e un tipo preciso di pro-natalismo, penso che non ci sia società che per ragioni di nazionalismo o semplicemente economiche non promuova la natalità. Il mito della maternità grava sulle teste della maggior parte delle donne del mondo, se non in tutte.
Il suo libro è stato tradotto in vari Paesi. Come hanno reagito le donne alla lettura?
Durante questo ultimo anno ho ricevuto centinaia di messaggi da parte di donne di tutto il mondo e molte ne ho anche incontrate durante le diverse presentazioni. Le ho ascoltate con attenzione quando mi dicevano che il libro era per loro molto importante, indipendentemente dal fatto che fossero madri o meno, e se volessero diventarlo o no. Ad alcune, quelle che provavano rimpianto o pentimento, ha consentito di respirare meglio; ad altre ha permesso di ammettere con una certa serenità che no, non volevano diventare madri. Ma ho anche incontrato donne che hanno comprato il libro per regalarlo alle loro madri, perché potessero dar voce al non detto e cercare di costruire un ponte là dove prima non sembrava possibile. Non ho abbastanza parole per dire quanto mi senta profondamente toccata dal fatto tante donne differenti abbiano usato questo libro per i loro bisogni, e che in molti casi sia stato una compagnia al loro senso di solitudine.
Lei si interroga molto sul significato del pentimento nelle religioni monoteiste e, di conseguenza, sulle nostre società. Crede che parlare del proprio pentimento renderebbe le nostre società più aperte?
Ciò che ho scritto si riferisce anche all’uso politico che viene fatto delle emozioni, in particolare al modo in cui la società tende a controllare, manipolare, supervisionare, intervenire, mettere a tacere e opprimere i sentimenti umani. Permettere alle madri di articolare le proprie storie potrebbe significare che le società dovranno ripensare ordini sociali che portano grande beneficio alle nazioni, all’economia, alle logiche capitaliste, agli interessi maschili. Riconoscere che ci sono donne che non si sentono a proprio agio con la maternità significa lasciare loro la libertà di decidere del proprio corpo, di pensieri, ricordi, emozioni, desideri e bisogni. E questo, è presumibilmente pericoloso per una società che dipende dalla capacità delle donne di “fare il loro lavoro” senza metterla in discussione. Quindi, sì, credo che questo atto “pericoloso” di parlarne potrebbe effettivamente essere cruciale per ridurre la sofferenza in un numero imprecisato di donne.
Cosa pensa della maternità surrogata?
Che è una pratica molto controversa, in cui la decostruzione della maternità come predisposizione biologica è semmai una conseguenza, non il presupposto di partenza. Indipendentemente dalla surrogata però dobbiamo ri-pensare e mettere in discussione l’assioma sociale in base al quale la maternità è una cosa della natura, e che è naturale per le donne voler essere madri perché sono femmine.
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