GLI ANIMALI NEL DIRITTO: SEMPLICI COSE O SOGGETTI GIURIDICI?

Come sono considerati gli animali dall’ordinamento giuridico? Sono titolari di diritti, come le persone, o al contrario sono “cose” prive di tutela? E il loro “status” giuridico sta cambiando nel tempo? 

Alessandro Paolini

 

Anche gli animali hanno diritti, perché noi abbiamo verso di essi doveri”

(Piero Martinetti, 1923, “Breviario spirituale”)

 

Triste a dirsi ma, nel diritto contemporaneo, gli animali sono ancora considerati delle “cose”, benchè senzienti. Questa loro qualità, in particolare la capacità di provare dolore, li accomuna tuttavia all’uomo, facendo sì che la maggior parte degli ordinamenti giuridici vieti di trattarli con particolari forme di crudeltà. Ma ad ordinamenti diversi corrispondono regole diverse, che stabiliscono maggiori o minori tutele, e perfino nello stesso ordinamento, ad esempio quello italiano, le norme sono messe in discussione e “superate” da sentenze innovative. Non tutti gli animali, infine, sono posti sullo stesso piano: a seconda della specie si applicano norme differenziate. Come diceva George Orwell (ne “La Fattoria degli animali”): Tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più eguali degli altri. Nel caso degli animali d’affezione, fortunatamente, si stanno facendo passi lenti ma costanti verso il riconoscimento di una forma di “personalità giuridica” per certi versi analoga a quella riconosciuta a noi umani. Ma andiamo con ordine…

La situazione in Italia

In molti Paesi (tra cui il nostro) agli animalisi applicano le stesse norme destinate agli oggetti. Non si dice esplicitamente da nessuna parte che gli animali siano “cose” ma lo si desume dalle norme che stabiliscono che possano esseri oggetti di proprietà, di vendita, e perfino che possano essere uccisi “legalmente”.

Ma l’Italia non è nell’Unione Europea? E quest’ultima non tutela gli animali?

In effetti il Trattato sul funzionamento dell’UE, all’articolo 13, stabilisce che “l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti” salvo però precisare che ciò vale “rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale”. In tutti questi casi, dunque l’UE “se ne lava le mani” demandando agli stati la potestà di decidere se a prevalere sul valore del benessere animale, debbano essere le prescrizioni religiose o le “consuetudini” culturali.

Il Codice penale, dal canto suo, punisce come crimine l’uccisione o il maltrattamento degli animali per crudeltà o senza necessità. Non è però considerata reato la morte violenta dell’animale se avviene negli allevamenti zootecnici, negli zoo oppure durante le battute di caccia. Sempre il Codice penale prescrive una semplice contravvenzione a chi detenga animali “contro natura e producendo gravi sofferenze”.

La capacità di provare sofferenza

Nella maggior parte degli ordinamenti il minimo comun denominatore per prevedere una qualche forma di tutela degli animali è la capacità di questi ultimi di provare sofferenza. Si tratta di una caratteristica che li accomuna all’uomo, individuata storicamente anche nel pensiero dei più importanti filosofi animalisti, come ad esempio Peter Singer (nell’opera”Liberazione animale”). Per questo motivo in Svizzera – per esempio – la legge federale tutela la dignità e il benessere dei vertebrati e, solo in qualche caso, di alcuni invertebrati, perchè questi ultimi sono considerati incapaci di provare sofferenza.

C’è crudeltà e crudeltà…

Il diritto appare distinguere fra crudeltà brutale e crudeltà sadica. La prima attiene all’intensità della violenza usata dall’uomo contro gli animali ma, a differenza della seconda, non essendo perpetrata per il puro gusto di fare male agli animali è generalmente ammessa dal diritto.

Interessanti a questo proposito alcune sentenze di condanna emesse in Italia dalla Corte di Cassazione penale. La prima faceva seguito al rinvenimento, nel cassone di un veicolo di cacciatori, di tre caprioli: due morti e uno ancora in vita. La sentenza ha stabilito che la caccia non deve infliggere sofferenze inutili e non necessarie, che avrebbero potuto essere evitate al capriolo superstite se i cacciatori gli avessero inferto un “colpo di grazia”.

La seconda sentenza riguardava il caso di alcuni pescatori che avevano utilizzato dei piccioni come esche per pescare i pesci siluro. La Corte ha osservato che normalmente si usano larve o altre esche che non provano sofferenza e che utilizzare dei piccioni non è dunque necessario.

Ultimo caso, quello in cui un ristoratore aveva messo nel frigorifero degli astici ancora vivi. In questo caso la Corte non ha criticato il fatto che fossero vivi, dato che è consuetudine cucinare i crostacei in questo modo, ma piuttosto che fossero stati messi al freddo. Infatti la scienza ha recentemente dimostrato che anche i crostacei provano dolore. Per questo in molti supermercati o ristoranti vengono tenuti in ambienti o in acquari a temperatura controllata, vicina a quella dei tiepidi mari tropicali in cui vivono. In questo caso al ristoratore è stata comminata una semplice contravvenzione perché si è ritenuto che non avesse intenzione di far soffrire gli astici. Dunque buttare gli astici nell’acqua bollente per cucinarli è una crudeltà brutale ma ammissibile per consuetudine mentre tenerli vivi al freddo può essere considerato crudeltà sadica se c’è l’intenzione di farli soffrire.

Ciò che è consuetudine è anche lecito

Una prima constatazione è quella che – quando il diritto non prevede diversamente – la consuetudine dei comportamenti umani si presume essere priva di crudeltà. Se la maggior parte delle persone fa bollire vivi i crostacei allora il diritto lo considera una pratica lecita. Negli Stati Uniti vengono puniti i comportamenti che provocano negli animali pene “inusitate” (cioè non di uso comune). La macellazione degli animali sia a scopi alimentari che a fini rituali e religiosi è consentita pressochè in tutto il mondo.

L‘Unione europea ha stabilito con direttiva che gli animali da allevamento debbano essere dispensati da sofferenze inutili, ma ciò che serve per aumentare la qualità del prodotto (ad esempio la castrazione) è consentito. Sono allora i singoli Paesi che, in alcuni casi, pongono virtuosamente dei limiti a norme sin troppo permissive: si pensi alla pratica consentita dalla UE di alimentare forzatamente le anatre per ingrossarne il fegato – in quanto tradizione alimentare – che è stata invece vietata in Italia. Altro esempio l’allevamento e uccisione di animali per ricavarne pelliccie che – sempre in Italia – è vietato dal 1° gennaio 2022.

Animali di seria A e di serie B

Permane purtroppo una grande disparità di trattamento fra gli animali. Nella sperimentazione scientifica, ad esempio, le norme permettono di usare animali, solo quando è necessario, purché siano specie che soffrono meno di altre. Nel 2009 la Ue ha vietato la sperimentazione sugli animali solo se finalizzata alla produzione di cosmetici.

Diverso è il discorso per alcune tipologie di animali “fortunati” come i primati o gli animali da affezione. L’Italia ha ratificato la Convenzione europea per la protezione di animali da compagnia che prevede il divieto assoluto di impartire loro sofferenze e “angoscia” e considera la persona che detiene tali animali responsabile della loro salute e del loro benessere. E’ vietata anche la chirurgia estetica su di essi, come il taglio di orecchie e code. In Italia sono inoltre tutelati da parecchi anni anche i cani e gatti randagi, con il divieto di sopprimerli. D’altra parte cani e gatti sono in assoluto gli animali più tutelati, ben più – ad esempio – dei conigli e dei cavalli che sono protetti solo se da affezione. L’UE stabilisce che non si possano fare pellicce da cani e gatti, neanche da quelli selvatici, ma solo perché non è possibile distinguerli da quelli domestici.

Il progresso nella tutela di cani e gatti

L’identità personale di cani e gatti è ormai riconosciuta in molti ordinamenti, che la tutelano analogamente all’identità degli esseri umani. In Italia alcune sentenze hanno stabilito che, in caso di divorzio fra coniugi, i cani e i gatti vengono affidati a chi tra i due coniugi li tratta meglio e regolato per l’altro coniuge la possibilità di vederli in giorni e orari stabiliti, così come di norma avviene per i figli. La giurisprudenza di merito sempre più riconosce ai proprietari di animali d’affezione, in caso di morte provocata, un “risarcimento per danno non patrimoniale” e sempre più nel diritto si tiene in considerazione “l’interesse” dell’animale, con un vero e proprio salto di qualità giuridico.

Questi ed altri temi sono stati affrontati dal professor Raffaele Caterina, ordinario di Diritto Privato presso l’Università degli Studi di Torino, in varie occasioni tra cui il convegno “Gli animali nel diritto: Da cose a soggetti?” svoltosi presso l’Accademia delle Scienze, a Torino, qualche tempo fa. In quell’occasione sono state anche ricordate le figure e le opere di Piero Martinetti e di Cesare Goretti, studiosi e filosofi animalisti tra i primi ad occuparsi di diritti animali in Italia.

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