Dopo l’ennesimo incontro di pugilato finito in tragedia, è di nuovo il caso di chiedersi se questo sport valga la pena di essere giocato

È successo di nuovo. Il pugile americano 27enne Patrick Day, peso mediomassimo, è morto il 17 ottobre dopo aver trascorso alcuni giorni in fin di vita, steso al decimo round dal suo avversario Charles Conwell. Non è il primo ad aver perso la vita quest’anno a causa della boxe: a luglio Maxim Dadashev e a settembre Boris Stanchov sono morti dopo un Ko sul ring.
Conwell, l’avversario di Patrick Day, ha pubblicato una lettera in cui dice tra le altre cose “Non volevo ti succedesse questo, volevo solo vincere”. Ma qui è il problema. È vero che molti sport sono pericolosi: sport come l’equitazione o il deltaplano raggiungono facilmente tassi di mortalità più alti del pugilato, che in Usa si assestava, negli anni Novanta, su circa 1,3 morti ogni 10mila pugili. È anche vero che la mortalità del pugilato è sistematicamente diminuita negli ultimi decenni, e che il Ko è un’eventualità relativamente rara negli incontri. Ma se in un altro sport morti e traumi sono incidenti, che non dovrebbero accadere, la boxe è, come disse Umberto Veronesi “l’unico sport che ha come finalità quello di far male all’avversario”. Botte sul volto, sul cranio, fino al punto da far crollare l’avversario, stordito, per almeno dieci secondi. Semplificato al massimo, il pugilato è uno sport dove si lotta per causare una commozione cerebrale. Per questo motivo da decenni non solo Veronesi ma le associazioni di medici in tutto il mondo chiedono di prendere un provvedimento drastico: abolire il pugilato.
Quanto fa male un incontro di boxe? È stato calcolato che un colpo ben assestato di un pugile equivale alla botta presa da una palla da bowling di sei chili che si muova a quasi trenta chilometri all’ora. Oltre ai rischi comuni a ogni trauma cranico del genere, i colpi presi durante un incontro di boxe tendono a far ruotare la testa, mettendo in forte tensione nervi e vasi sanguigni, aumentando il rischio rispetto ad altri sport dove i traumi cranici sono comuni, come il football americano. I colpi durante la boxe inoltre sono ripetuti in un tempo breve. Quando il pugile inizia a essere suonato, rilassa i muscoli del collo, il che significa una accelerazione maggiore della testa al colpo successivo – e quindi più alta probabilità di danni gravi al cervello.
Il vero dramma sanitario del pugilato è però l’effetto a lungo termine dei traumi cranici subiti lungo la carriera che causano la cosiddetta encefalopatia traumatica cronica, detta anche demenza pugilistica o, alla buona, sindrome del pugile suonato. Resa immortale da Paolo Conte nella canzone Sparring Partner:

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Lungi dall’essere un luogo comune, è una sindrome fin troppo reale. Una percentuale significativa di pugili – fino al 50% – soffre danni neurologici a lungo termine, e di questi il 17-20% presenta segni netti di encefalopatia traumatica cronica. I sintomi vanno dalla perdita dell’equilibrio (con un’andatura simile a quella di un ubriaco – da cui il termine gergale di lingua inglese punch drunk, letteralmente ubriaco di pugni) a tremori, vertigini, sordità, deterioramento cognitivo e dell’umore. Benché la natura esatta della sindrome sia ancora da chiarire, ci sono somiglianze con la malattia di Alzheimer, sia nei sintomi che nell’accumulo di fibrille di proteine nei neuroni. Ultimamente questi rischi si sono ridotti con la riduzione del numero dei round e della lunghezza delle carriere dei pugili, ma non sono spariti. Per ridurli ulteriormente sarebbe necessario vietare i colpi alla testa, ma questo renderebbe la boxe probabilmente irriconoscibile.
Dobbiamo mettere la boxe nella soffitta di sport barbari, come potevano essere gli incontri di gladiatori? È la consueta tensione tra sicurezza e libertà individuale. Chi pensa che il pugilato abbia un posto nello sport contemporaneo ritiene non solo che sia una libera scelta dello sportivo, ma che permetta, ai giovani che vengono da ambienti problematici e poveri, di incanalare l’aggressività e riscattarsi socialmente. Una fiaba, quella del pugilato come strada di un onesto seppur violento riscatto, che ha ispirato molto cinema a partire dalla saga di Rocky Balboa. Alcuni, come la deputata conservatrice inglese Charlotte Leslie, lo sostengono apertamente. Al di là del fatto che diventare pugile non è garanzia di diventare ricchi e famosi come Mike Tyson, se anche fosse c’è da chiedersi quale libertà sia quella di scegliere tra una vita di microcriminalità o rischiare con altissima probabilità seri danni neurologici. Se l’unico modo di uscire dal ghetto per un giovane è quello di dare e prendere pugni sul ring, forse dovremmo cambiare qualcosa nella società. Inoltre il fatto che i pugili siano consenzienti non è necessariamente un argomento conclusivo. Anche due persone che si pestano in una rissa fuori da un locale hanno scelto di picchiarsi di loro volontà, ma rischiano una sanzione.
La boxe non è sempre esistita. Era praticata già dai Sumeri ed era uno sport popolare nell’antica Grecia, ma in Occidente ne abbiamo fatto a meno per secoli, tornando popolare solo intorno al XVII secolo. Il pugilato era vietato fino a poco tempo fa, in Norvegia e in Svezia (dove ora è legale ma strettamente regolamentato) ed è tuttora fuorilegge in Islanda. Anche se non esiste una risposta obiettivamente giusta o sbagliata, anche se la boxe ha ispirato addirittura molta letteratura, l’idea di un mondo senza pugilato dovrebbe perlomeno essere presa in considerazione.
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