Nella newsletter dello Studio Legale Cataldi ho trovato questo articolo.
Lo condivido poiché, a parer mio, è scritto benissimo, ha dei contenuti importanti e vale la pena di essere letto… sino all’ultima riga! 😉
Alla prossima,
Fabrizio
Lo condivido poiché, a parer mio, è scritto benissimo, ha dei contenuti importanti e vale la pena di essere letto… sino all’ultima riga! 😉
Alla prossima,
Fabrizio
Il diritto e il dovere di resilienza
L’Autrice, attraverso riferimenti normativi, ci introduce all’importanza di educare i nostri figli alla capacità di ricominciare a saltare dopo le inevitabili cadute della vita
Dott.ssa Margherita Marzario – Così iperprotetti, i bimbi del ricco e avanzato Occidente sempre più spesso non appaiono in grado di affrontare le minime paure e difficoltà della vita: è quanto sostenuto da molti esperti, tra cui lo psicologo-terapeuta canadese Michael Ungar (1).
In un mondo irto di difficoltà e insidie occorre, anzi urge, educare i figli alla resilienza.
Ma cos’è la resilienza? “Entrata da alcuni anni nel campo della psicologia, della pedagogia e del counseling questa parola – che in latino significa “tornare a saltare” (resilio), come scrive la giornalista ed esperta Maria Angela Masino – indica la (meravigliosa) capacità di reagire di fronte alle difficoltà, non dandosi per vinti.
La parola “resilienza – afferma la Masino – appartiene al linguaggio fisico e significa la resistenza che oppongono i metalli agli urti. Ma in psicologia il concetto assume un significato più ampio: non vuol dire banalmente resistere, ma riuscire a utilizzare l’esperienza difficile per non avere più paura e trovare soluzioni sempre nuove di fronte ai problemi”.
Nel preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 si legge che “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società”. È doveroso e necessario, pertanto, formare bambini resilienti, capaci cioè di dare risposte adeguate a episodi traumatici senza rimanere chiusi nel loro incistamento, ma attingendo dalle ignote e inesauribili risorse interiori.
La resilienza – continua la Masino – “è la dote che manca ai nostri figli: iperprotetti e tenuti al sicuro da problemi, difficoltà e fatiche crescono senza sviluppare difese e senza mettersi mai in discussione. Finché la realtà non li urta con tutta la sua durezza, trovandoli incapaci di reagire. Prepararli si può e si deve”.
Nella Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, del giugno 2007, si legge: “[…] «resilienza» che permette al bambino di ricostruirsi”. Finora è l’unico riferimento normativo alla resilienza, pur non avendo alcun valore vincolante. Il legislatore del 2007 ha inserito la parola “resilienza” dopo aver scritto: “Quando i diritti del bambino o dell’adolescente sono negati da condizioni esistenziali inique, quando i suoi punti di riferimento sono compromessi, è possibile aiutarlo a ritrovare la fiducia nella vita e la stima di sé. Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso”. Resilienza è coltivare e dare risorse (da “risorgere, sorgere di nuovo, rinascere”), la possibilità di ritrovare, di riprovare.
Anche se la resilienza non è scritta nelle fonti normative, è necessario che sia iscritta nel codice della vita: questo è un altro aspetto della responsabilità genitoriale.
Nella Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia non si parla espressamente di resilienza, ma la stessa è tutta permeata di un’ottica resiliente perché la promozione dell’infanzia è volta in tal senso. Nel preambolo e nell’art. 18 della Convenzione si usa il verbo “allevare” e il termine “allevamento”, il cui significato etimologico è “levare su, alzare verso”, proprio come deve essere l’educazione alla resilienza.
“Per farcela, poi – dice ancora Maria Angela Masino – il piccolo deve imparare a dare una direzione alle emozioni. Dai dati è emerso che i bimbi che reagiscono a una esperienza di dolore regolando il comportamento sul loro sentire e attivando così reazioni impulsive (come lanciare oggetti, urlare, irrigidirsi …) sono poi quelli che riferiscono livelli di malessere maggiori. Se il genitore è un ‘campo-base’ sicuro, dove rifugiarsi, il bambino si lascerà calmare e rassicurare, altrimenti rimarrà allarmato e talvolta disperato perciò incapace di organizzare i suoi sentimenti. È d’obbligo una precisazione: la resilienza è diversa dalla ‘resistenza’, termine con il quale si indica la tendenza a chiudere gli occhi davanti ai propri traumi, fino a rimuoverli e ad andare avanti senza consapevolezza.
Queste sensazioni rendono vulnerabili e distolgono l’attenzione dalla cosa più importante: mantenere l’orientamento sul compito”.
Nella Convenzione Internazionale del 1989 non si parla né di emozioni né di sentimenti, ma più volte si parla di “spirito” e di “spirituale”. Un esempio per tutti è nell’art. 17 dove si legge: “[…] promuovere il suo benessere sociale, spirituale e morale nonché la sua salute fisica e mentale”. Si noti che l’aspetto spirituale è anteposto a quello morale, fisico e mentale. Lo spirito è proprio il soffio di vita da cui si originano le emozioni, i sentimenti e le reazioni. Per alimentare questa vitalità è necessario che i bambini siano educati alla resilienza (capacità di dirigere, di organizzare, di regolare le proprie reazioni in condizioni avverse), a “resilire” (verbo latino), a “ritornare di corsa”, a “rimbalzare” nella vita. Questo “l’orientamento e i consigli necessari” da dare ai bambini (art. 5 Convenzione Internazionale).
“La creatività non è altro che un’intelligenza che si diverte” diceva Albert Einstein. Il corrispondente di quest’affermazione può essere considerato l’art. 31 della Convenzione Internazionale ove è disciplinato il diritto al gioco del fanciullo e si parla di “vita culturale e artistica” e di attività ricreative e di attività di natura creativa, in cui ci si ricrea e si ricrea. Il gioco non è passatempo ma divertimento, che etimologicamente significa “volgere altrove, in direzione opposta” e, quindi, distogliere l’animo da pensieri molesti. Il gioco (che non si riduce solo ai giocattoli) è “ri-sorsa” di vita per i bambini e per chi gioca con loro.
“Esiste tutta una letteratura sulla relazione fraterna e sull’ordine di genitura – afferma Serena Lecce, docente di psicologia evolutiva. La relazione fraterna è di per sé stabile e dura tutta la vita, ma non è voluta, “non siamo noi a scegliercela. Questo ne spiega, in parte, l’ambivalenza. Troviamo coppie di fratelli in cui emergono solidarietà, alleanza, complicità. In altre, invece, gelosia e conflittualità. In ogni caso – spiega la Lecce – la relazione fraterna modella il nostro mondo interno: affonda le radici in una condivisione di vita famigliare, molto intensa a livello emotivo. In famiglia il bambino inizia a stare con gli altri, imparando a negoziare, a competere, a coordinarsi, a cercare alleati. Aspetti che la psicologia evolutiva considera fondamentali per lo sviluppo della competenza. I bambini che sanno coordinarsi sono quelli che poi si fanno più amici e vanno meglio a scuola. Tale vantaggio riguarda soprattutto i secondogeniti”.
La relazione tra fratelli e l’educazione ad una sana relazione fraterna sono importanti perché contribuiscono a creare e a far sperimentare quell’ambiente familiare, quell’atmosfera di felicità, amore e comprensione, quello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà in cui è necessario che il bambino cresca (dal preambolo della Convenzione Internazionale). Laddove sia possibile non si lascino i figli unigeniti ma si dia loro la possibilità della ricchezza (anche di sofferenze) di avere dei fratelli, una delle risorse di vita e della vita, opportunità di resilienza.
Nel momento “in cui veniamo al mondo – afferma lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro – portiamo con noi in dote non soltanto i timori ancestrali della nostra specie (paura dell’abbandono e della separazione), ma anche – nati come siamo per vivere – l’ottimismo e la fiducia infantile nel carattere promettente dell’esistenza. Avremo una vita per ricrederci, ma all’inizio l’ottimismo è nella nostra natura e si manifesta attraverso ostinati, talvolta impercettibili, segni di vitalità anche nelle peggiori condizioni di nascita”.
Educare alla resilienza (in metallurgia “capacità di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi”) è insito nell’esistenza stessa, perché tanto il parto per la madre quanto la nascita per il neonato sono una forma di resilienza, ancor più evidente nel parto in acqua in cui il bambino risale dall’acqua: spingere e spingersi per andare avanti nella vita. Questo è uno dei significati della disposizione dell’art. 27 par. 1 della Convenzione Internazionale: “[…] il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita atto a garantire il suo sviluppo”. Il pessimismo, il nichilismo, il disfattismo non appartengono alla vita, ma alla non vita di alcuni adulti mal cresciuti.
C’è pure chi educa “senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo – aperto a ogni sviluppo ma tentando di essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato” si legge ne “Il limone lunare” dell’educatore Danilo Dolci. In particolare i genitori non devono far realizzare i propri sogni infranti ai figli né farli vivere in un mondo di sogni, ma sognare per loro il meglio e farli sognare. In tal modo li si educa anche alla resilienza, capacità di risalire, di risaltare in caso di cadute nella vita.
Educare alla resilienza è salvaguardare il benessere personale e generale, prevenire costi personali, familiari e sociali, in linea con quanto previsto in uno dei capoversi della Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986): “È essenziale mettere in grado le persone di imparare durante tutta la vita, di prepararsi ad affrontare le sue diverse tappe e di saper fronteggiare le lesioni e le malattie croniche. Ciò deve essere reso possibile a scuola, in famiglia, nei luoghi di lavoro e in tutti gli ambienti organizzativi della comunità. È necessaria un’azione che coinvolga gli organismi educativi, professionali, commerciali e del volontariato, ma anche le stesse istituzioni”.
Dovere educativo che appare richiamato nella nuova formulazione dell’art. 147 cod. civ. “Doveri verso i figli”: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis”. Testo differente da quello previgente in cui si leggeva: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. È emblematica ogni singola innovazione legislativa, dall’assistenza morale che si deve ai figli al rispetto delle “loro” inclinazioni, al plurale. Resilienza: dalle inclinazioni, piegarsi in basso, alle aspirazioni, volgersi verso l’alto, conoscere le inclinazioni per ri-conoscere le aspirazioni.
Recita un antico proverbio buddista: “se non riesci a sollevare il tavolo, non è che il tavolo è troppo pesante, ma sei tu che sei troppo debole”. Riconoscere le proprie debolezze è già un punto di forza: ciò è importante nello sviluppo dell’autostima e nell’educazione alla resilienza dei bambini.
Mutuando le parole di esperti si può dire che la resilienza: è la capacità di riscrivere una “nuova biografia con personaggi interni più tolleranti e benevoli rispetto a quelli che ci avevano condannato alla sofferenza” (Mauro Mancia, neurofisiologo e psicoanalista); “significa crescere, diventare cioè sempre più capaci di sviluppare la tolleranza per i traumi subiti nel passato e realizzare un equipaggiamento interno che permetterà di sopravvivere alle nuove inquietudini del presente” (Walter Machet, psicologo e psicoterapeuta).
La resilienza è la capacità di far fronte alle fisiologiche depressioni (avvallamenti, abbassamenti) della vita affinché non diventino depressione patologica, sempre più dilagante e dilaniante.
(1) M. Ungar, “Too safe for their own good” (Troppo protetti per il loro bene), ed. McClelland & Stewart 2009
Fonte: Il diritto e il dovere di resilienza (www.StudioCataldi.it)
Dott.ssa Margherita Marzario – Così iperprotetti, i bimbi del ricco e avanzato Occidente sempre più spesso non appaiono in grado di affrontare le minime paure e difficoltà della vita: è quanto sostenuto da molti esperti, tra cui lo psicologo-terapeuta canadese Michael Ungar (1).
In un mondo irto di difficoltà e insidie occorre, anzi urge, educare i figli alla resilienza.
Ma cos’è la resilienza? “Entrata da alcuni anni nel campo della psicologia, della pedagogia e del counseling questa parola – che in latino significa “tornare a saltare” (resilio), come scrive la giornalista ed esperta Maria Angela Masino – indica la (meravigliosa) capacità di reagire di fronte alle difficoltà, non dandosi per vinti.
La parola “resilienza – afferma la Masino – appartiene al linguaggio fisico e significa la resistenza che oppongono i metalli agli urti. Ma in psicologia il concetto assume un significato più ampio: non vuol dire banalmente resistere, ma riuscire a utilizzare l’esperienza difficile per non avere più paura e trovare soluzioni sempre nuove di fronte ai problemi”.
Nel preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 si legge che “[…] occorre preparare appieno il fanciullo ad avere una vita individuale nella società”. È doveroso e necessario, pertanto, formare bambini resilienti, capaci cioè di dare risposte adeguate a episodi traumatici senza rimanere chiusi nel loro incistamento, ma attingendo dalle ignote e inesauribili risorse interiori.
La resilienza – continua la Masino – “è la dote che manca ai nostri figli: iperprotetti e tenuti al sicuro da problemi, difficoltà e fatiche crescono senza sviluppare difese e senza mettersi mai in discussione. Finché la realtà non li urta con tutta la sua durezza, trovandoli incapaci di reagire. Prepararli si può e si deve”.
Nella Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, del giugno 2007, si legge: “[…] «resilienza» che permette al bambino di ricostruirsi”. Finora è l’unico riferimento normativo alla resilienza, pur non avendo alcun valore vincolante. Il legislatore del 2007 ha inserito la parola “resilienza” dopo aver scritto: “Quando i diritti del bambino o dell’adolescente sono negati da condizioni esistenziali inique, quando i suoi punti di riferimento sono compromessi, è possibile aiutarlo a ritrovare la fiducia nella vita e la stima di sé. Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso”. Resilienza è coltivare e dare risorse (da “risorgere, sorgere di nuovo, rinascere”), la possibilità di ritrovare, di riprovare.
Anche se la resilienza non è scritta nelle fonti normative, è necessario che sia iscritta nel codice della vita: questo è un altro aspetto della responsabilità genitoriale.
Nella Convenzione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia non si parla espressamente di resilienza, ma la stessa è tutta permeata di un’ottica resiliente perché la promozione dell’infanzia è volta in tal senso. Nel preambolo e nell’art. 18 della Convenzione si usa il verbo “allevare” e il termine “allevamento”, il cui significato etimologico è “levare su, alzare verso”, proprio come deve essere l’educazione alla resilienza.
“Per farcela, poi – dice ancora Maria Angela Masino – il piccolo deve imparare a dare una direzione alle emozioni. Dai dati è emerso che i bimbi che reagiscono a una esperienza di dolore regolando il comportamento sul loro sentire e attivando così reazioni impulsive (come lanciare oggetti, urlare, irrigidirsi …) sono poi quelli che riferiscono livelli di malessere maggiori. Se il genitore è un ‘campo-base’ sicuro, dove rifugiarsi, il bambino si lascerà calmare e rassicurare, altrimenti rimarrà allarmato e talvolta disperato perciò incapace di organizzare i suoi sentimenti. È d’obbligo una precisazione: la resilienza è diversa dalla ‘resistenza’, termine con il quale si indica la tendenza a chiudere gli occhi davanti ai propri traumi, fino a rimuoverli e ad andare avanti senza consapevolezza.
Queste sensazioni rendono vulnerabili e distolgono l’attenzione dalla cosa più importante: mantenere l’orientamento sul compito”.
Nella Convenzione Internazionale del 1989 non si parla né di emozioni né di sentimenti, ma più volte si parla di “spirito” e di “spirituale”. Un esempio per tutti è nell’art. 17 dove si legge: “[…] promuovere il suo benessere sociale, spirituale e morale nonché la sua salute fisica e mentale”. Si noti che l’aspetto spirituale è anteposto a quello morale, fisico e mentale. Lo spirito è proprio il soffio di vita da cui si originano le emozioni, i sentimenti e le reazioni. Per alimentare questa vitalità è necessario che i bambini siano educati alla resilienza (capacità di dirigere, di organizzare, di regolare le proprie reazioni in condizioni avverse), a “resilire” (verbo latino), a “ritornare di corsa”, a “rimbalzare” nella vita. Questo “l’orientamento e i consigli necessari” da dare ai bambini (art. 5 Convenzione Internazionale).
“La creatività non è altro che un’intelligenza che si diverte” diceva Albert Einstein. Il corrispondente di quest’affermazione può essere considerato l’art. 31 della Convenzione Internazionale ove è disciplinato il diritto al gioco del fanciullo e si parla di “vita culturale e artistica” e di attività ricreative e di attività di natura creativa, in cui ci si ricrea e si ricrea. Il gioco non è passatempo ma divertimento, che etimologicamente significa “volgere altrove, in direzione opposta” e, quindi, distogliere l’animo da pensieri molesti. Il gioco (che non si riduce solo ai giocattoli) è “ri-sorsa” di vita per i bambini e per chi gioca con loro.
“Esiste tutta una letteratura sulla relazione fraterna e sull’ordine di genitura – afferma Serena Lecce, docente di psicologia evolutiva. La relazione fraterna è di per sé stabile e dura tutta la vita, ma non è voluta, “non siamo noi a scegliercela. Questo ne spiega, in parte, l’ambivalenza. Troviamo coppie di fratelli in cui emergono solidarietà, alleanza, complicità. In altre, invece, gelosia e conflittualità. In ogni caso – spiega la Lecce – la relazione fraterna modella il nostro mondo interno: affonda le radici in una condivisione di vita famigliare, molto intensa a livello emotivo. In famiglia il bambino inizia a stare con gli altri, imparando a negoziare, a competere, a coordinarsi, a cercare alleati. Aspetti che la psicologia evolutiva considera fondamentali per lo sviluppo della competenza. I bambini che sanno coordinarsi sono quelli che poi si fanno più amici e vanno meglio a scuola. Tale vantaggio riguarda soprattutto i secondogeniti”.
La relazione tra fratelli e l’educazione ad una sana relazione fraterna sono importanti perché contribuiscono a creare e a far sperimentare quell’ambiente familiare, quell’atmosfera di felicità, amore e comprensione, quello spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e di solidarietà in cui è necessario che il bambino cresca (dal preambolo della Convenzione Internazionale). Laddove sia possibile non si lascino i figli unigeniti ma si dia loro la possibilità della ricchezza (anche di sofferenze) di avere dei fratelli, una delle risorse di vita e della vita, opportunità di resilienza.
Nel momento “in cui veniamo al mondo – afferma lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro – portiamo con noi in dote non soltanto i timori ancestrali della nostra specie (paura dell’abbandono e della separazione), ma anche – nati come siamo per vivere – l’ottimismo e la fiducia infantile nel carattere promettente dell’esistenza. Avremo una vita per ricrederci, ma all’inizio l’ottimismo è nella nostra natura e si manifesta attraverso ostinati, talvolta impercettibili, segni di vitalità anche nelle peggiori condizioni di nascita”.
Educare alla resilienza (in metallurgia “capacità di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi”) è insito nell’esistenza stessa, perché tanto il parto per la madre quanto la nascita per il neonato sono una forma di resilienza, ancor più evidente nel parto in acqua in cui il bambino risale dall’acqua: spingere e spingersi per andare avanti nella vita. Questo è uno dei significati della disposizione dell’art. 27 par. 1 della Convenzione Internazionale: “[…] il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita atto a garantire il suo sviluppo”. Il pessimismo, il nichilismo, il disfattismo non appartengono alla vita, ma alla non vita di alcuni adulti mal cresciuti.
C’è pure chi educa “senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo – aperto a ogni sviluppo ma tentando di essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato” si legge ne “Il limone lunare” dell’educatore Danilo Dolci. In particolare i genitori non devono far realizzare i propri sogni infranti ai figli né farli vivere in un mondo di sogni, ma sognare per loro il meglio e farli sognare. In tal modo li si educa anche alla resilienza, capacità di risalire, di risaltare in caso di cadute nella vita.
Educare alla resilienza è salvaguardare il benessere personale e generale, prevenire costi personali, familiari e sociali, in linea con quanto previsto in uno dei capoversi della Carta di Ottawa per la promozione della salute (1986): “È essenziale mettere in grado le persone di imparare durante tutta la vita, di prepararsi ad affrontare le sue diverse tappe e di saper fronteggiare le lesioni e le malattie croniche. Ciò deve essere reso possibile a scuola, in famiglia, nei luoghi di lavoro e in tutti gli ambienti organizzativi della comunità. È necessaria un’azione che coinvolga gli organismi educativi, professionali, commerciali e del volontariato, ma anche le stesse istituzioni”.
Dovere educativo che appare richiamato nella nuova formulazione dell’art. 147 cod. civ. “Doveri verso i figli”: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis”. Testo differente da quello previgente in cui si leggeva: “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. È emblematica ogni singola innovazione legislativa, dall’assistenza morale che si deve ai figli al rispetto delle “loro” inclinazioni, al plurale. Resilienza: dalle inclinazioni, piegarsi in basso, alle aspirazioni, volgersi verso l’alto, conoscere le inclinazioni per ri-conoscere le aspirazioni.
Recita un antico proverbio buddista: “se non riesci a sollevare il tavolo, non è che il tavolo è troppo pesante, ma sei tu che sei troppo debole”. Riconoscere le proprie debolezze è già un punto di forza: ciò è importante nello sviluppo dell’autostima e nell’educazione alla resilienza dei bambini.
Mutuando le parole di esperti si può dire che la resilienza: è la capacità di riscrivere una “nuova biografia con personaggi interni più tolleranti e benevoli rispetto a quelli che ci avevano condannato alla sofferenza” (Mauro Mancia, neurofisiologo e psicoanalista); “significa crescere, diventare cioè sempre più capaci di sviluppare la tolleranza per i traumi subiti nel passato e realizzare un equipaggiamento interno che permetterà di sopravvivere alle nuove inquietudini del presente” (Walter Machet, psicologo e psicoterapeuta).
La resilienza è la capacità di far fronte alle fisiologiche depressioni (avvallamenti, abbassamenti) della vita affinché non diventino depressione patologica, sempre più dilagante e dilaniante.
(1) M. Ungar, “Too safe for their own good” (Troppo protetti per il loro bene), ed. McClelland & Stewart 2009
Fonte: Il diritto e il dovere di resilienza (www.StudioCataldi.it)