All’inizio del novecento il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset propose una soluzione ai mali della società che, pur nella sua follia, mi colpisce ancora per la sua ingegnosità. Ortega sosteneva che i dipendenti del settore pubblico, dai livelli più alti a quelli più bassi (anche se, a pensarci bene, perché non tutti gli altri?) dovrebbero essere retrocessi al grado subito precedente a quello che ricoprono. Il suo ragionamento anticipava il principio di Peter, formulato dal professor Laurence J. Peter, secondo il quale “in una gerarchia, ogni dipendente tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza”. Chi fa bene il suo lavoro viene premiato con una promozione, fino a quando non arriva a ricoprire una posizione per la quale non ha le capacità necessarie, e lì si ferma.
In un libro di recente pubblicazione, The hard thing about hard things, Ben Horowitz aggiunge a questa teoria la cosiddetta “legge dei peggiori”: appena una persona che occupa una certa posizione in un’azienda diventa competente quanto la peggiore della posizione superiore, probabilmente si aspetta una promozione. Ma se gli viene concessa, il livello di competenza dell’azienda andrà gradualmente diminuendo. Perché questo succeda non è necessario che qualcuno sia particolarmente inadeguato: le burocrazie tendono semplicemente a essere peggiori della somma delle loro parti.
Ma sarebbe sbagliato pensare che solo le organizzazioni cadano in questa trappola. L’attrazione gravitazionale della mediocrità agisce in tutti i campi della vita. Per usare le parole di John Stuart Mill: “La tendenza generale del mondo è quella di fare della mediocrità la potenza dominante dell’umanità”. Questo appare più evidente nei posti di lavoro (come qualcuno ha osservato, “il ritmo di una riunione è quello della mente più lenta tra quelle dei presenti”), ma è pur vero che in qualsiasi campo – nel lavoro, in amore, nell’amicizia, nella salute – le soluzioni mediocri hanno sempre la meglio, purché non siano così dannose da distruggere il sistema. Le persone e le organizzazioni non vanno oltre un certo limite non perché non possano fare di meglio, ma perché trovano quel limite tollerabile, se non addirittura confortevole. Perfino l’evoluzione, l’essenza stessa della vita, si accontenta della mediocrità. “La sopravvivenza del più adatto” non è il progresso verso l’eccellenza, significa solo che sopravvive chi non è troppo inadatto.
E la mediocrità è astuta: può mascherarsi da successo. Il cliché dell’impiegato “mediocre” è il Dilbert dell’omonimo fumetto. Ma, come osserva Greg McKeown nel suo libro Dritto al sodo. Come scegliere ciò che conta e vivere felici, anche l’intraprendenza può portare alla mediocrità. Se ci buttiamo su tutte le opportunità che ci capitano finiamo per fare cose poco importanti, e farle male. Questa tendenza non si può combattere con la motivazione né dandosi obiettivi altisonanti: per contrastare l’attrazione della mediocrità ci vuole disciplina, una regola da applicare ogni giorno.
Per un’azienda, questo può significare una politica delle promozioni più rigida e obiettiva. Per le persone che si danno troppo da fare, c’è la regola del “90 per cento” di McKeown: quando state prendendo in considerazione una scelta, chiedetevi: risponde ad almeno nove su dieci delle mie priorità? Se non è così, lasciate perdere. Idealmente, la domanda dovrebbe essere: “È soddisfacente?”, ma funziona anche se diventa: “Mi permette di tirare avanti?”.
La mediocrità non è solo un difetto individuale, è una tendenza dell’universo, che va combattuta incessantemente senza sperare in una vittoria definitiva. Mi dispiace, ma le regole non le stabilisco io.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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