Una studiosa americana dedica un libro alla “maledizione” che porta molte adolescenti a rinunciare alla propria personalità in cambio dell’approvazione generale. “Un meccanismo che crea danni psicologici e allontana dalla realtà”
SGUARDO basso, sorriso timido, occhi senza trucco incorniciati da capelli castani e maglioncino rosa: l’adolescente scelta per la copertina del libro La maledizione della brava ragazza, scritto dall’educatrice Rachel Simmons (Nutrimenti, 2010, p. 280) sembra un angelo di plastica. La scelta non è casuale. Si tratta di una brava ragazza come tante, educata a non rispondere male, a non essere egoista, a non alzare la voce. Persino a non dire ciò che pensa, se questo può dare fastidio a qualcuno.
L’autrice dieci anni fa ha fondato e tuttora dirige, a Berkeley, il Girls Leadership Institute 1. E sostiene che essere una “brava ragazza” non sempre è una cosa positiva né tanto meno è sinonimo di personalità. Spesso le adolescenti che inseguono la perfezione (a scuola, nello sport, in famiglia, nei rapporti sociali) sono frutto di un sistema educativo poco rispettoso della loro individualità, che da loro pretende il massimo senza offrire alternative. La corsa verso la continua approvazione le rende non solo incapaci di accettare rifiuti e fallimenti ma anche cieche di fronte a ciò che realmente sono o vorrebbero diventare. E mentre tutte le energie mentali e fisiche vengono investite per diventare sempre più “brave”, le capacità di autoanalisi e autoaffermazione si atrofizzano, portando il cervello a identificare i modelli suggeriti dagli adulti come gli unici da preferire.
Responsabili di questo danno psicologico, secondo la Simmons, sono i genitori, gli insegnanti, ma anche gli amici e i media, che da anni propongono modelli femminili stereotipati, creati per piacere a tutti e a tutti i costi. L’istituto fondato dall’autrice è nato per aiutare le adolescenti a confrontarsi con se stesse e il libro è il frutto di anni di studio con ragazze dagli 8 ai 18 anni. La Simmons ha raccolto dati e condotto test psicologici, ma soprattutto ha parlato con loro cercando di capire le ragioni profonde di fenomeni spesso frettolosamente etichettati come “sbalzi ormonali”, dal pianto facile all’attacco isterico per il litigio con un’amica. Il libro mette insieme i risultati di tanti studi scientifici ma la parte più interessante sono le interviste alle adolescenti. Che permettono di guardare con occhi diversi a quel mondo di fanatismi, amicizie morbose, omologazione, rabbia. E si scopre che, per quanto la letteratura scientifica abbia versato fiumi di inchiostro studiando i teenager, delle “brave ragazze” si è scritto poco, dando per scontato che i problemi fossero rappresentati da quelle “cattive”.
“Spesso si costringono le giovani donne a comportarsi come adulte – spiega Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano – impedendo loro di capire cosa vogliono dalla vita e da se stesse. L’unico scopo diventa quello di somigliare il più possibile a ciò che viene chiesto loro di essere”. Secondo Mencacci, imporre dei modelli da seguire a priori è pericoloso. “Le adolescenti solo “buone” o solo “cattive” – spiega – non sono in grado di affrontare la vita. Per farlo è necessaria la completezza, l’equilibrio di più fattori, difetti ed errori compresi”.
Tuttavia di recente, sottolinea l’esperto, si sta assistendo a un’inversione di tendenza, per lo meno in Italia. “Fino a due anni fa il trend più in voga era quello delle “brave ragazze”, oggi stiamo tornando alle “cattive”. I dati rilevati dagli istituti ospedalieri nazionali denunciano un nuovo segmento di giovani donne (11-18 anni) con problemi di alcol. I modelli imposti e non fatti propri generano, nel lungo periodo, reazioni eccessive nel verso opposto”. Secondo il professore grandi responsabilità, in questo senso, le ha proprio la psicologia, che ha sempre schematizzato i problemi delle ragazze riconducendo tutto alle colpe dei genitori, senza offrire vie d’uscita o soluzioni propositive, anzi enfatizzando lo scontro con madre e padre.
Questi ultimi, da parte loro, spesso sbagliano trattando le figlie non come esseri umani ma come gioielli di proprietà, da plasmare in base alle proprie aspettative o ai sogni di gioventù irrealizzati. “E’ un meccanismo frequente – spiega Luisa Ribolzi, docente di Sociologia dell’educazione all’università di Genova – l’atteggiamento di possesso crea dinamiche poco sane e carica i ragazzi di responsabilità difficili da gestire. Basti pensare a quelli che si suicidano o che uccidono i genitori perché non hanno il coraggio di confessare di non aver terminato gli studi. Per le ragazze il fenomeno è ancora più evidente perché, storicamente, dalle donne si è sempre preteso un comportamento più remissivo e responsabile”.
Il paradosso finale è che spesso i modelli riconosciuti come “giusti” e desiderabili sono quelli più in contrasto con le evoluzioni della società. Come spiega la Simmons, l’atteggiamento pacato e timido di molte adolescenti, che spesso le porta a non farsi avanti per paura di sbagliare, è in contrasto con una società che privilegia chi si espone e dice la sua. “In alcuni Paesi asiatici – conclude – si riscontra un elevato numero di giovani donne affette da tumori alla pelle, perché cercano di schiarirla per somigliare alle coetanee occidentali. Eppure la percentuale di donne dalla carnagione chiara, in quei Paesi, è minoritaria. La maggior parte degli stereotipi presi come modello di perfezione non ha alcun riscontro con la realtà, anzi allontana da essa”.
La sociologa conclude spiegando che i genitori potrebbero aiutare le loro figlie a formare la propria personalità facendo come i gatti quando svezzano i cuccioli: spingendole cioè a confrontarsi con la vita da sole, anche a costo di farsi male. O di non diventare, necessariamente, una “brava ragazza”.
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