«Il tasso (ivin in bretone) è l’albero dell’immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest’albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»
Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.

IL “TASSO SANGUINANTE” DI NEVERN

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>

Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).

Sul sistema cromatico bianco-rosso-nero

Ogni cultura — ci ricordano gli etnolinguisti — ha un suo particolare sistema di colori (come minimo a due termini fondamentali contrapposti), che come tutti i fenomeni culturali è soggetto a cambiamenti, a prestiti e sostituzioni, e tende ad allargarsi più che non a ridursi.
In effetti, le strutture cromatiche dovrebbero rientrare piuttosto nell’orizzonte storico della «lunga» o della «media durata», ma nella nostra società, negli ultimi sessant’anni circa, si è verificata una progressiva perdita dei valori simbolici che le passate generazioni assegnavano, per tradizione, ai colori ritenuti «fondamentali». Oggi infatti assistiamo, anche nell’ambito di quella che Giorgio Raimondo Cardona ha chiamato «la visione del colore», ad un’“esplosione del molteplice”, dovuta alle novità tecnologiche e alle tendenze socio-economiche del mondo occidentale. La gamma dei colori ottenuti artificialmente è diventata vastissima, si fa fatica o è impossibile riconoscerli e distinguerli tra loro e dagli stessi colori naturali; ci si limita a chiamarli con termini classificatori a definizione bassa, grossolana. Nella svariatezza delle proposte, nella continua ricerca di novità e cambiamenti imposti dal mercato, dalla moda, dalla spettacolarizzazione, sono “saltati” o non riescono a (ri-)emergere quei valori simbolici che un tempo erano sicuro riferimento culturale della comunità di appartenenza [1].
Ben diversa la situazione nei secoli scorsi, durante le epoche preindustriali. Nelle società indeuropee occidentali – riferisce lo storico Michel Pastoureau –, fino all’XI secolo si mantenne un sistema cromatico tripolare, nel quale al bianco («il chiaro e il poco denso») si contrapponevano sia il rosso («il denso», «il colore “per eccellenza”») che il nero («l’oscuro»). Il blu e il verde rientravano nella concezione di «scuro», erano percepiti come varianti del nero. Il giallo era spesso associato al bianco (rispettivamente, i colori dell’oro e dell’argento). Dopo la metà dell’XI secolo si affermò sempre più il blu, fino ad arrivare al XIII secolo — quando il rosso ne dovette subire, «per la prima volta dalla protostoria», la concorrenza —, e ancor oltre, fino ai nostri anni [2].
In particolare, come rileva Manlio Brusatin, in epoca imperiale, nella società romana (“originariamente” a sistema cromatico bianco-rosso-nero), al rosso porpora (color principalis, divenuto color officialis degli stessi Imperatori) si contrappose il blu (caeruleus color), colore dei barbari: estratto dalle foglie e radici del guado, una pianta erbacea tintòria, veniva usato dai Britanni (anche dai Picti dell’attuale Scozia) per dipingersene il corpo, allo scopo di incutere terrore ai nemici. In latino il guado era detto vitrum e glastum [3].
Colori contrapposti contrassegnarono al circo, alle corse ippiche, le diverse fazioni: il bianco degli albati, il rosso dei russati, il verde dei prasini (dal greco prásinos ‘verde porro’ < práson ‘porro’), l’azzurro dei veneti (associato ai Veneti della Venetia cisalpina, e — in via congetturale — ai loro allevamenti di cavalli da corsa e/o al loro artigianato tessile) [4].
Lo schema cromatico degli Antichi Romani, in buona sostanza, era lo stesso di base degli altri gruppi parlanti idiomi indoeuropei (uno schema che si ritrova anche al di fuori del «mondo indeuropeo») [5]. Nei loro tre «colori simbolici» fondamentali va riconosciuta una testimonianza dell’«ideologia tripartita» o trifunzionale, individuata da Georges Dumézil nella cultura indeuropea: biancorossonero/blu erano i colori, nell’ordine, dei sacerdoti (1ª funzione), dei guerrieri (2ª f.), dei produttori (3ª f.).
Secondo Jean Haudry, i tre colori sarebbero in rapporto con le tre funzioni a livello sia sociale che cosmico: tre cieli si ritenevano girare attorno alla terra, vale a dire il cielo «diurno», bianco, il cielo «notturno», nero, il cielo «aurorale» e «crepuscolare», rosso [6]. Bernard Sergent fa notare però come questa tesi si regga soltanto «su una stanza del g-Veda e manchi di paralleli indeuropei» [7].
In particolare, in ambito celtico, il bianco è proprio della prima funzione, la sacerdotale; il rosso della seconda, la guerriera; il blu, il verde e il giallo della terza, quella artigianale e produttrice [8].
Bianco. È il colore dell’«unità» e dell’«unicità» del sacerdozio, e delle vesti dei druidi (il neo-druidismo evidentemente ha creato una nuova tradizione nel vestire i bardi di azzurro e i vati di verde), perché «è la somma di tutti i colori divini», quelli dell’arcobaleno. È al tempo stesso colore regale.
Il termine celtico comune *indos, ‘bianco, bello, puro, sacro, benedetto’, ha dato in gallico: vindos, in antico irlandese: find (oggi fionn), in medio gallese: gwynn, f. gwenn [9] (attuali gwyn, f. gwen), in antico cornico: guyn, in antico bretone: guinn (oggi gwenn).
*Vindo- è attestato in diversi toponimi d’origine gallica: VandoeuvreVendVendasioVendéeVendeuilVendoglioVendômeVentWindish; forse Monte Venda e Vendevolo, ed altri ancora [10]. Si comprende agevolmente come lo spazio, i monti, le acque, e la stessa fondazione di centri, per la loro sacralità, per la presenza di esseri soprannaturali, per l’intervento sacerdotale, rientrassero nella prima funzione.
Accanto a *indos, va posto l’aggettivo celt. *argos ‘bianco, brillante’, da cui il gall. *argio- ‘bianco, brillante’, e il medio cimr. eiry (attuale eira), il medio corn. irch (corn. ergh), il br. erc’h, significanti ‘neve’ (valore acquisito in epoca più recente). E così pure un tema gall. *cand(i)- > *cann-’bianco, brillante’, confrontabile con il cimr. cann, corn. can, br. kann (< *cando-) ‘bianco, brillante’ e il lat. candidus.
In irlandese, inoltre, col valore di ‘bianco’ è presente l’aggettivo bán, a. irl. bán ‘bianco, brillante’, secondo J. Vendryes (1981b) da *bhā-no- o *bhō-no-, forme che risalgono a una radice *bhā- o *bhē- ‘brillare’ [11], rappresentata anche in sanscrito, greco, germanico. Inoltre l’agg. a. irl. gel (equativo gilithir [12]), per il quale si veda infra.
Rosso. È il colore sia dei guerrieri (del sangue, del fuoco) che del sapere: l’irlandese Dagda (‘il dio buono’) è soprannominato Ruadh Rofhessa, ‘il Rosso della Grande Sapienza’.
Da un celtico primitivo *roudos ‘rosso’ < ie. *roudho-, dalla radice *(h1)reudh ‘arrossare’: antico irl. rúad ‘rosso scuro’ (attuale rua), a. e medio cimr. rud, gallese rhudd, medio corn. rud, a. bret. rud (oggi ruz).
Ricordo il solo toponimo dei campi Raudii (se si tratta di trascrizione latina di -ou- gallico, o dello scambio au / ou rilevabile in altre parole galliche); *roudos si ritrova piuttosto in qualche teonimo e antroponimo gallico e brittonico (collegato alla forza, al coraggio, oppure al colore dei capelli) [13].
Si rintraccia inoltre in gallico un tema *dergo- ‘rosso, sanguigno’, confrontabile con l’a. irl. derg, ‘rosso, sanguigno’, ‘rosso vivo’ (attuale dearg ‘rosso’) e con l’anglosassone deorc ‘scuro’ (> ingl. dark), dall’ie. *dherg-, però «senza correlati in brittonico».
Vanno menzionati infine anche il gall. *cocos, *coccos ‘scarlatto, rosso’, l’a. irl. coic, il cimr. e corn. coch ‘rosso’, probabili prestiti dal lat. coccum ‘tintura scarlatta, scarlatto’.
Blugialloverdegrigio. Sono simbolo di «varietà» e «molteplicità». Sono i colori «in rapporto con la vegetazione»; però nei racconti celtici «appaiono raramente» nel loro aspetto funzionale.
Blu e verde costituiscono linguisticamente e concettualmente un unico colore, tant’è che nelle lingue celtiche attuali glas significa ‘blu, verde, grigio’, dal celtico *glasto- (< *ghsto- < *ĝhel-/*ghel-), alla base anche del gallico *glaston, latinizzato in glastum ‘guado’ [14]: a. irl. glas ‘blu, verde’, cimr. glas ‘blu’, br. glas ‘blu, verde, grigio pallido’.
Si individua poi un tema gall. *bugio- ‘blu’ (‘fiore blu’?) in alcuni nomi personali (tra i quali BugiusBugiaEnobugius), confrontabili con l’a. irl. buga, «nome di un fiore blu», forse giacinto o lino, e usato anche in riferimento al colore degli occhi.
Dal tema celtico *(p)leito- > *lēto- (< ie. *pel- ‘grigio’) derivano: il cimr. llwyd ‘grigio, pallido’, ma anche ‘santo’; l’a. br. loit ‘canuto’, il bretone loued ‘grigio, canuto’; l’a. irl. líath (attuale liath ‘grigio’). È il ‘grigio’ degli anziani, della saggezza (cfr. le voci lat. palliduspallēre).
Esisteva probabilmente in gallico un aggettivo *blāros ‘grigio’ (cfr. il NP Blarus), comparabile con l’a. irl. blár, nome personale («in particolare di un cavallo»), il gaelico di Scozia blàr («animale che ha una macchia bianca sulla fronte»), il cimr. blawr ‘grigio’. Tali voci dipendono dalla radice ie. *bhlō-, «designante diversi colori pallidi», cui risalgono anche l’a. irl. blá ‘giallo’ e il lat. flāvus ‘biondo’ (< *flō-uus).
Da una forma *melinos, comune anche al gallico, discendono l’a. e medio gallese melin ‘giallo’ (attuale melyn), l’a. corn. milin ‘flavus’, l’a. br. milin, bretone melen ‘giallo, biondo, dorato’. Secondo X. Delamarre potrebbe trattarsi di un derivato in -(i)no- di *méli(t), antico nome indeuropeo del ‘miele’, mentre nell’Ernout-Meillet lo si collega alla radice indeuropea *mel- ‘macchiare’, del greco mélās ‘nero’ [15].
Dal celtico *badio-/*bodio- derivano l’a. irl. buide (oggi buí) ‘giallo, flavus’, e il gall. *badios, *bodios ‘giallo, biondo’ (individuabile nell’etnonimo Bodiocasses [16]). Si confrontano con l’aggettivo lat. badius, ‘baio, bruno’, il quale, se non è un prestito dal gallico, potrebbe anch’esso derivare da un *bhə-dyo-s, dalla radice ie. *bhā-, *bhō-, *bhə-.
Il lat. giluus ‘isabella, sauro chiaro’ sarebbe stato tratto da una forma gall. *giluos ‘bruno chiaro’, dall’ie. *ĝhelu̯os ‘giallo’ (forse da *ĝhel-s-u̯os) < *ĝhelə- [*ĝhelh3] ‘dorato, biondo’; cfr. inoltre il cimr., corn., br. gell ‘bruno, baio, rossastro’ (< *ĝelno-) e l’a. irl. gel ‘bianco, brillante’, attuale geal (< *ĝelo-), raffrontabile con l’irl. gile ‘candore’.
Dai nomi di persona d’origine celtica GlitiusGlitia e Glitilleia Xavier Delamarre ipotizza una base *glit-, dall’ie. ĝhlto- ‘giallo, dorato’ (cfr. l’ingl. gold).
I termini inerenti alla terza funzione si riconoscono in qualche nome di persona e in alcuni toponimi, in riferimento talvolta al materiale da costruzione (pietre grigie o azzurre) o, nel caso di corsi d’acqua, al colore delle acque.
Nero. È un «non-colore» (la mancanza di luce). Era attribuito a ciò che si collocava al di fuori di ogni classificazione funzionale.
Dal celtico *dubu- (< ie. *dhubh-): il gall. *dubusdubisdob- ‘nero’, l’a. irl. dub ‘nero’ (oggi dubh), l’a. cimr. Dub-, il cimr. (antico, medio e moderno) du ‘nero’, l’a. corn. duv ‘niger’, il br. (a., medio e moderno) du ‘nero’.
Rintracciabile in nomi di persona irlandesi e brittonici e in toponimi, soprattutto idronimi: ad esempio, il gallico *Dubisamos, *Dubisama, ‘il/la più nero/-a’ > DuesmeDôme; il gall. Dubis > Doubs; l’irl. Dubh-linn ‘Dublino’ < *dubu-lindon ‘stagno nero’.
Si può ricordare inoltre l’a. irl. cíar ‘scuro, nero’ (irl. ciar), da *ḱeiro-, confrontabile con il norr. hárr ‘grigio, venerabile’, dal germ. *hairu < *ḱoiro-.
Un certo numero di attestazioni della triade cromatica bianco-rosso-nero si incontrano qua e là nei racconti celtici. Alcune sono state rintracciate da Philippe Jouët.
1. Durante il suo viaggio alla ricerca del figlio di genitori senza colpa da sacrificare presso Tara, Conn Cétchathach (‘dalle cento battaglie’) in un’isola strana vede un palazzo con il tetto di piume d’uccello bianche, gialle, blu: «find 7 bhuighi 7 ngorm» [17].
2. Nella versione III della Tochmarc Étaíne (Corteggiamento di Étaín), al § 10, 2ª quartina, Midir — ma per Ph. Jouët si tratterebbe di Oengus che riconosce nella fanciulla i «”tre colori cosmici”» — cerca di persuadere Étaín ad andare con lui «nel paese meraviglioso ove c’è musica» (una localizzazione dell’Altro Mondo celtico): «Là […] i denti sono bianchi, le sopracciglia nere; la folla numerosa è il piacere degli occhi. Ogni gota ha il colore della digitale [síon]» [18].
3. Nella Táin Bó Cúalnge (‘La Razzia delle vacche di Cooley’) le tre Bodb che accompagnano gli eroi d’Ulster vengono così descritte (nella Versione del Book of Leinster):

Teora hialla ingnathacha go ro-examlacht ecaisc uasta. An cetna hialla dercc uile, an iall thanaise gilither gési, an tres iall duibhither fiaich. Teora badba beldercca impu luaitither fiamhain timchioll na teora roth […].
«Tre bande strane con un aspetto straordinario. La prima banda era interamente rossa, la seconda era bianca quanto dei cigni, la terza era nera quanto dei corvi. Tre Bodb dalla bocca rossa le circondavano, ..?… rapide come le tre ruote attorno ad esse […]» [19].

Bodb (‘cornacchia’) o Mórrígan (‘Grande Regina’) è la dea irlandese dellaguerra; in lei è rappresentato l’aspetto guerriero della Sovranità.
Secondo Ph. Jouët, che attribuisce alla Mórrígan un’origine cosmica, in quanto sarebbe la versione irlandese dell’Aurora indeuropea, nelle tre ruote vanno visti «i “tre cieli” d’origine, in movimento»: il cielo crepuscolare, rosso, prettamente aurorale, e quelli diurno e notturno, di cui la dea «accompagna il movimento» [20]. Secondo Joseph Vendryes però, le «tre ruote» (teora roth) vanno piuttosto intese come «tre macchine da guerra su ruote» (forse tre torri su ruote) [21].
4. Diarmaid ua Duibhne (Diarmaid Ó Duibhne), «l’uomo più amato d’Irlanda» («ciclo di Finn» o dei Fianna), ha riccioli bruni, gote rosse, denti bianchi: «an folt cas ciardubh 7 an dá ghruaidh chorcra choimhhdhearga […] déad-bhán» [22].
5. La bellissima Deirdriu (Deirdre, Derdre) si invaghisce di Noísiu (Noíse, Naoise) perché questi ha nei capelli, sulle guance e sul corpo, i colori di un corvo, del sangue, della neve visti in precedenza in un giorno d’inverno (in Longes mac nUislenn, ‘Esilio dei figli di Uisliu’ – «ciclo eroico d’Ulster») [23].
6. Ne La storia di Peredur figlio di Evrawc (Historia Peredur vab Evrawc), Peredur ama una fanciulla dai capelli neri come i corvi o il giaietto, dalla carnagione bianca come la neve e dai pomelli delle guance rossi come il sangue [24].
A tali testimonianze si può aggiungere l’episodio della Storia di Peredur in cui il protagonista, nel castello abitato da cinque pulzelle, incontra la figlia del defunto conte, la più bella fanciulla che Peredur avesse mai visto: la sua pelle era «più bianca della farina più bianca», i capelli e le sopracciglia erano «più neri del giaietto», le guance «più rosse della cosa più rossa» o, come si legge nel manoscritto Peniarth 7, «più rosse della digitale»: «Deuvann goche on aoed ẏnẏ devrud cochach oẏdẏnt no fion» [25].
Questo motivo dei tre colori segno di somma beltà — il bianco della pelle (o dei denti), il nero dei capelli (e/o delle sopracciglia), il rosso delle gote (o delle labbra) —, è un «tema narrativo» che si ritrova anche in alcuni racconti folclorici [26], ad esempio nella storia Il figlio del Re d’Irlanda (The King of Ireland’s), raccolto da Douglas Hide [27], e, fuori dall’ambito celtico, nella fiaba di Biancaneve (Schneewittchen) dei fratelli Grimm. Un «tema narrativo» privo di «senso trifunzionale» [28].
Secondo Claude Sterckx infatti, «l’impiego cosciente del simbolismo funzionale dei colori nel mondo celtico» si riconosce soltanto nella sequenza dei tre martirii cristiani inclusa nell’Omelia di Cambrai [29], scritta in una lingua irlandese del VII secolo. Ecco la versione italiana del testo tradotto in francese dallo Studioso:
Ci sono tre forme di martirio che costituiscono una croce per l’uomo: il martirio bianco, il martirio blu e il martirio rosso.
Ecco cos’è il martirio bianco per l’uomo: quando abbandona per l’amore di Dio tutto ciò che egli ama sopportando digiuni e tribolazioni.
Ecco cos’è per lui il martirio blu [ind glasmartre]: quando rinuncia così ai suoi desideri e fa penitenza per il rimorso delle sue colpe.
Ecco cos’è per lui il martirio rosso: sopportare una croce o la morte per l’amore del Cristo, così come sopportarono gli apostoli insegnando la legge divina nelle persecuzioni dei malvagi.
Sterckx ritiene che i tre martirii corrispondano esattamente alle tre funzioni duméziliane, dato che il martirio bianco risulta «associato all’amore di Dio e si situa al livello del contatto con il divino» (1ª funzione: colore bianco), il rosso «è quello delle violenze fisiche e si riferisce al Cristo, il dio sanguinante e ferito del cristianesimo» (2ª funzione: colore rosso), il blu «è definito come il rigetto delle passioni fisiche e dei desideri carnali (fria thola)» (3ª funzione: «il meno nobile dei colori, il non-rosso») [30].
Nell’ambito germanico, si ritrova testimonianza dei tre colori fondamentali associati alla «tripartizione funzionale indeuropea», nella Rígsþula (Carme di Rígr), composizione mitologico-gnomica probabilmente del XIII secolo [31].
In tale opera poetica (mutila nella parte finale), si narra di come Rígr, ovverosia il dio Heimdallr («il dio bianco» [32]), generò i capostipiti delle tre «classi» della società dell’antica Scandinavia: Þræll (‘Schiavo’), Karl (‘Contadino libero’, il bóndi), Jarl (‘Nobile’). Eccone qui di seguito buona parte del testo, nella traduzione di Carlo Alberto Mastrelli (1951) [33].
Un tempo andò, si dice, per verdi vie, [v. 5]
un saggio Aso, potente e vecchio,
forte ed ardito, il viandante Rígr.
[Egli andò quindi nel mezzo della strada.]
Egli giunse ad una casa: la porta era aperta;
entrò dentro: il fuoco ardeva sul suolo; [v. 10]
là sedevano due vecchi sposi al focolare,
Ái [‘avo’] ed Edda [‘ava’], con dei vecchi cappucci.
[Vennero offerti a Rígr focaccia, minestra, vitello (vv. 13-20).]
Rígr dette loro dei buoni consigli,
poi si alzò per andare a dormire;
quindi si mise a giacere nel mezzo del letto
ed ai suoi lati aveva i due sposi.
Colà egli rimase per tre notti, [v. 25]
andò quindi nel mezzo della strada,
poi passarono nove mesi.
Edda generò un bambino, dalla pelle bruna [svartan],
essi lo lavarono e lo chiamarono Þræll.
Egli crebbe e molto prosperò;
la pelle delle sue mani era rugosa, [v. 30]
nodose le nocche,…
grosse le dita, orribile il volto,
curvo il dorso, sporgenti i calcagni.
[Þræll sposò Þír (schiava), dalla quale ebbe molti figli e figlie, da cui derivano le stirpi dei servi (vv. 35-56).]
Rígr andò poi per diritti sentieri;
egli giunse ad una casa: la porta era aperta;
entrò dentro: il fuoco ardeva sul suolo;
e due sposi sedevano intenti al lavoro. [v. 60]
Il marito digrossava del legno per il telaio;
la barba era ben tagliata, la chioma pettinata,
e la camicia attillata; una cassa era in terra.
La donna sedeva e svolgeva la conocchia;
agitava le braccia e preparava da tessere. [v. 65]
Era bene acconciata, aveva fermagli sul petto,
un fazzoletto al collo, un mantello sulle spalle.
Afi [‘nonno’] e Amma [‘nonna’] abitavano in quella casa.
[Vv. 69-73.]
[Rígr] si alzò da tavola per andare a dormire;
quindi si mise a giacere nel mezzo del letto, [v. 75]
ed ai suoi lati aveva i due sposi.
Colà egli rimase per tre notti;
andò quindi nel mezzo della strada,
poi passarono nove mesi.
Amma generò un figlio, lo lavarono con acqua, [v. 80]
lo chiamarono Karl, e la donna l’avvolse in fasce;
era bianco e rosa [rauðan ok rjóðan [34]], ed i suoi occhi erano vispi.
Egli crebbe e molto prosperò:
apprese a domare i buoi, a fare aratri,
a costruire case, a fabbricar granai, [v. 85]
a fare carri ed a tirare il vomero.
[Karl sposò Snør, nuora, dalla quale ebbe molti figli e figlie, da cui derivano le stirpi dei liberi contadini (vv. 87-99).]
Rígr andò poi per diritti sentieri: [v. 100]
giunse ad una casa: la porta volgeva a sud,
era accostata ed un anello stava nell’incavo.
Egli entrò dentro: il suolo era cosparso di paglia;
due sposi sedevano guardandosi negli occhi,
Faðir [‘padre’] e Móðir [‘madre’], e giocavano con le dita. [v. 105]
L’uomo era seduto ed intrecciava delle corde,
curvava archi ed appuntiva le frecce;
la donna, invece, considerava le sue braccia,
lisciava la stoffa, tendeva le maniche.
Portava sul capo una cuffia, una spilla sul petto; [v. 110]
lungo era lo strascico, azzurra la camicia;
bruni i sopraccigli, il petto più bianco,
il collo più candido di pura recente neve.
[Móðir servì a Rígr, su stoviglie di lusso, un pasto comprendente focaccia, carne e uccelli arrostiti e vino (vv. 114-125).]
Rígr dette loro dei buoni consigli,
poi si alzò per andare a dormire,
e quindi si mise a giacere nel mezzo del letto,
ed aveva ai suoi lati i due sposi.
Colà egli rimase per tre notti, [v. 130]
andò quindi nel mezzo della strada;
poi passarono nove mesi.
Un figlio generò Móðir, lo fasciò nella seta;
lo lavarono con acqua e lo chiamarono Jarl;
bionda era la sua chioma, bianche [bleikr] le guance, [v. 135]
acuti gli occhi come d’un serpentello.
Jarl crebbe colà in quella casa,
agitava lo scudo, tendeva corde,
curvava archi, appuntiva frecce,
scagliava dardi, brandiva lance, [v. 140]
montava a cavallo, aizzava i cani,
maneggiava la spada, si allenava al nuoto.
Là giunse Rígr venedo da un bosco,
Rígr che molto errò e gli insegnò le rune;
gli dette il suo nome e lo riconobbe come figlio, [v. 145]
poi gli offrì il possesso sulle sue terre,
sulle terre ereditate, ed antichi possedimenti.
[Jarl sposò Erna (attiva. vigorosa), figlia di Hersir (dignitario, capo), dalla quale ebbe molti figli maschi (vv. 148-173).]
Il giovane [ungr] Konr [‘figlio’, l’ultimogenito di Jarl] conosceva le rune,
rune della vita, rune della salute; [v. 175]
poi egli sapeva salvare gli uomini,
ottundere le lame, calmare i flutti.
Comprendeva gli uccelli, placava il fuoco,
addormiva il mare ed acquetava i dolori:
aveva la forza e il vigore di otto uomini. [v. 180]
Egli gareggiò nelle rune con Rígr Jarl:
lo giocava in astuzia e ne sapeva di più;
allora conseguì ed ottenne per sempre
il nome di Rígr e la conoscenza delle rune.
[Vv. 185-194 …]
Quel che emerge nella Rígsþula con tutta evidenza, è che i tre colori funzionali – bianco, rosso, nero – sono assegnati rispettivamente ai «nobili», ai «liberi contadini» e ai «servi», attraverso espressioni indicanti il colorito dei tre diversi neonati, colori da considerare carichi di valore simbolico, giacché corrispondono alle tre funzioni e non a diverse particolarità pigmentali attribuibili agli individui appartenenti alle tre «classi» [35].
Rígr — come tutti gli studiosi riconoscono — risulta essere la forma norrenizzata del nome celtico del ‘re’: gallico -rixrīgo-; antico irl. rí, gen. e acc. s. ríg (*x, *rīgos); gallese rhi ‘lord’ ≠ ‘king’ = brenin (ie. *rēĝs < *rēĝ- [*h3reĝ-] ‘orientare, dirigere’).Si può dunque supporre nel poeta della Rígsthula una conoscenza della società celtica, probabilmente irlandese.
Régis Boyer però ritiene tout court la Rígsþula di origine celtica: si tratterebbe di un testo dal «carattere fabbricato», di un’affabulation che «non è applicabile alla realtà scandinava, specialmente islandese», anche perché nell’Islanda indipendente non si sono mai avuti né jarlar né re [36]. Già Myles Dillon e Nora K. Chadwick avevano riconosciuto «un ambiente irlandese» all’origine del Carme [37]. E Jean Renaud, più di recente, ha rilevato due temi mutuati dalla letteratura celtica: il motivo dell’«ospitalità accompagnata dalla procreazione» (cfr. i testi irlandesi in cui si narra del dio Manannán) e quello dell’«arte di intorpidire gli uccelli» (praticata da Cú Chulainn e suo figlio) [38].

 

In Konr ungr si evidenzia poi un gioco di parole, una specie di pseudoetimologia, poiché il termine norreno per ‘re’ è konungr (germanico *kuningaz ‘discendente di nobile stirpe’, ‘persona di stirpe nobile’ o ‘colui che appartiene alla stirpe’, dal germ. *kunja(n) ‘stirpe’ < ie. *ĝen- ‘generare’ [39]). Pertanto il figlio del principe diventa il primo re, ricevendo doppiamente questo titolo: in quanto Rígr e in quanto Konr ungr > konungr.
Appaiono evidenti inoltre, nella Rígsþula, la figura trifunzionale del sovrano — da Rígr derivano tutte le classi sociali — e uno slittamento nella tripartizione. Infatti, là dove ci si aspetterebbe la classe sociale «sacerdotale» (che nel mondo germanico risulta assente) è collocata quella dei «nobili guerrieri». Ma in Konr ungr è manifesta la «sovranità magica» (la scienza delle rune e gli altri «saperi» elencati nei vv. 174-180), pur sempre appartenente alla prima funzione.
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Bibliografia

 

Sandra Bosco Coletsos (1988): Storia della lingua tedesca, Milano, Garzanti.
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[1] Cfr. G. R. Cardona (1985): 147-72 e (2006): 8, 97-103; S. Pinker (1997): pp. 53-4.
[2] Da tutte le indagini effettuate dopo la IIª Guerra Mondiale, risulta essere il blu il colore preferito da circa la metà della popolazione occidentale (seguito dal verde, con quasi il 20%, dal bianco e dal rosso, attorno al 10% delle preferenze).
Cfr. M. Pastoureau (1987): 9, 19-21, (1992): 10, 153-60, (2002): 14-6, 80-3, 170 e sgg.
[3] Secondo l’Ernout-Meillet la pianta sarebbe stata chiamata con il nome del ‘vetro’ per il suo colore vitreo (perché verdastra come il vetro fabbricato nell’antichità) [A. Ernout, A. Meillet (1985), s. v. uitrum].
L’inglese glass, tedesco Glas, ecc., ‘vetro, bicchiere, specchio, lente’, derivano dal termine germanico occidentale dell’ambra, *glasa- (cfr. la voce latinizzata glaesumglēsum ‘ambra gialla’), riconducibile alla radice indeuropea *ĝhel-/*ghel-, *ĝhlē, *ĝhlə ‘brillare’ (la stessa del greco glaukós, dell’ingl. gold, di glastum). L’italiano guado è di origine germanica: deriverebbe da una voce longobarda *waid < germ. occidentale *waizda- (forse associabile etimologicamente al latino vitrum). Cfr. X. Delamarre (2008), s. v. glastonglasson; J. Pokorny (2005), s. v. ĝhel-; P. Scardigli, T. Gervasi (1978), s. vv. glasswoad; F. Kluge (1989), s. vv. GlasWaid; S. Bosco Coletsos (1993): 107; P. Scardigli (1987): 287; M. Cortelazzo, P. Zolli (1979-1988), s. v. guado.
[4] Cfr. M. Brusatin (1978): 393-4. Glastum­ — afferma con una certa imprecisione Brusatin — proviene «dalla radice celtica glas».
Giovanni Lido (secolo VI) riferisce che i russati, gli albati e i prasini venivano associati a Marte, Giove e Venere; cfr. J. H. Grisward (1985): 111 e G. Dumézil (1986): 218-23. Nell’Ernout-Meillet si ipotizza che l’aggettivo venetus ‘blu turchese’ derivasse dall’origine veneta o degli aurighi o delle loro vesti [A. Ernout, A. Meillet (1985), s. v. uenetus].
[5] Sui diversi colori nelle lingue indeuropee, cfr. A. Martinet (1987): 271-3; sul «simbolismo cromatico» — da ritenersi «un dato empirico dall’origine eterogenea e sistematizzato in un secondo tempo dai “pensatori” indeuropei» —, cfr. B. Sergent (1995): 436-9.
[6] J. Haudry (1985): 22, 31, 35.
[7] B. Sergent (1995): 437-8.
[8] Molte delle informazioni relative ai colori presso i Celti, le ho tratte da F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1990): 146, F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1991): 81-3, e da altre opere, specie, tra i dizionari indicati nelle Bibliografia: X. Delamarre (2008), F. Favereau (1997), A. Deshayes (2003), L. Fleuriot (1985), N. Ó Dónaill, T. de Bhaldraithe (1981), J. Vendryes, É. Bachellery, P.-Y. Lambert (1959-), H. M. Evans, W. O. Thomas (1989), A. Falileyev (2000), J. Pokorny (2005).
[9] K. McCone (2005): 51.
[10] Ma non il toponimo Vienna, ted. Wien, che non deriva affatto dal nome d’origine celtica Vindobona; si veda quanto detto in https://lucio-iuos.blogspot.com/2010/08/bologna-un-toponimo-di-origine-celtica.html. Cfr. anche J. Lacroix (2007): 39-41.
[11] *bhā-, *bhō-, *bhə- in J. Pokorny (2005): 104.
[12] K. McCone (2005): 138.
[13] Cfr. J. Lacroix (2003): 53, 180, 199.
[14] Cfr. supra la nota 3.
A *glaston risulta collegabile il toponimo inglese Glastonbury [in antico gallese, secondo la Vita di san Gildas, attribuita a Caradoc di Llancarvan: Ynis-gutrin, ‘l’isola di vetro’ — cfr. J. Marx (1996): 308]: Glastingaea (704), ‘isola della gente di Glaston’, Glastingbury (725), ‘fortezza della gente che vive a Glaston’. Il toponimo celtico Glaston potrebbe significare ‘luogo del guado’; cfr. A. D. Mills (1993): 144.
[15] X. Delamarre (2008): 223; A. Ernout, A. Meillet (1985), s. v. mulleus.
[16] J. Lacroix (2003): 198.
[17] Ph. Jouët (1993): 65.
[18] Ph. Jouët (1993): 180-1; Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 249.
Si nomina correttamente Midir, invece, in Ph. Jouët (2007): 268.
[19] Ph. Jouët (1993): 197; F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1983): 152-3.
Nella sua traduzione della Táin — La Razzia des vaches de Cooley (1994) —, alle p. 249-50 Guyonvarc’h ha così reso il passo sopra riportato: «Ci sono tre sciami strani [di uccelli] sopra di loro, con un aspetto incomparabile. Il primo sciame è tutto rosso; il secondo sciame: sono bianchi quanto dei cigni; il terzo sciame è nero quanto dei corvi. Le tre Bodb dalla bocca rossa li circondano, rapide quanto lepri, tutt’attorno alle tre ruote […]».
Sopravvivenze del «sistema colorato tripartito» ha individuato J. H. Grisward (1985) nel testo arturiano del XIII secolo intitolato Queste del Saint Graal, ove si racconta di una nave meravigliosa ancorata in un’isola selvaggia. I protagonisti dell’episodio — Galaad, Boorz e Perceval­ — vi scoprono un letto sormontato da una specie di baldacchino, costituito di tre fusi: «Il primo fuso era più bianco della neve fresca, il secondo rosso come gocce di sangue, il terzo verde come lo smeraldo». Si tratta di fusi fatti fabbricare dalla moglie del re Salomone, utilizzando appunto il legno di tre alberi di colore diverso, tutti discendenza dell’Albero della Vita, il quale ai tempi di cui si narra nella Genesi, aveva assunto in successione il bianco («disobbedienza empia»), il verde (concepimento di Abele), il rosso (uccisione di Abele).
[20] Cfr. anche Ph. Jouët (2007): 192-3, 205, 323.
[21] «Études Celtiques», XXXI, 1996, p. 136, nota 49.
[22] Ph. Jouët (1993): 251, nota 181.
Per i denti è usato il sopra indicato aggettivo irlandese significante ‘bianco’ (ma nei testi medievali anche ‘brillante, puro, vero’): bán < ie. *bhā/*bhē ‘brillare’.
[23] Ph. Jouët (1993): 251, nota 181.
[24] Ph. Jouët (1993): 251, nota 181; P.-Y. Lambert (1993): 255-7.
[25] P.-Y. Lambert (1993): 251, 395 (nota 19); J. Gw. Evans, R. M. Jones (1973): 296 (col. 615).
Il sostantivo pl. a. cimr. fionou ‘roses; purple fox-gloves’, medio cimr. f(f)ion, attuale ffion ‘red flowers, foxgloves, roses’, corrisponde all’a. irl. síon ‘digitale’; tutte queste voci sono state accostate al lat. spionia ‘sorta di vite’ [A. Falileyev (2000): 57; H. M. Evans, W. O. Thomas (1989): 225; J. Vendryes (1974): 115].
Cfr. anche Ph. Jouët (2007): 33, ove l’Autore rileva che «lo schema dei “tre colori”» si ritrova nei tratti fisici di alcuni esseri mitici del «leggendario celtico»: i «capelli neri “come il corvo”», la «pelle “più bianca della neve”», e le «gote rosse “come la digitale”».
[26] J. MacKillop (1998), s. vv. blackDeirdre; Ph. Jouët (1993): 251, nota 181.
[27] D. Hyde (1991): 33-46. La storia inizia così:
C’era in Irlanda molto tempo fa il figlio di un re. Uscì prendendo con sé il fucile e il cane. Fuori c’era la neve. Uccise un corvo. Il corvo cadde sulla neve. Mai aveva visto niente di più bianco di quella neve o di più nero della testa di quel corvo o di più rosso di quel sangue che usciva a fiotti.
Si impose la geis [proibizione, ingiunzione] e l’obbligo per un anno di non mangiare due pasti alla stessa mensa e di non dormire due notti nella stessa casa, finché non avesse trovato una donna i cui capelli fossero neri come la testa del corvo, la pelle bianca come la neve e le guance rosse come il sangue.
Quel racconto si legge anche in: Fate e spiriti d’Irlanda, a cura di Henry Glassie, traduzione dall’inglese di Maria Magrini, Milano, 1987, Arcana, pp. 63-75 [Irish Folktales, edited by Henry Glassie, London, 1988, Penguin Books, pp. 39-47, 339-40].
[28] P.-Y. Lambert (1993): 395 (nota 28); C. Sterckx (1997): 841.
[29] Conservata nel «manoscritto N° 619 della Biblioteca Municipale di Cambrai» [C. Sterckx (1997): 841].
[30] C. Sterckx (1997): 841-2. Testo dell’omelia e analisi sono stati riproposti di recente, senza sostanziali modifiche, in C. Sterckx (2009): 50-1.
[31] Cfr. R. Simek, H. Palsson (1987): 294-5. Il testo norreno è riportato all’indirizzo web:
https://www.cybersamurai.net/Mythology/nordic_gods/LegendsSagas/Edda/PoeticEdda/Icelandic/Rigsthula.htm.
[32] G. Chiesa Isnardi (1991): 469.
[33] C. Alberto Mastrelli (1982), pp. 263-9 (Rígsthula) e 495-500 (commento).
Nella traduzione del Carme di Rígr proposta da Mastrelli, ho modificato alcuni nomi propri, avvicinandoli il più possibile alla forma norrena, e ho inserito — tra parentesi quadre e in corsivo — qualche breve sintesi e nota esplicativa.
Ho utilizzato di G. Chiesa Isnardi (1991) il paragrafo Origine delle classi sociali, alle pp. 66-8 e 80-1 (note), cui si possono aggiungere le pp. 469-70 — e, sui colori nel mondo nordico (in particolare il bianco, il rosso, il blu, il grigio, il nero), 468-73, 491-2. Ho consultato inoltre: G. Dumézil (1987): 209-221 [e (1983): 227]; J. Haudry (1987): 9-10, 89-93.
[34] «Rosso di capelli e di carnagione», secondo quanto riporta Dumézil.
[35] F. Le Roux, Ch.-J. Guyonvarc’h (1991): 82; B. Sergent (1995): 438-9.
Sergent constata che «non si possono attribuire a Jarl i caratteri di una senescenza precoce», per cui ha «dei capelli “biondo pallido” — non bianchi, ma il più vicino possibile al bianco». Qui però allo Studioso sembra sfuggire come il «livello simbolico trifunzionale» si legga nei tre diversi coloriti di ÞrællKarlJarl.
[36] Régis Boyer (2001): 48, 182.
[37] M. Dillon, N. K. Chadwick, Ch.-J. Guyonvarc’h, F. Le Roux (2001): 178.
[38] J. Renaud (1992): 195 (e note 1 e 2).
[39] P. Scardigli, T. Gervasi (1978), s. v. king; M. G. Saibene (1996): 150-1.

FONTE

 2 LUGLIO 2011