Quando l’impresa fisica diventa esperienza spirituale: un convegno

Per spiegare il senso del viaggio verticale, il più assurdo e meraviglioso che esista, si può chiedere aiuto a uno scrittore che frequentava solo gli strapiombi del pensiero ma trovò ugualmente le parole: «L’incredibile spicco delle cose nell’aria ancor’oggi tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dèi fin dall’inizio». Così scriveva Cesare Pavese senza specifico riferimento al Sinai di Mosè o al monte della Trasfigurazione, le classiche rappresentazioni della montagna biblica, ma alludendo a un luogo che incarnava il mito delle origini. Pavese non era un «montanaro», disdegnava la claustrofobia delle valli e dei versanti smisurati, però aveva praticato gli anfratti di tufo delle Langhe e adorava il mistero. Sapeva che l’appicco – di legno, argilla o roccia che sia – è il posto dove la terra e il cielo si possono incontrare, e che l’ascesa è il modo per raggiungerlo.

Si può scalare a forza di braccia, ma il desiderio viene prima. La guida marsigliese Gaston Rébuffat insegnava che «l’alpinista è chi conduce il corpo dove un giorno gli occhi hanno guardato». Era un uomo secco e allampanato, Rébuffat, il ritratto della disarmonia, ma in parete diventava una farfalla. Non si stancava di ripetere ai giovani alpinisti che è altrettanto importante sognare una montagna che salirla.

L’esperienza della scalata trascende l’atto fisico per caricarsi di significati simbolici: basta arrampicarsi su una pianta di un certo rispetto, sulla torre del paese o meglio su un’altura montana, per accorgersi che il mondo della pianura e i relativi riferimenti cambiano proporzioni. Guardandolo dell’alto, il grande diventa minuscolo, ciò che era importante passa in secondo piano. Le priorità della vita quotidiana svaporano e si confondono via via che si fa il vuoto, fino a dissolversi in una presenza affettuosa ma distante. Mentre l’altura o la parete si compongono in forme tangibili, il mondo del piano perde peso e si ridimensiona. Al contempo la giusta distanza pulisce lo sguardo sulla vita «di sotto» e aiuta a comprenderla.

Questo succede a chi scala fisicamente la montagna ma anche a chi la sale con il pensiero, il desiderio, lo spirito. L’ascesa non è una conquista bensì la tensione verso l’alto, il viaggio su una cima che sostanzialmente non esiste perché è sempre sormontata da un cielo irraggiungibile. Anche in questo senso l’alpinismo insegna, o impara, che la cima non è un traguardo definitivo ma solo la fine di una visione. Il grande alpinista friulano Giusto Gervasutti, quando completò la sua impresa più bella sulla parete Est delle Grandes Jorasses, scrisse malinconicamente: «Niente fremiti di gioia, niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa».

Domani al Forte di Bard si parlerà di ascesa in questi e altri termini. Si affronterà anche il rischio della fuga dalla realtà, assai caro al filosofo alpinista torinese Gian Piero Motti che non esitò a definire l’alpinista totale un «fallito». Lo psicoanalista Michele Oldani spiega che «diventa necessario per ogni uomo trovare un equilibrio tra l’alto e il basso, tra lo straordinario e l’ordinario, quel particolare punto di vista che gli permetta di percorrere la propria strada guardandola contemporaneamente da una prospettiva più elevata». Il concetto della «discesa salvifica» è ribadito con forza dal monaco biblista Luciano Manicardi, vicepriore di Bose: «La disciplina spirituale cristiana chiede adesione alla terra, all’umano, allo storico, al relazionale, come via di comunione con quel Dio il cui volto è narrato dall’umanità di Gesù di Nazaret. Anche l’esperienza del peccato, della caduta, mentre rivela una distanza tra l’uomo e il suo Dio, pone le basi per l’esperienza della salvezza che non consiste nell’innalzamento umano a Dio, ma nell’abbassamento divino, nella sua kénosis, che raggiunge l’uomo là dove egli è».

Si può vedere una sintesi di tutto ciò nella relazione che l’alpinista himalayana Nives Meroi proporrà al convegno di Bard: «Io sono le montagne che non ho scalato». Lì c’è tutto il senso dell’ascesa.

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