Tutte le riforme del sistema pensionistico italiano che hanno limato l’assegno dai tempi d’oro del retributivo fino all’arrivo del nuovo metodo di calcolo, il contributivo, che costringe a lavorare per quarantanni e con un vitalizio più ridotto

Dall’Eldorado delle baby pensioni con il sistema retributivo, all’incubo di oltre 40 anni di versamenti con il sistema contributivo. La storia del sistema pensionistico italiano che ha fatto dell’Inps uno dei più grandi enti previdenziali d’Europa è in continua evoluzione, ma si scontra quotidianamente con interessi divergenti: da un lato quello dello Stato di far quadrare i conti, prima che l’intero sistema collassi, dall’altro quello dei lavoratori che rivendicano il meritato riposo con assegni dignitosi, dopo una vita di sacrifici.
Di certo si può dividere la storia della previdenza nostrana in due grandi tronconi: una prima fase espansiva che dal 1898 (data di nascita della Cassa nazionale di previdenza) arriva alla fine degli anni Ottanta, allargando la platea degli aventi diritti all’assegno e aumentando le prestazioni. Dopo, a cominciare dalla riforma Amato del 1992, inizia la fase di contrazione con i tagli alla spesa e l’entrata in vigore di requisiti più stringenti per aver diritto alle prestazioni previdenziali che dal 2012 sono due: la pensione di vecchiaia e quella anticipata.
Pensioni di vecchiaia. Le categorie di lavoratori si dividono in due: quanti hanno effettuato il primo versamento entro il 1996 e quanti lo hanno fatto dopo. Per i lavoratori pre-1996, l’accesso alla pensione di vecchiaia è garantito da un’anzianità contributiva minima di 20 anni e una anagrafica che per gli uomini sarà pari a 66 anni e 7 mesi dal 2018. Criterio identico per le donne che però ci arriveranno in maniera graduale partendo dai 62 del 2012. Per i dipendenti post-1996 sono richiesti 20 anni di contributi e gli stessi requisiti anagrafici dei pre-1996, a patto che l’importo della pensione non risulti inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale. In alternativa bisogna arrivare a 70 anni e sette mesi con 5 anni di contribuzione “effettiva”.
Pensione anticipata. Dal 2012 ha sostituito la pensione di anzianità: i requisiti – per i lavoratori pre-1996 – prevedono 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Per chi accede al trattamento con meno di 62 anni si applica una riduzione pari a un punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso alla pensione rispetto all’età stabilita. La percentuale annua aumenta a due punti percentuali per ogni anno di ulteriore anticipo rispetto a due anni. Per i post-1996 i requisiti contributivi non cambiano, ma non scatta alcuna riduzione del trattamento pensionistico in caso di accesso alla pensione ad un’età anagrafica inferiore a 62 anni (si tratta infatti di lavoratori che beneficiano del calcolo contributivo e non retributivo, quindi più conveniente per lo Stato). E’ possibile accedere alla pensione anche al compimento di 63 anni, da adeguare agli incrementi della speranza di vita, a condizione che risultino versati e accreditati almeno 20 anni di contributi e che l’ammontare mensile della prima rata di pensione risulti non inferiore a un importo soglia mensile pari a 2,8 volte l’importo mensile dell’assegno sociale.
Questo è lo stato dell’arte, ma come si è arrivati alla situazione attuale? Per capirlo bisogna fare un salto indietro nel passato, quando gli anni del miracolo italiano e del boom economico avevano convinto il governo Rumor a varare la riforma Brodolini, che nel 1969 addottò la formula retributiva per il calcolo della pensione legando la prestazione previdenziale alla retribuzione percepita negli ultimi anni di lavoro: spesso gli assegni previdenziali arrivavano all’80% dell’ultima retribuzione. Nel 1973, poi, arrivarono le baby pensioni con la possibilità per le lavoratrici della pubblica amministrazione – sposate e con figli – di lasciare l’impiego dopo 14 anni, sei mesi e un giorno. Dopo 20 anni per gli altri statali e dopo 25 anni per tutti i dipendenti privati. Un privilegio abolito dal governo Amato nel 1992, che sganciò anche gli assegni previdenziali dall’andamento dei salari lasciandoli ancorati solo all’inflazione.
Nel 1982 una commissione di studio istituita dal ministro del Tesoro presieduta da Onorato Castellino (mentore dell’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero) mise in luce i punti più controversi del sistema previdenziale italiano annunciando che in futuro sarebbero stati necessari pesanti tagli, ma tutti i progetti di riforma che seguirono finirono nel nulla. Lo Stato però aveva messo a fuoco il bisogno di contenere la spesa, riordinare e armonizzare i diversi regimi pensionistici. D’altra per come il sistema è concepito – ovvero senza alcun accumulo di capitale, in quanto tutti i contributi versati sono utilizzati per pagare gli assegni – l’equilibrio c’è solo quando le entrare sono sufficienti a garantire le prestazioni. Anche per questo motivo il governo Renzi ha accelerato sulla flessibilità del mercato del lavoro con l’obiettivo di far salire i versamenti.
Riforma Amato 1992. Per garantire la sostenibilità del sistema, il governo decide il graduale incremento dell’età pensionabile da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini portando la contribuzione minima da 15 a 20 anni. Per la prima volte compare il divieto parziale di cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo. Un anno dopo nasce la previdenza complementare.
Riforma Dini 1995. Si passa dal sistema retributivo a quello contributivo (l’assegno si calcola sulla base di quando versato durante la carriera lavorativa) per quanti abbiano iniziato a lavorare dal primo gennaio 1996. Compare la soglia minima dell’età anagrafica da abbinare ai 35 anni di contribuzione per avere la pensione di anzianità. Vengono tagliati gli importi delle pensioni di invalidità e di reversibilità sulla base dei reali redditi dichiarati. Con il sistema contributivo l’importo della pensione annua si calcola moltiplicando il montante contributivo per il coefficiente di trasformazione relativo all’età del lavoratore alla data di decorrenza della pensione. I coefficienti di trasformazione dipendono dalle aspettative di vita e ne è prevista la revisione periodica.
Riforma Prodi 1997. Il taglio dei costi, questa volta, è dettato dalla necessità di agganciare l’Italia all’Eurozona per entrare nella moneta unica come fondatore. Il governo dell’Ulivo, quindi, aumenta i requisiti di accesso alla pensione di anzianità per i lavoratori autonomi e dopo aver parificato i pensionamenti anticipati della Pa alle pensioni di anzianità erogate dall’Inps decide anche il blocco della rivalutazione dei trattamenti superiori a 5 volte minimo.
Riforma Berlusconi 2001. Come promesso in campagna elettorale, il governo di centrodestra adegua le pensioni minime e le pensioni sociali portando l’importo minimo a un milione di lire al mese. Nel 2003, poi, arriva la possibilità di cumulo totale tra pensione di anzianità, liquidata a 58 anni con almeno 37 anni di contributi, con i redditi di lavoro autonomo e dipendente. I lavoratori parasubordinati sono parificati agli autonomi e constestualmente viene soppresso l’Inpdai che viene inglobato dall’Inps.
Finanziaria 2004. Compare per la prima volta il contributo di solidarietà – pari al 3% – sui trattamenti superiori a 25 volte il minimo.
Riforma Maroni 2004. Arriva lo “scalone” con l’inasprimento dei requisiti per la pensione di anzianità ed innalzamento dell’età anagrafica – a partire dal primo gennaio 2008 – da 57 a 60 anni. Per le donne rimane la possibilità di andare in pensione di anzianità a 57 anni di età e 35 anni di contribuzione, a patto di accettare il calcolo integrale del sistema contributivo. Per incentivare i lavoratori a proseguire la loro attività, poi, arriva il super bonus del 32,7% per chi rinvia la pensione di anzianità. Con la Finanziaria 2007 – governo Prodi – aumenta di cinque punti percentuali la contribuzione dovuta dagli iscritto alla gestione separata dell’Inps.
Riforma Damiano-Padoa Schioppa 2007. Addio alla scalone: al suo posto il “sistema delle quote” determinate – dal primo gennaio 2009 – dalla somma dell’età e degli anni lavorati. L’età pensionabile per le donne del pubblico impiego sale, gradualmente, fino a 65 anni. L’aumento decorre dal 2012. Il Tfr, invece, viene rateizzato.
Riforma Fornero 2011. Il Salva Italia cancella il sistema delle quote ed estende a tutti il sistema contributivo pro-rata. Viene innalzata l’età minima per la pensione e le donne sono equiparate agli uomini. Arriva la fascia flessibile di pensionamento per i lavoratori con riferimento ai quali il primo accredito contributivo decorre dopo il 1996: 63-70 anni. La Stabilità 2014 introduce il contributo di solidarietà sugli importi di pensione superiori a quattordici volte il trattamento minimo Inps.
Nel 2015, la Corte Costituzionale dichiara illegittima la “Riforma Fornero” nella parte in cui prevedeva che “la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo Inps, nella misura del 100 per cento”. La legge di Stabilità 2016 avvia una sperimentazione – per il triennio 2016-2018 – in base alla quale i lavoratori dipendenti del settore privato a cui manchino non più di tre anni alla pensione di vecchiaia possono andare in part-time al 40-60%, senza che la busta paga e l’assegno pensionistico subiscano detrazioni.
FONTE