Il rancore ricorda che si è subita un’ingiustizia, tuttavia è necessario provare rancore a vita? Il dolore di ieri non deve per obbligo persistere oggi.
Il perdono è sopravvalutato. Il rancore intossica. Sono stato ferito ieri, dieci anni fa e venti. Un’affermazione universale. Piccoli torti, grandi offese, vere violenze. L’amante che ci tradisce dopo averci giurato fedeltà eterna, il professore che regala il dottorato al collega incapace. L’amico che ci trascura nel bisogno, il figlio che ignora il solco paterno. E, crescendo in gravità, il cocainomane al volante che ci strappa la persona amata, il terrorista che ci uccide un parente, la ragazza violentata in centro città.
Passata la reazione immediata, la ferita porta un’emozione a crescere: il rancore. Per sua natura si espande nella mente, richiama ricordi, invoca la messa in scena nel teatro privato e pubblico della scena accaduta e la colorisce di fantasie di punizione e vendetta. Chi si sente vittima usa il rancore per ricordare giorno dopo giorno, in un’incessante amplificazione dell’offesa subita.
Laura Tappatà, nel suo Il dono del rancore, ne tesse una specie di elogio. Dipinge un quadro in cui sembra che viviamo in una società permeata da buonismo, che esalta la cultura del perdono morale, e pare ci siamo dimenticati che provare rancore sia umano, inevitabile, e sia di più: vivificante, consolida l’identità, permette di trasformare, se ben incanalata, l’energia del dolore in trascendenza creativa. Sintetizza: C’è molta più nobiltà in un rancore consapevole e lucido che in un perdono regalato per convenzione morale.
Rancore e perdono, due tra le vie che la vittima percorre per affrontare il danno ricevuto: coltivare il ricordo dell’offesa o comprendere l’aggressore, vedere l’umanità che ne ha guidato il gesto e, infine, lasciare andare dopo averlo moralmente assolto. Compio la seconda operazione nell’immaginazione: chi ha perpetrato violenza era guidato da profonda sofferenza, ne visualizzo vessazioni subite nell’infanzia. Calcolo la combinazione tra la sua natura geneticamente data e i danni che la storia gli ha inferto: risulta che il gesto del genitore incestuoso, dell’attentatore suicida, del guidatore drogato era inevitabile. Non posso più provare rancore se penso la sua azione come obbligata da una catena infinita di cause ed effetti che lo ha portato senza possibilità di scelta a diventare ciò che è.
Compio l’operazione non fino in fondo: si tratta di decidere che il libero arbitrio non esiste (non mi pronuncio sulla questione). Posso perdonare nel mio cuore l’attentatore, il violentatore, l’assassino senza invocare il nome di dio?
Eppure la posizione di Tappatà non mi convince appieno, anche se la sua critica della cultura del facile perdono ha le sue ragioni. Su quella si radicano decisioni insensate che portano a liberare criminali capaci solo di simulare un pentimento che il loro cervello non è attrezzato per provare, psicopatici che una volta usciti aggrediranno ancora per natura. La tendenza al facile perdono su base morale finisce per favorire chi aggredisce e priva la vittima di scudi.
Ma non vedo la cultura del perdono dominare. Vedo più facilmente ritorsione, guerre eterne, faide familiari. Madri che piangono figli uccisi che incitano fratelli e mariti al ricordo e a un pareggiamento dei conti che genera vittime che a loro volte saranno piante pubblicamente e urleranno sangue. Vedo orgogli facilmente offesi, gente che ricorda.
Mi chiedo: abbiamo bisogno di un elogio del rancore o è una prassi che già viene coltivata spontaneamente e con successo?
La cultura del perdono esiste, vero. Il perdono cristiano, in nome dell’essere supremo. Strada psicologicamente semplicistica. Più recentemente è entrata nel mondo occidentale la pratica della compassione buddhista. È una strada diversa. Non è perdono morale, quanto comprensione che l’altro, alla radice, è uguale a noi, accompagnata dalla consapevolezza continuamente ricercata che ogni passione che abita la nostra mente non definisce l’identità. Il rancore – come colpa, gioia, tristezza, vergogna – può abitare la nostra mente ma noi possiamo lasciarlo scivolare nelle periferie della coscienza. Per uno scopo: non lasciarci dominare da quello che è, in ultima analisi, solo uno stato della mente e del corpo.
Poi c’è la psicologia del perdono, coltivata dalle ultime generazioni di psicoterapeuti. Barcaccia e Mancini ne hanno riassunto l’utilità in Teoria e clinica del perdono. Chi perdona ne trae benessere spirituale, fisico, mentale. Si tratta di invitare i pazienti che vengono nei nostri studi a perdonare chi ha tradito il loro sogno d’amore o professionale o li ha abusati, umiliati. Difficile, ma si può.
Ripenso alle storie che ascolto nel mio studio di psicoterapia. Se esiste una dialettica tra perdono e rancore, io mi volto altrove. Ascolto donne violentate, adulti risentiti verso i genitori che li hanno trascurati e sottomessi, coniugi che nel corso degli anni hanno accumulato disattenzioni o tradimenti e non dimenticano niente.
Si chiedono ‘devo perdonare?’ e si rispondono ‘non ce la faccio’. Io non li invito a farlo. Promuovere prematuramente il perdono è nocivo: svaluta la ferita. Qui Tappatà ha colto nel segno. Il dolore ricorda che si è subita un’ingiustizia – escluderei però le liti condominiali –. La rabbia, il nucleo emotivo primario del rancore, aiuta a sentirsi in diritto di difendersi, di scacciare l’aggressore. Immaginate una donna abusata alla quale dite: ‘perdona’, quando per tutta la vita ha aspettato di sentirsi dire: ‘quello che è successo è un crimine, tu non sei colpevole, sei la vittima’. Inconsapevoli, la gettate nell’abisso di chi ha chiesto invano di essere presa sul serio.
E allora coltiviamo il rancore? No. Perché colonizza la mente, la incatena al gesto dell’aggressore, limita la libertà.
Che fare quindi? Ricordare l’offesa subita? All’inizio sì. Dare voce a risentimento, rabbia, fantasie di punizione? Sì. È giusto, umano, con misura serve. Ma più importante: si coltivi la memoria del dolore e si blocchi l’interlocutore prima che scivoli di nuovo verso il rancore. Poi la domanda: è necessario che la sua mente, dopo tutto questo tempo, si fermi ancora su questo dolore? Chi lei è oggi, dipende così tanto dal male che ha subito allora? Molti in risposta, comprendono che il dolore di ieri non deve per obbligo persistere oggi. La vita di molti si scioglie, il dolore è lenito, il rancore non più necessario.
BIBLIOGRAFIA:
Barcaccia B., Mancini F. (a cura di), Teoria e clinica del perdono. Raffaello Cortina Editore, Milano 2013.
Per saperne di più: FONTE
Il perdono è sopravvalutato. Il rancore intossica. Sono stato ferito ieri, dieci anni fa e venti. Un’affermazione universale. Piccoli torti, grandi offese, vere violenze. L’amante che ci tradisce dopo averci giurato fedeltà eterna, il professore che regala il dottorato al collega incapace. L’amico che ci trascura nel bisogno, il figlio che ignora il solco paterno. E, crescendo in gravità, il cocainomane al volante che ci strappa la persona amata, il terrorista che ci uccide un parente, la ragazza violentata in centro città.
Passata la reazione immediata, la ferita porta un’emozione a crescere: il rancore. Per sua natura si espande nella mente, richiama ricordi, invoca la messa in scena nel teatro privato e pubblico della scena accaduta e la colorisce di fantasie di punizione e vendetta. Chi si sente vittima usa il rancore per ricordare giorno dopo giorno, in un’incessante amplificazione dell’offesa subita.
Laura Tappatà, nel suo Il dono del rancore, ne tesse una specie di elogio. Dipinge un quadro in cui sembra che viviamo in una società permeata da buonismo, che esalta la cultura del perdono morale, e pare ci siamo dimenticati che provare rancore sia umano, inevitabile, e sia di più: vivificante, consolida l’identità, permette di trasformare, se ben incanalata, l’energia del dolore in trascendenza creativa. Sintetizza: C’è molta più nobiltà in un rancore consapevole e lucido che in un perdono regalato per convenzione morale.
Rancore e perdono, due tra le vie che la vittima percorre per affrontare il danno ricevuto: coltivare il ricordo dell’offesa o comprendere l’aggressore, vedere l’umanità che ne ha guidato il gesto e, infine, lasciare andare dopo averlo moralmente assolto. Compio la seconda operazione nell’immaginazione: chi ha perpetrato violenza era guidato da profonda sofferenza, ne visualizzo vessazioni subite nell’infanzia. Calcolo la combinazione tra la sua natura geneticamente data e i danni che la storia gli ha inferto: risulta che il gesto del genitore incestuoso, dell’attentatore suicida, del guidatore drogato era inevitabile. Non posso più provare rancore se penso la sua azione come obbligata da una catena infinita di cause ed effetti che lo ha portato senza possibilità di scelta a diventare ciò che è.
Compio l’operazione non fino in fondo: si tratta di decidere che il libero arbitrio non esiste (non mi pronuncio sulla questione). Posso perdonare nel mio cuore l’attentatore, il violentatore, l’assassino senza invocare il nome di dio?
Eppure la posizione di Tappatà non mi convince appieno, anche se la sua critica della cultura del facile perdono ha le sue ragioni. Su quella si radicano decisioni insensate che portano a liberare criminali capaci solo di simulare un pentimento che il loro cervello non è attrezzato per provare, psicopatici che una volta usciti aggrediranno ancora per natura. La tendenza al facile perdono su base morale finisce per favorire chi aggredisce e priva la vittima di scudi.
Ma non vedo la cultura del perdono dominare. Vedo più facilmente ritorsione, guerre eterne, faide familiari. Madri che piangono figli uccisi che incitano fratelli e mariti al ricordo e a un pareggiamento dei conti che genera vittime che a loro volte saranno piante pubblicamente e urleranno sangue. Vedo orgogli facilmente offesi, gente che ricorda.
Mi chiedo: abbiamo bisogno di un elogio del rancore o è una prassi che già viene coltivata spontaneamente e con successo?
La cultura del perdono esiste, vero. Il perdono cristiano, in nome dell’essere supremo. Strada psicologicamente semplicistica. Più recentemente è entrata nel mondo occidentale la pratica della compassione buddhista. È una strada diversa. Non è perdono morale, quanto comprensione che l’altro, alla radice, è uguale a noi, accompagnata dalla consapevolezza continuamente ricercata che ogni passione che abita la nostra mente non definisce l’identità. Il rancore – come colpa, gioia, tristezza, vergogna – può abitare la nostra mente ma noi possiamo lasciarlo scivolare nelle periferie della coscienza. Per uno scopo: non lasciarci dominare da quello che è, in ultima analisi, solo uno stato della mente e del corpo.
Poi c’è la psicologia del perdono, coltivata dalle ultime generazioni di psicoterapeuti. Barcaccia e Mancini ne hanno riassunto l’utilità in Teoria e clinica del perdono. Chi perdona ne trae benessere spirituale, fisico, mentale. Si tratta di invitare i pazienti che vengono nei nostri studi a perdonare chi ha tradito il loro sogno d’amore o professionale o li ha abusati, umiliati. Difficile, ma si può.
Ripenso alle storie che ascolto nel mio studio di psicoterapia. Se esiste una dialettica tra perdono e rancore, io mi volto altrove. Ascolto donne violentate, adulti risentiti verso i genitori che li hanno trascurati e sottomessi, coniugi che nel corso degli anni hanno accumulato disattenzioni o tradimenti e non dimenticano niente.
Si chiedono ‘devo perdonare?’ e si rispondono ‘non ce la faccio’. Io non li invito a farlo. Promuovere prematuramente il perdono è nocivo: svaluta la ferita. Qui Tappatà ha colto nel segno. Il dolore ricorda che si è subita un’ingiustizia – escluderei però le liti condominiali –. La rabbia, il nucleo emotivo primario del rancore, aiuta a sentirsi in diritto di difendersi, di scacciare l’aggressore. Immaginate una donna abusata alla quale dite: ‘perdona’, quando per tutta la vita ha aspettato di sentirsi dire: ‘quello che è successo è un crimine, tu non sei colpevole, sei la vittima’. Inconsapevoli, la gettate nell’abisso di chi ha chiesto invano di essere presa sul serio.
E allora coltiviamo il rancore? No. Perché colonizza la mente, la incatena al gesto dell’aggressore, limita la libertà.
Che fare quindi? Ricordare l’offesa subita? All’inizio sì. Dare voce a risentimento, rabbia, fantasie di punizione? Sì. È giusto, umano, con misura serve. Ma più importante: si coltivi la memoria del dolore e si blocchi l’interlocutore prima che scivoli di nuovo verso il rancore. Poi la domanda: è necessario che la sua mente, dopo tutto questo tempo, si fermi ancora su questo dolore? Chi lei è oggi, dipende così tanto dal male che ha subito allora? Molti in risposta, comprendono che il dolore di ieri non deve per obbligo persistere oggi. La vita di molti si scioglie, il dolore è lenito, il rancore non più necessario.
BIBLIOGRAFIA:
Barcaccia B., Mancini F. (a cura di), Teoria e clinica del perdono. Raffaello Cortina Editore, Milano 2013.
Per saperne di più: FONTE