Il DOWNSHIFTING di Sara DAGNA del LEGAL STORE (Testo del 02.05.2012)
Caro Zibaldone, ogni tanto appare! Poi scompare nelle valli, ma se la evochi riappare. E’ Sara DAGNA, è la Collega del LEGAL STORE, che sta a Montegrosso d’Asti. Per autodefinizione “l’Avvocata di strada (pardon, ancora dott.ssa, di strada)” del Foro di Acqui Terme. Alle h.10:33 del 24 aprile 2012 leggo l’incipit della mail e penso: non può essere che lei! Le lascio la parola per questo saggio che ho il piacere di condividere con i lettori di Studio Cataldi. “Ho provato a mangiare 4 salti in padella, sono stata su facebook, ho pure usato il cellulare touchscreen. Nulla. Mi sono resa conto di essere nata con un’età sbagliata e di avere nostalgia di epoche mai vissute. Ed è bello tornare alla propria dimensione naturale, dopo essere stata dentro quella delle macchine. Perchè lo si fa con la consapevolezza di volerci restare, di voler essere piuttosto che avere. Downshifting. L’ho letta pensando fosse una nuova disciplina sportiva. Del tipo “hai mai fatto downshifting?”. “mmmm, ma sì, in Sardegna si fa da dio”. Poi ho capito che si trattava di avere la licenza in semplicità. Posso dirlo quindi, ho fatto downshifting. Sono una downshifter, orgogliosa di esserlo. Ho un orto delle dimensioni di un campo, un frutteto di circa sessanta piante, un giardino senza guardiano, un forno a legna in cucina. Corro con un cane, mi piace sentire la terra sulle mani e l’erba tra i piedi. La rugiada nelle albe d’estate quando raccolgo i fagiolini perchè dopo si fa l’alfa. I grilli al tramonto arancione e le lucciole al buio del silenzio. Volutamente non ho internet a casa. Lo lascio al lavoro. Non ho l’I.Pod sparato nelle orecchie. Mi piace che la musica si diffonda intorno, che giochi a rimpiattino su ogni cosa che tocca e che torni a me, sempre in maniera diversa. Adoro il giradischi e i vinile di mio padre. Ho provato a stare nella dimensione di oggi, ho capito che so vivere in quella di ieri. E non perchè rifiuti il progresso, è solo che lui non è della mia taglia. Mi va bene così. Sto semplicemente bene così. Così ho imparato a potare. Tagliare i rami secchi della mia vita, quelli che non mi danno linfa vitale. Ho imparato a coltivare, dando lo spazio ed il tempo alle mie cose. Conosco il rosso del pomodoro maturato sulla pianta, quello dei supermercati è finto e dipinto. Conosco la croccantezza del sedano non coltivato in serie che ti colora le mani di scuro. Quello che si compra sa di acqua ed sembra lavato nel perlana. Conosco il sapore di una pesca matura appena colta dal ramo, che ti si sbrodola addosso. Quelle nelle cassette ti guardano racchiuse nella loro pelle ruvida e ti snobbano. E il succo delle ciliegie amarene, quello che se ti sporchi la maglietta, non se va più via. Le vedi in vendita a 5,00 € al kg e allora non le compri, così ti risparmi pure di lavare la macchia. Il rumore dello lievito che borbotta in una terrina, quello lento, non quello che in 5 minuti ti alza, ti impasta e ti cuoce una pizza. Quindi perchè farci solo 4 salti in padella, perchè invece non farci una maratona? Perchè invece di avere tutti gli ingredienti lì, infilati in un sacchetto da una macchina, che ha scelto per noi, non infiliamo noi le mani e scegliamo noi, per il semplice gusto di creare un piatto per noi? Così ci si avvicina alla dimensione umana, si impara ad ascoltare nuovamente il nostro corpo, ad assecondare i nostri sensi. Così ho capito che non mi piace scorrere gli amici su di una bacheca, vedere i loro visi fissi, sempre uguali di una foto in cui si è più fighi, condividere i loro gusti con un “mi piace”, commentare le foto di un momento passato insieme, con gli sguardi di gente che non c’entra nulla, io voglio vedere le loro espressioni di ogni giorno, sapere che anche loro si alzano come me al mattino, con i capelli scompigliati, che il nostro confronto ed i nostri discorsi non si limitano ad un “mi piace”, perchè…c’è sempre un perchè, preferisco un caffè insieme, così…uno di fronte all’altra, cercando di distinguere l’aroma dall’odore di quella persona. La webcam uccide il profumo dell’altro. Fa dimenticare quanto sia piacevole l’altro per la sua vicinanza fisica. Così ho capito che non mi piace e non sono proprio portata a digitare su uno schermo, freddo ed insensibile, leggere su una nuvoletta i pensieri dell’altro, preferisco toccare una mano, calda e viva, ascoltare la voce direttamente dalle labbra, guardare negli occhi. Così probabilmente ho tagliato tanti dalla mia vita. Ma forse, non me ne interessava così tanto…perchè voglio rapporti genuini, quelli che senti di voler conoscere e di vivere perchè ne hai il bisogno, come il mangiare o il dormire. E allora li cerchi e li coltivi, come una pianta di zucchini. Vero, magari non ne avrò 500, di amici, ma 50, ma con loro ci farei la maratona …non solo 4 salti”. Grazie grazie grazie, mia cara Sara.
FONTE
Downshifting: lavorare meno e godersi la vita (Testo del 10.12.2010)
Breve storia di un movimento molto attuale. Più dieci regole per cominciare a vivere meglio
Downshifting: cosa vuol dire?
Che significa? Molte cose in una. Significa ad esempio prendersela con calma, lentamente, non affannarsi, in primo luogo per le questioni di lavoro, i soldi, la carriera. Il contrario dello yuppismo anni ’80. Significa fare meno ma anche fare meglio, con più passione e più senso e in modo più semplice (magari rinunciando all’ultimo modello di smartphone che invece di semplificarci la vita ce la complica con aggiornamenti continui, rischi di attacchi di nuovi virus, moltiplicazione di funzioni che nessuno utilizzerà mai), a prescindere da quello che si fa. Significa avere più tempo per sé, la propria famiglia, gli amici, gli hobby, perché no anche per le vacanze, a patto ovviamente che non siano troppo costose. Perché il downshifting, moda, fenomeno culturale o qualsiasi altra cosa sia o stia diventando, predica una riduzione un po’ in tutti quegli aspetti che in una normale esistenza di una persona occidentale, o comunque vivente in un’economia industrializzata (anche in Cina, però, se ne accorgeranno presto), provocano stress, ansia, perdita di contatto con le cose che hanno più senso nella vita. E, alla fine, rischiano di far perdere il senso e il gusto di vivere.
Che il downshifting cominci a diffondersi in maniera pervasiva fra le maglie della società, anche se lenta (non potrebbe essere altrimenti…), è dimostrato pure da piccole cose come il fatto che abbia conquistato una voce sull’enciclopedia libera di Wikipedia. Anche nella versione in italiano, dove viene liberamente tradotto con “semplicità volontaria”.
Breve storia del downshifting
Difficile porre un inizio preciso alla diffusione del downshifting, come per tutte quelle tendenze che da fenomeno di nicchia diventano diffuse fra ampie fasce di popolazione, conosciute, praticate. Lo si data, in genere, intorno alla prima metà degli anni ’90, quando comincia ad essere chiaro a molti, soprattutto professionisti affermati e manager in carriera o aspiranti tali, che vivere per produrre, per guadagnare e poi consumare (secondo lo schema “lavoro, produco, guadagno, pago, pretendo, consumo”), non è che apra poi le porte a tutta questa felicità.
Quanto alla paternità del neologismo, pare sia da attribuire ad uno studio del Trends Research Institute di New York, risalente a metà anni ‘90, che con questa espressione intendeva individuare le persone che scelgono uno stile di vita meno faticoso, meno gratificante in termini economici ma molto, molto più gratificante dal punto di vista della qualità della vita personale. Anni dopo, il neologismo trovò spazio nel New Oxford Dictionary.
Con l’avvicinarsi degli anni 2000 arrivarono le prime interpretazioni sociologiche del downshifting e i primi volumi che lo affrontavano in maniera strutturata. Fra gli scritti più celebri, per chi volesse approfondire con una lettura magari durante le feste di Natale, si possono citare quelli della sociologa statunitense Juliet Schore (docente di sociologia al Boston College). Fondamentale è anche il testo Downshifting: come lavorare meno e godersi di più la vita, scritto da John Drake, pubblicato dall’ex-fondatore e poi a.d. di una società di consulenza sulle risorse umane di grande successo, John Drake.
Ma anche in italiano si contano ormai, col passare degli anni, numerosi volumi che variamente declinano l’arte di fare downshifting, i cui adepti vengono conseguentemente indicati come “downshifter”. Uno dei più famosi è senz’altro Simone Perotti, anch’egli manager di successo che ha deciso di mollare tutto e abbandonare la città tentacolare (Milano) per ritagliarsi una vita più a misura d’uomo in un ambiente non molto distante geograficamente ma culturalmente (le Cinque Terre, in Liguria), come racconta nel volume Adesso basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita.
Downshifting e decrescita (felice)
Se tutti facessimo downshifting, che cosa succederebbe? Nessuno può dirlo, ovviamente. E nonostante questa filosofia di vita stia facendo proseliti (secondo Datamonitor nel 2007 c’erano nel mondo circa 16 milioni di lavoratori pronti a “downshiftare”, oggi con ogni probabilità sono molti di più), la larghissima maggioranza di noi o è ancora attratta fatalmente dall’equazione lavoro di più = guadagno di più, oppure non riesce a uscire dal meccanismo della vita-as-usual anche se sente che gli ingranaggi lo stanno pian piano stritolando.
Va detto però che a livello macroeconomico il downshifting evidenzia profonde interconnessioni con la filosofia “slow”, che è poi quella del movimento slow food ma anche, più recentemente, del movimento slow money, altrimenti detto dei capitali pazienti, che rigetta il modello dell’investimento a breve, brevissimo termine e preferisce gettare lo sguardo e l’aspettativa di un ritorno economico su orizzonti di lungo periodo.
In particolare, il downshifting sembra avere una spontanea ed evidente affinità con gli economisti che, contro la teoria della crescita-produzione-consumo infiniti, teorizzano il modello della decrescita (felice) e hanno il loro maggiore esponente nell’economista e filosofo francese Serge Latouche, professore emerito di Scienze economiche all’Università di Parigi XI. Con tutte le conseguenze che si possono immaginare sul consumo di energia, la produzione di rifiuti, la congestione dei trasporti e così via.
Le dieci regole d’oro del downshifting
Ma se voglio fare downshifting, se questa filosofia di vita m’ispira ma fatico a tradurla in concreto, da dove posso partire? Per iniziare, si può prendere spunto dal “decalogo” stilato da una delle guru internazionalmente riconosciute del downshifting, ovverosia Tracey Smith, che qualche anno fa si è inventata in Gran Bretagna la settimana del downshifting, diventata ormai un appuntamento di risonanza internazionale.
Ecco, dunque, quali sono le regole del buon downshifter. Che strizzano anche l’occhio al green e ad uno stile di vita sostenibile. Come dire che tutto si tiene, alla fine.
1) Fai un esame del tuo budget di tempo e del tuo budget finanziario.
2) Taglia una carta di credito (in senso letterale!) come gesto simbolico e liberatorio.
3) Dona qualche oggetto, giocattoli, vestiario ad un ente caritatevole, così sperimenti un comportamento di natura gratuita.
4) Fai un elenco dei tuoi acquisti settimanali e tagliane almeno 3 (non essenziali).
5) Pianta qualcosa in giardino, coltivalo, innaffialo e poi mangialo, per imparare che non tutto il cibo si deve acquistare.
6) Cucina un pranzo utilizzando ingredienti di stagione, locali e preferibilmente organici.
7) Goditi la grandissima gioia di allevare qualche gallina (non in batteria).
8) Realizza con le tue mani qualche biglietto o cartoncino per le prossime feste in calendario.
9) Stasera (non domani, stasera!) spegni la televisione, accendi la radio e fai qualche gioco in famiglia o una bella chiacchierata.
10) Programma una mezza giornata lontana dal lavoro da trascorrere con qualcuno a cui vuoi bene.
Guadagnare meno per vivere di più (Testo del 28.09.2013)
Via dal traffico, dalle città costose e dai lavori stressanti. Nel mondo oltre 16 milioni pronti a «scalare marcia»
Simone voleva uscire dall’ingorgo. La macchina era immobile da almeno mezz’ora, in coda con le altre sul Grande raccordo anulare. Sole a picco, aria condizionata che boccheggia. I telefonini che suonano all’impazzata. Dai finestrini delle altre auto, giacche e cravatte, facce stressate che riflettono la sua. «Così non va», disse. Fu allora, da fermo, che decise di scalare una marcia.
Era un manager. Ultimo incarico presso la Boston Consulting, prima era capo delle Relazioni esterne Sisal (quella del Superenalotto), un passaggio anche nell’editoria, Rcs. Ci ha messo dieci anni, per uscire da quell’ingorgo che era diventata la sua vita. Oggi Simone Perotti risponde al telefonino dalla sua casetta nelle campagne tra La Spezia e le Cinque Terre. Sono le 15 di una calda giornata feriale di inizio ottobre. È seduto su un tronco, pantaloncini corti e torso nudo. Ha appena finito di zappare l’orto. Questa sera deve «scendere» a mare per tenere un corso di vela. In mezzo, leggerà un libro, scriverà qualcosa. Non ha programmi. «Prima, la mia vita era completamente pianificata. Con un margine di ragionevole certezza avrei potuto immaginare tutto quel che mi sarebbe successo nei prossimi cinque anni».
Downshifting, si chiama così. L’anglismo è reso meno insopportabile per il fatto che su Internet ormai è questo il nome che identifica una pratica traducibile come scalare marcia, rallentare. In Australia, che ne è un po’ la patria, lo chiamano anche Sea-changing, parafrasando una fiction dove la protagonista molla il suo lavoro redditizio e superstressante per andare a vivere in un piccolo villaggio rurale. Da Wikipedia: «Scelta da parte di diverse figure di lavoratori di giungere a una libera, volontaria e consapevole riduzione del salario, bilanciata da un minore impegno in termini di ore dedicate alle attività professionali, in maniera tale da godere di maggiore tempo libero».
La definizione è corretta ma riduttiva. Del resto solo ora la pratica dello «scalare marcia» sta cominciando ad essere registrata dai radar di sociologi e studiosi dei comportamenti di massa. Datamonitor, agenzia londinese che si occupa di ricerche di mercato, stima che in tutto il mondo i lavoratori potenzialmente inclini a fare downshifting sarebbero 16 milioni. Ogni anno, circa 260 mila cittadini britannici fanno una scelta di vita che va in quella direzione. Nel 2008, il ministero dei Servizi sociali australiani ha stimato che sono almeno un milione le persone, tutte comprese nella fascia di età tra i 25 e i 45 anni, che hanno deciso di scalare una marcia. La stragrande maggioranza (circa il 79 per cento) lo ha fatto non solo cambiando lavoro e quindi regime di vita, ma anche scegliendo di abbandonare la città a favore di località costiere e di campagna. Non a caso, in Francia li chiamano néo-ruraux, neorurali, termine che però non si limita alla mera decisione di vivere in campagna, ma implica l’accettazione di ritmi diversi, l’appropriarsi del proprio tempo libero.
Centomila nel 2007, quasi il triplo nel 2008, secondo uno studio di Ipsos France che precisa come per rientrare nella categoria sia necessario non solo aver cambiato domicilio, ma anche lavoro. «Per quanto mi riguarda, il downshifting è però qualcosa di più di un abbassamento del salario in cambio di maggiore tempo libero. Si tratta di un cambio di vita netto, sia verso se stessi, sia verso il mondo dei consumi, per accedere alla libertà. Essere liberi, oggi, nel sistema occidentale, può rivelarsi estremamente difficile». Perotti ha scritto un libro, «Adesso basta» (edizioni Chiarelettere, nelle librerie da oggi) che può benissimo essere considerato come il primo vademecum italiano per chi vuole lasciare lavoro e cambiare vita senza però per questo essere costretto a inseguire irraggiungibili utopie. Ci vuole metodo, ci vuole costanza. Qualcosa di molto diverso dal sogno del chiosco sull’isola deserta, del 6 al Superenalotto, dell’eredità milionaria da una zia sconosciuta.
Il cammino verso la semplicità è a sua volta un lavoraccio, da pianificare con cura lavorando principalmente su se stessi. Ognuno dei molti siti dedicati al tema sottolinea questo aspetto. Lo studio «Getting a life: understanding the downshifting phenomenon in Australia» rivela come coloro che ci provano vengano sottoposti all’ostilità dell’ambiente che si preparano a lasciare, proprio per la loro scelta di rompere codici predefiniti e uscire dal gioco in anticipo. Coloro che restano aldiquà della linea li considerano anomalie. C’è da affrontare la solitudine, gli amici lavorano come sempre, tu sei alle prese con la gestione del tempo libero inframmezzata da piccoli lavori, tutta un’altra cosa. Lo scalino più alto è appunto quello economico. Guadagnare facendo ciò che si ama, e non sempre una persona ha le idee chiare in proposito.
Scalare una marcia è possibile soltanto al termine di un processo di risparmio, dell’accumulo di un gruzzolo che poi verrà lentamente eroso. Il cambio di città è motivato quasi sempre con la necessità di trovare posti dove il costo della vita sia più basso. La propensione al risparmio deve diventare ferrea, e questo significa cambiare pelle rinunciando alla naturale propensione al consumismo. Occorre essere molto sicuri di sé, perché non avere più lo stipendio fa paura.
La libertà da lavori e vite totalizzanti ha molto a che fare con i conti della serva più che con il gabbiano Jonathan Livingston. E il piano necessita di tempo per essere realizzato, downshifting non è l’equivalente inglese di colpo di testa, tutt’altro. Basta guardare quanto ci si mette a realizzare la propria fuga da Alcatraz. Dieci anni per Perotti, addirittura 15 per John Drake, autore di «Downshifting: how to work less and enjoy life more», uno dei libri di riferimento per chi sta pensando alla rivoluzione esistenziale. «Downshifters, Guide to re-location », «The essential downshifter», «Downshift to the good life», nel Regno Unito il racconto in prima persona sta diventando un sottogenere letterario, segno di una domanda decisamente in crescita.
Su 19 libri a tema pubblicati tra il 2007 e il 2009, solo due raccontano l’esperienza di una famiglia. Avere figli è uno spartiacque importante che rende l’impresa non impossibile ma senz’altro più difficile. La marcia da scalare riguarda un profilo di persona abbastanza definito. Media borghesia almeno, in possesso di un lavoro stressante e redditizio al tempo stesso, possibilmente con una buona rendita a disposizione, di natura ereditaria o dal risparmio.
Ne viene fuori il ritratto di una generazione, a ben vedere. I quarantenni di oggi. Quando è venuto allo scoperto, Perotti ha mandato una mail a tutti e 1.600 i contatti della sua agenda. Amici, colleghi, conoscenti. Gli hanno risposto tutti, alcuni increduli, almeno 800 ammirati, invidiosi, comunque d’accordo con la scelta che il quasi ex manager stava per fare. «Curioso: siamo passati dallo yuppismo interiore a cui abbiamo devoluto tutto a una forma di rifiuto per quello che abbiamo conquistato. Abbiamo creato un meccanismo dal quale siamo stati strangolati, e siamo la prima generazione che se ne sta rendendo conto. Quelli che hanno maggiormente goduto di questo sistema, alla fine non sono felici. Così nasce un nuovo fenomeno sociale».
Ci vuole coraggio, e si può sempre tornare indietro. Alcuni lo fanno, con il cappello in mano, vivendola come una sconfitta. La scorsa settimana, Simone Perotti ha ricevuto una telefonata. Era uno dei più grandi cacciatori di teste presenti in Italia. Gli stava offrendo the big one, l’offerta di lavoro a cui non si può rinunciare. Gli ha risposto nel corso della conversazione, e la risposta era «no». La prossima volta, potrebbe non essere così, potrebbero esserci ripensamenti. «Per il momento, sono libero da vincoli e costrizioni, e libero di gestire il mio tempo. Scalare una marcia significa questo». Mentre parla, in sottofondo si sente il rumore del mare.
Marco Imarisio
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