Finte telecamere, vera tutela della privacy: cosa dice la legge su installazione e obiettivi
Le videocamere di sorveglianza finte sono utilizzate sempre più spesso come deterrente da parte sia dei privati cittadini che di aziende ed attività commerciali. Nonostante l’oggettiva impossibilità di registrare video, la finta telecamera non è sempre utilizzabile: si deve preliminarmente analizzare il contesto di utilizzo ed i soggetti interessati a questo particolare non-trattamento.
Del resto, la videosorveglianza è uno dei temi più importanti all’interno del panorama privacy, anche alla luce delle pronunce del Garante privacy italiano, del Working Party 29 e oggi dell’EDPB, oltre che delle regole previste dalla giurisprudenza in generale.
Videocamere finte: il caso del privato cittadino all’interno della proprietà
Il caso più semplice è quello del privato cittadino che all’interno della sua proprietà (il pianerottolo di casa, il giardino, il parcheggio ad uso esclusivo) installa un sistema di videosorveglianza finto, al solo scopo di deterrenza.
In tal senso, stante la natura squisitamente privata degli ambienti ”inquadrati” dall’obiettivo, ci si troverebbe davanti ad un trattamento del dato semplicemente inesistente, poiché privo di alcun tipo di registrazione dei soggetti che transitassero davanti alle zone di ripresa.
Risulta fondamentale sottolineare la natura privata dei luoghi inquadrati: in questo caso, le norme privacy di settore, come già stabilito dal Garante, derogano fortemente alle linee guida europee – e non vi sono dubbi circa l’applicazione della deroga anche ai sistemi solo deterrenti.
In particolare, si può escludere la necessità di esporre un cartello di avvertimento, di indicare tempi di registrazione particolari o di individuare in forma scritta i soggetti autorizzati a visionare le immagini. Tali specificazioni sono solo apparentemente pleonastiche: basti notare la massiccia presenza di dubbi e interrogativi avanzati da utenti e siti specializzati sulla regolamentazione delle videocamere deterrenti.
Videocamere finte: cosa dice la normativa
Entrando nel dettaglio normativo, un primo punto fermo è l’assenza di una vera e propria legislazione in materia. Come immaginabile, infatti, non esiste una norma di legge che preveda l’utilizzo o il non utilizzo di tali strumenti per fini squisitamente dissuasivi.
L’assenza di una norma specifica è un primo segnale in favore della possibilità di utilizzare questi ammenicoli, prestando comunque attenzione al contesto.
Un secondo elemento, non normativo ma egualmente autorevole, è la decisione del 30 dicembre 2003 del Garante italiano della Privacy. All’interno del testo, interrogato proprio sulla liceità del trattamento effettuato dalle videocamere giocattolo, il Garante ha optato per un’interpretazione fattuale del suddetto, stabilendo che l’oggettiva impossibilità di registrazione di tali strumenti rende di fatto inesistente il trattamento dei dati di videosorveglianza, includendo anche l’eventuale rispetto delle linee guida pubblicate nel 2000 proprio dal Garante, successivamente integrate con l’entrata in vigore del GDPR.
Videocamere finte: se le installa un soggetto pubblico
Il discorso cambia, però, nel momento in cui il fine dissuasivo viene inserito in un contesto non più squisitamente privato. Cosa succede nel momento in cui l’installazione della finta telecamera è effettuata dal soggetto pubblico? Ancora, quali sono – se ci sono – i requisiti di installazione di tali strumenti all’interno del luogo di lavoro?
Questi interrogativi trovano risposte diametralmente opposte a quanto detto finora per le videoregistrazioni finte ”effettuate” all’interno della proprietà privata.
Un primo punto critico, che investe in particolare il soggetto pubblico, è quello dell’affidamento. La presenza di telecamere esclusivamente deterrenti – per esempio all’interno di luoghi aperti al pubblico quali i parchi o le strade cittadine – possono comunque ingenerare nel cittadino il legittimo affidamento alla tutela della propria persona e del proprio patrimonio, oltre a quello della comunità.
Tale legittimo affidamento comporterebbe, di converso, l’impossibilità per il soggetto leso – poniamo il caso del passante borseggiato da un ladro – di recuperare preziose informazioni ed elementi probatori in grado di fargli rivalere i propri diritti in sede di giudizio. Risulta chiaro a questo punto che, più che una questione di privacy, tale situazione andrebbe catalogata nell’alveo della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c..
Le telecamere del privato su spazi pubblici
Più intricato sarebbe, in termini analogici, attribuire lo stesso grado di responsabilità anche alle telecamere del privato, prospettanti però gli spazi pubblici. In tal senso, non potendosi certo far risalire il legittimo affidamento del consesso sociale in capo ad un mero cittadino, potrebbe opporsi la fattispecie del reato di interferenze illecite nella vita privata, ex art. 615 bis del codice penale.
Tale illecito penale prevede la pena della reclusione da mesi 6 ad anni 4, nel caso in cui il reo si procuri notizie ed immagini della vita privata della vittima attraverso strumenti di registrazione e videoregistrazione che riprendano la dimora, l’abitazione ed affini del soggetto leso.
Come evidente, la fattispecie non potrebbe perfezionarsi con l’utilizzo di una telecamera impossibilitata alla sua funzione primaria. Parte della dottrina, però, pur non potendo interpretare in maniera analogica la norma penale, legge nell’articolo 615 bis c.p. un reato di pericolo piuttosto che un reato di danno.
La differenza tra i due, nel caso esaminato, starebbe tutta nella lesività dell’oggetto ”videocamera”, capace di ingenerare nella persona edotta della presenza della stessa una situazione psicologica tale da modificare le proprie abitudini di vita, a prescindere dall’effettivo concretizzarsi del danno, che risiederebbe nell’eventuale, quanto impossibile, videoregistrazione.
Sebbene non possa negarsi la possibilità che una telecamera finta sia capace di intimorire il soggetto terzo ignaro della sua natura fittizia, allo stesso tempo questo ragionamento offre il fianco a numerose critiche da un punto di vista legale.
La natura di reato di pericolo dell’articolo in parola è più che dibattuta, così come è dibattuto il fatto che una videosorveglianza di sola deterrenza, già esclusa dal Garante quale lesiva della privacy, possa effettivamente generare una qualsivoglia aggressione, anche se solo potenziale.
Videocamere finte: se a installarle è il datore di lavoro
A questo punto è necessario, finalmente, aprire un ulteriore scenario, quest’ultimo esaminato più volte dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, con esiti costanti pur se dilazionati nel tempo. La questione affrontata dalla Suprema Corte è quella dell’utilizzo delle telecamere dissuasive in ambito lavorativo, ossia dell’installazione di sistemi di videosorveglianza da parte del datore di lavoro, all’interno dei locali aziendali.
Giova ricordare, in tal senso, l’articolo 4 comma 2 dello Statuto dei Lavoratori, di cui si ha un esplicito rimando nell’ancora in vigore Codice della Privacy oltreché nel D.Lgs. 151/15.
L’articolo dello Statuto stabilisce che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato con associazioni sindacali ovvero in alternativa previa autorizzazione rilasciata dall’Ispettorato territoriale competente.
Partendo da questo assunto normativo, ci si deve porre il problema della videocamera finta, la quale non può materialmente controllare l’operato del lavoratore ma, come sopra sottolineato, può indurre lo stesso a modificare sensibilmente il proprio comportamento.
La risposta della Corte di Cassazione, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, per arrivare alla sentenza 4331 del 2014, è stata granitica: la violazione della riservatezza dei lavoratori operata fuori dal regime di tutela delle norme in materia configura un illecito penale la cui natura è quella del reato di pericolo.
Risulta quindi irrilevante la capacità effettiva dell’apparecchio di registrare o meno, quello che interessa è la sua potenzialità lesiva nei confronti della psiche e del comportamento del dipendente.
L’analisi
Cosa comporta, in conclusione, questa presa di posizione? È evidente che la natura di reato di pericolo, almeno per quanto attiene alla tutela garantita dalle norme sulla riservatezza dei lavoratori, si traduce in una garanzia esplicita per questa categoria di soggetti, tale da travalicare eventuali ragionamenti interpretativi estensivi della diversa lettura del Garante – lettura che, però, va inserita nel diverso contesto dello spazio privato.
La soluzione, per il datore di lavoro, è quella del rispetto pedissequo della norma, la quale permette l’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza potenzialmente di controllo nel momento in cui gli stessi vengano denunciati all’Ispettorato del Lavoro ed approvati da tutti i dipendenti o dalle rispettive rappresentanze sindacali.
Certo, viene da chiedersi in che modo un sistema di registrazione finto possa effettivamente acquisire potere deterrente nel momento in cui debba essere denunciato e approvato: a quel punto il datore dovrebbe mentire sulle effettive modalità (cosa sconsigliata), oppure ammettere di aver installato un giocattolo.
Corollario di questo ragionamento è poi la plausibile assenza di proporzionalità, requisito indispensabile nel momento in cui si richiede di sacrificare la privacy del lavoratore: una videosorveglianza che non sorveglia, al netto delle problematiche normative, ha effettivamente un potere dissuasivo tale da giustificare la compressione dell’autodeterminazione del dipendente? A quest’ultima domanda, invero, la giurisprudenza non è ancora arrivata, fermandosi direttamente allo scoglio – già notevole – della legislazione lavoristica.
Conclusioni
In ultima battuta quindi, in attesa di ulteriori sviluppi dottrinali e giurisprudenziali, si può affermare con certezza la possibilità di utilizzare telecamere finte negli spazi privati e in tutte quelle situazioni dove di per sé non esistono particolari vincoli all’utilizzo di strumenti di videoregistrazione.
Si sconsiglia lo stesso utilizzo per i soggetti pubblici, in particolare nell’eventualità di apparecchi prospettanti luoghi pubblici ed aperti al pubblico.
Infine, riportando nuovamente quanto stabilito dalla Cassazione, si ricorda agli imprenditori e datori di lavoro di dover necessariamente rispettare le regole di installazione delle videocamere potenzialmente a rischio di controllo della produttività e dell’operato del dipendente, anche se spente o non funzionanti.
Videosorveglianza, le regole del Garante privacy
Sistemi di videosorveglianza, la scheda
Sono contenute in una scheda le indicazioni per le persone fisiche che intendono installare, in ambito personale o domestico, sistemi di videosorveglianza a tutela della sicurezza di persone o beni. A stabilirlo è il Garante per la protezione dei dati personali.
Il vademecum dell’autorità fa parte delle iniziative dell’Autorità per migliorare e facilitare la conoscenza della normativa in materia di protezione dei dati personali – è disponibile sul sito istituzionale del Garante, nella pagina tematica https://www.gpdp.it/temi/videosorveglianza.
Le indicazioni del Garante
Le persone fisiche possono, nell’ambito di attività di carattere personale o domestico, attivare sistemi di videosorveglianza a tutela della sicurezza di persone o beni senza alcuna autorizzazione e formalità, purché: le telecamere siano idonee a riprendere solo aree di propria esclusiva pertinenza; vengano attivate misure tecniche per oscurare porzioni di immagini in tutti i casi in cui, per tutelare adeguatamente la sicurezza propria o dei propri beni, sia inevitabile riprendere parzialmente anche aree di terzi; nei casi in cui sulle aree riprese insista una servitù di passaggio in capo a terzi, sia acquisito formalmente (una tantum) il consenso del soggetto titolare di tale diritto.
Sistemi di videosorveglianza, cosa non si può fare
Al contrario, le persone fisiche non potranno nell’ambito di attività di carattere personale o domestico, attivare sistemi di videosorveglianza nel caso in cui si trattino aree condominiali comuni o di terzi; ripresa aree aperte al pubblico (strade pubbliche o aree di pubblico passaggio); comunicazione a terzi o di diffusione le immagini riprese.
Ok alle telecamere private purché non riprendano aree pubbliche
Telecamere private e privacy
Il Garante ha sanzionato una cittadina (con provvedimento n. 9949494/2023) per avere installato una telecamera di sicurezza violando la privacy.
Nella vicenda, appartenenti all’Arma dei Carabinieri hanno segnalato al Garante Privacy l’installazione di una telecamera sul muro esterno della proprietà privata della signora, che dagli accertamenti compiuti e dai rilievi fotografici risultava idonea a riprendere l’area pubblica antistante.
Il Garante ha quindi delegato il Nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche della Guardia di Finanza ad effettuare le opportune verifiche. Questi ha rilevato che l’impianto di videosorveglianza risulta composto da una prima telecamera brandeggiabile, con possibilità di
movimento a 360°, posizionata sulla porta di accesso dell’abitazione, orientabile mediante
l’applicazione installata sullo smartphone, e da una seconda telecamera posizionata immediatamente dopo un vialetto di accesso che collega l’entrata con uno spazio interno all’edificio.
Il procedimento
Il Garante ha quindi avviato un procedimento giacché le telecamere erano idonee a riprendere aree che non sono di diretta pertinenza del privato cittadino, trattandosi di un parco e della pubblica via. Il trattamento dei dati raccolti, vale a dire delle immagini, risultava pertanto effettuato in assenza di un valido presupposto di liceità.
Infatti, il trattamento dei dati posto in essere mediante un impianto di videosorveglianza, effettuato da persone fisiche per finalità personali e domestiche, è da ricondurre nelle cause di esclusione dell’applicazione della normativa in materia di protezione dati di cui all’art. 2 par. 2 del Regolamento UE 2016/679.
A tal proposito, il considerando n. 18 del Regolamento specifica che si considera “attività a carattere esclusivamente personale o domestico” quella effettuata senza che si realizzi una connessione con un’attività commerciale o professionale. L’utilizzo di sistemi di videosorveglianza da parte di persone fisiche nelle aree di diretto interesse (quali quelle inerenti al proprio domicilio e le sue pertinenze) è quindi da ritenersi, in linea di massima, escluso dall’ambito di applicazione materiale delle disposizioni in materia di protezione dati, perché rientrante tra i trattamenti effettuati per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale e domestico.
Ciò a condizione che l’ambito di comunicazione dei dati non ecceda la sfera familiare del titolare e le immagini non siano oggetto di comunicazioni a terzi o di diffusione e il trattamento non si estenda oltre gli ambiti di stretta pertinenza del titolare riprendendo immagini in aree comuni (anche di tipo condominiale quali scale, androni, parcheggi), luoghi aperti al pubblico (vie o piazze), o aree di pertinenza di terzi (giardini, terrazzi, porte o finestre di pertinenza di terzi).
Ne discende quindi che è possibile installare sistemi di ripresa video, senza dover adempiere agli obblighi previsti dalle norme in materia di protezione dei dati personali, purché l’angolo di visuale delle telecamere sia limitato alle sole zone di propria pertinenza, anche eventualmente attraverso l’attivazione di una funzione di oscuramento delle parti eccedenti. Soltanto in presenza di situazioni di rischio effettivo, il titolare del trattamento può, sulla base di un legittimo interesse, estendere la ripresa delle videocamere anche ad aree che esulano dalla propria esclusiva pertinenza, purché ciò sia adeguatamente motivato e suffragato da idonea documentazione (es. denunce, minacce, furti).
Il provvedimento del Garante
Nel caso in esame, l’istruttoria ha rilevato che la ripresa delle aree ultronee rispetto a quelle di pertinenza è avvenuta in assenza di idonei presupposti di liceità, considerato che il titolare del trattamento non ha dimostrato la sussistenza di un legittimo interesse riferito a una situazione di rischio effettivo che avrebbe giustificato tale trattamento.
Sono stati inoltre violati i principi di liceità e di minimizzazione dei dati, in violazione dell’art. 5, par. 1, lett. a) e c) e dell’art. 6, par. 1 del Regolamento, in considerazione del fatto che la telecamera per le sue caratteristiche, risultava idonea a inquadrare anche parte del parco giochi antistante l’abitazione della signora.
L’Autorità quindi ha dichiarato, ai sensi degli artt. 57, par. 1, lett. a) e 83 del Regolamento, l’illiceità del trattamento effettuato dalla sig.ra, per la violazione dell’art.5, par. 1, lett. a) e c) e dell’art. 6, par. 1 del Regolamento. In considerazione del fatto che la sig.ra, appena ha avuto notizia della segnalazione al Garante, ha prontamente provveduto alla sostituzione della telecamera brandeggiabile con una di tipo fisso, puntata verso l’ingresso della proprietà, ha ritenuto procedere con il solo ammonimento del titolare del trattamento ai sensi dell’art. 58, par. 2, lett. b), del Regolamento.
Conclusioni
È quindi possibile installare telecamere di sicurezza a tutela della propria proprietà privata purché queste non riprendano altre aree pubbliche o private, neppure in modo occasionale o accidentale.
Illegittimo l’utilizzo di telecamere di sorveglianza finte
Finte telecamere: il caso
Il Garante europeo e quello italiano si sono trovati ad analizzare la liceità della installazione di finte telecamere, ovvero la affissione di segnaletica in assenza di un sistema di video registrazione. Hanno concluso per la illegittimità delle due fattispecie con conseguente possibile risarcimento del danno.
Gdpr: la norma
Il GDPR regolamenta il trattamento dei dati personali. Nel caso di finte telecamere o di telecamere vere ma non funzionanti, appare evidente che non vi è alcun trattamento giacché nessun dato viene acquisito.
Sul punto non vi sono dubbi, come chiarito dallo stesso garante nella propria sezione FAQ, dove alla domanda: “Ci sono dei casi di video sorveglianza nei quali non si applica la normativa sul trattamento dei dati personali“, l’ufficio risponde che la norma «non si applica, nel caso di fotocamere false o spente perché non c’è nessun trattamento di dati personali» (fermi restando tutti gli obblighi comunque imposti dall’articolo 4 Statuto dei lavoratori in caso di installazione su un luogo di lavoro).
Installazione illegittima e non illecita
Nel suo provvedimento numero 1003484 il Garante ha però stabilito che «l’installazione meramente dimostrativa o artefatta, anche se non comporta trattamento di dati personali, può determinare forme di condizionamento nei movimenti e nei comportamenti delle persone in luoghi pubblici e privati e pertanto può essere legittimamente oggetto di contestazione». Ne consegue quindi che, seppur non vietate e quindi lecite, le telecamere finte o non funzionanti sono comunque illegittime. Non soltanto possono generare un condizionamento dei movimenti di chi si ritiene sorvegliato, ma addirittura è possibile rilevare responsabilità in capo al soggetto che abbia deciso di installarle.
Lo stesso dicasi in caso di affissione di cartelli indicanti la presenza di un sistema di video sorveglianza in realtà inesistente. In questo ultimo caso la possibilità di dimostrare l’incongruenza tra la segnalazione e la realtà è addirittura più elevata che nell’altro. Il rischio di un’azione risarcitoria per falso affidamento è dietro l’angolo in entrambi i casi.