La conferma della teoria della relatività. Un nuovo modo di studiare l’universo, i buchi neri e il tessuto dello spazio-tempo. L’importante contributo italiano
di Paolo Virtuani
Alle 10,50 e 45 secondi (ora italiana) del 14 settembre 2015 i due strumenti dell’esperimento Ligo negli Stati Uniti (nello Stato di Washington e in Louisiana) hanno registrato un dato anomalo. Da quel momento sono iniziate le verifiche. E giovedì, alle 16,30 a Pisa (qualche minuto prima della conferenza stampa gemella a Washington) è finalmente stato dato l’annuncio ufficiale della scoperta delle onde gravitazionali. Per la fisica e la scienza tutta l’11 febbraio 2016 sarà una data che avrà un capitolo a parte in tutti i libri di testo. Le onde gravitazionali, infatti, erano state previste esattamente un secolo fa, nel novembre 1915, quando Albert Einstein illustrò la sua Teoria della relatività generale, di cui costituiscono uno dei capisaldi. Finora però non erano mai state «trovate» e l’annuncio può ambire al titolo di «scoperta del secolo». E i ricercatori che hanno partecipato agli esperimenti entrare tra i candidati a uno dei prossimi Nobel per la fisica. A questa impresa collettiva hanno collaborato 1.004 ricercatori appartenenti a 133 istituzioni scientifiche di tutto il mondo.
L’osservazione
Le onde gravitazionali rivelate sono state prodotte nell’ultima frazione di secondo del processo di fusione di due buchi neri, di massa equivalente a circa 29 e 36 masse solari, in un unico buco nero ruotante più massiccio di circa 62 masse solari: le tre masse solari mancanti al totale della somma equivalgono all’energia emessa durante il processo di fusione dei due buchi neri, sotto forma di onde gravitazionali. I due buchi neri, prima di fondersi hanno percorso una traiettoria a spirale per poi scontrarsi a una velocità di circa 150 mila chilometri al secondo, la metà della velocità della luce. L’osservazione conferma anche l’esistenza di sistemi binari di buchi neri di massa stellare, in particolare aventi massa maggiore di 25 masse solari. Il processo di fusione dei due buchi neri responsabile delle onde gravitazionali rivelate è un evento accaduto a 410 megaparsec da noi, e risale quindi a quasi un miliardo e mezzo di anni fa.
«Una pietra miliare»
«Questo risultato rappresenta una pietra miliare nella storia della fisica, ma ancor più è l’inizio di un nuovo capitolo per l’astrofisica», ha commentato Fulvio Ricci, professore all’Università La Sapienza di Roma ricercatore dell’Infn che coordina la collaborazione internazionale Virgo. «Osservare il cosmo attraverso le onde gravitazionali cambia radicalmente le nostre possibilità di studiarlo: finora è come se lo avessimo guardato attraverso radiografie, mentre adesso siamo in grado di fare l’ecografia del nostro universo». «Finalmente possiamo osservare l’universo con occhi diversi», ha aggiunto Pia Astone, ricercatrice dell’Infn curato la redazione dell’articolo scientifico sulla scoperta assieme ad altri cinque colleghi di Virgo e Ligo pubblicato su Phisycs Reviews Letters . «Non è un caso, infatti, che la prima misura diretta di ampiezza e fase delle onde gravitazionali sia stata accompagnata da un’altra importante scoperta, quella della fusione di un sistema binario di buchi neri».
Cosa sono
Le onde gravitazionali sono come piccole increspature del tessuto dello spazio-tempo che permea tutto l’universo. Secondo Einstein la gravità stessa è dovuta alla curvatura dello spazio-tempo causata dalla massa. Le onde gravitazionali sono prodotte dal movimento di corpi dotati di massa nello spazio-tempo. Più gli eventi sono colossali ed emettono straordinarie quantità di energia, come il Big Bang stesso, lo scontro tra due buchi neri, la «danza» di avvicinamento di due stelle di neutroni che ruotano rapidamente (pulsar), maggiore è la grandezza delle onde gravitazionali e quindi – in teoria – è più facile captarle. Solo che finora con gli strumenti a nostra disposizione risultava praticamente impossibile riuscire a decifrarle perché noi stessi e gli strumenti siamo immersi a nostra volta nello spazio-tempo e veniamo coinvolti dalle sue oscillazioni.
Perché sono importanti
La scoperta dell’esistenza delle onde gravitazionali non è solo (l’ennesima) conferma sperimentale della validità della teoria di Einstein, ma rivoluziona e amplia il mondo della fisica e della ricerca cosmologica. Per esempio finora lo studio del cosmo è stato realizzato solo attraverso i segnali emessi da stelle e galassie nello spettro elettromagnetico (luce visibile, raggi X e gamma, infrarossi, ultravioletti, onde radio di varia lunghezza d’onda). L’esistenza delle onde gravitazionali apre un mondo nuovo: la possibilità di studiare l’universo (e i misteriosi buchi neri) in modo completamente differente. Oltre che «vederlo», saremo in grado anche di «sentirlo» nella sua essenza più fondamentale, lo spazio-tempo, due elementi che, secondo Einstein, sono una cosa sola. E capire come e perché l’universo non solo si espande, ma sta addirittura accelerando la sua velocità di ampliamento. E c’è chi ipotizza scenari che sfiorano la fantascienza: la verifica dell’esistenza di tunnel spazio-temporali (wormhole in inglese) nelle vicinanze dei buchi neri che potrebbero mettere in relazione parti distanti dell’universo o addirittura universi diversi dal nostro. Infine arrivare alla soluzione dei componenti di base dello spazio-tempo secondo la teoria della meccanica quantistica, ancora divisa tra «stringhe», «brane» o «anelli» (loop). «Questo risultato rappresenta un regalo speciale per il centesimo anniversario della relatività generale», ha concluso Fernando Ferroni, presidente dell’Infn. «È il sigillo finale sulla meravigliosa teoria che ci ha lasciato il genio di Einstein ed è anche una scoperta che premia il gruppo di scienziati che ha perseguito questa ricerca per decenni alla quale l’Italia ha dato un grande contributo».
L’annuncio
Gli osservatori Ligo hanno registrato l’arrivo delle onde gravitazionali lo scorso 14 settembre con un interferenza durata solo 10 millesimi di secondo. La scoperta parla infatti anche italiano. Ricercatori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) hanno preso parte all’esperimento e l’Infn organizza la conferenza stampa a Pisa presso i laboratori dello European Gravitational Observatory (Ego) dove ha sede anche Virgo, l’esperimento italiano che ha collaborato col suo omologo americano (Ligo). A Washington presso il National Press Club l’annuncio è organizzato dalla National Science Foundation, dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) e dal Laser Interferometer Gravitational Wave Observatory (Ligo). Inoltre la rivista Phisycs Reviews Letters ha pubblicato uno studio scientifico sul tema.
Come si è arrivati a «captare» le onde gravitazionali
Se, come si è detto, si è immersi nello spazio-tempo, come si è stati in grado di captare le onde gravitazionali? I due esperimenti (Ligo e Virgo) sono in pratica due enormi tubi lunghi rispettivamente 4 e 3 chilometri disposti a L, cioè perpendicolari l’uno all’altro. In ognuno di questi tubi c’è un raggio laser che viene riflesso una cinquantina di volta da particolari specchi così da allungarne il percorso. Se passa un’onda gravitazionale, essa dilata lo spazio in una direzione (uno dei tubi) e lo accorcia nella direzione ortogonale alla prima (per una lunghezza di miliardesimi di miliardesimi di miliardesimi di metro). Allungando lo spazio, la luce laser quindi impiega più tempo per attraversare uno dei due bracci di Virgo o di Ligo, mentre ne impiega di meno nel braccio ortogonale dove lo spazio si è ristretto. Analizzando con precisione estrema i tempi di anticipo e di ritardo (ed eliminando qualsiasi tipo di disturbo), si riesce a captare l’onda gravitazionale. Semplice a dirsi, chi riesce nell’impresa si porta a casa il Nobel.
FONTE


Tutte le volte in cui Einstein ha avuto ragione

Eclissi di Sole. Lenti gravitazionali. Onde gravitazionali. Così, nell’arco di cento anni, le teorie di Albert Einstein hanno trovato sempre più riscontri sperimentali
La teoria della relatività generale formulata da Albert Einstein è corretta. Ce lo siamo sentito dire diverse volte, nel corso di questo ultimo secolo: in più occasioni, infatti, la comunità scientifica ha avuto modo di verificare, tramite osservazioni sperimentali, la correttezza delle intuizioni del fisico tedesco che hanno stravolto per sempre i concetti di spazio, tempo e gravità. L’ultima prova, in ordine temporale, è appena arrivata grazie a un lavoro pubblicato su Science da un’équipe di scienziati del Department of Physical Sciences alla Embry-Riddle Aeronautical University di Daytona Beach, in Florida (e di altri istituti di ricerca). I ricercatori, in particolare, hanno analizzato un aspetto del cosiddetto fenomeno delle micro-lenti gravitazionali, ossia la deviazione della luce proveniente da una sorgente lontana, concludendo, per l’appunto, che “Einstein sarebbe orgoglioso di noi: una delle sue previsioni ha appena passato un rigorosissimo test sperimentale”.
Ma ripercorriamo questo secolo breve con ordine, partendo dall’inizio. Tutto è cominciato il 25 novembre 2015, quando il trentasettenne Einstein annunciò all’Accademia prussiana delle scienze l’equazione di campo alla base della teoria della relatività generale. Si tratta, per essere più precisi, di un sistema di dieci equazioni che descrivono come la forza gravitazionale sia il risultato della curvatura dello spazio-tempo (il tessuto a quattro dimensioni su cui è cucito l’Universo) dovuta alla presenza di massa ed energia. Per raccontarla in parole più semplici, i fisici si servono di solito di una metafora che, se pur non correttissima dal punto di vista scientifico, aiuta la comprensione del fenomeno: lo spazio-tempo si può immaginare come una sorta di foglio di gomma, una superficie morbida che viene curvata dalle masse che vi sono appoggiate sopra. In tale analogia, per esempio, la forza di gravità esercitata dal Sole nei confronti della Terra altro non è che il risultato della curvatura del foglio di gomma quadridimensionale provocata dalla massa del Sole stesso.
Naturalmente, Einstein non si limitò a esporre la sua teoria. Ne propose anche nel 1916, tre verifiche sperimentali, poi passate alla storia con il nome di test classici della relatività generale. Si tratta, per la precisione, della precessione del perielio dell’orbita di Mercurio, della deviazione della luce proveniente da stelle lontane a opera del Sole e del red-shift gravitazionale della luce. Inutile dire, senza tema di spoiler, che tutte e tre verifiche hanno brillantemente superato il vaglio sperimentale.
Precessione del perielio di Mercurio
Secondo la fisica newtoniana, ovvero la descrizione classica della gravità, un sistema a due corpi costituito da un corpo che orbita attorno a una massa di forma sferica descrive un’ellisse di cui la massa stessa occupa uno dei due fuochi. È il caso, per esempio, dei pianeti del Sistema solare. Tra cui, per l’appunto, il bollente Mercurio. Sempre Newton insegna che il perielio dell’orbita, ovvero il punto di massima vicinanza con il Sole, dovrebbe spostarsi nel tempo (la cosiddetta precessione) a causa delle interazioni gravitazionali con gli altri pianeti del Sistema solare. Tuttavia, l’analisi delle precessioni del perielio di Mercurio, effettuata da Urbain Le Verrier nel 1859, rivelò un disaccordo di 43 arcosecondi per anno solare rispetto alle previsioni. Inserendo nelle equazioni gli effetti dovuti alla curvatura dello spazio-tempo previsti dalla relatività generale, le osservazioni sperimentali tornano invece a essere in accordo con i risultati teorici. A dimostrarlo fu lo stesso Einstein nel 1916, un anno dopo l’annuncio delle sue equazioni di campo.
Deviazione della luce solare
È probabilmente la verifica della teoria della relatività generale più celebre e spettacolare di sempre. Stando alle intuizioni di Einstein, come ricordato sopra, lo spazio-tempo è deformato dalle masse che vi sono contenute: a tale deformazione sono soggetti anche i raggi di luce, che dunque si piegano quando passano in prossimità di oggetti celesti come stelle o pianeti massivi. L’eclissi totale di Sole del 1919 provò brillantemente questo meccanismo: l’astronomo Arthur Eddington, infatti, riuscì a osservare delle stelle che sarebbero dovute trovarsi dietro il Sole rispetto alla Terra (e dunque non visibili) proprio grazie al fatto che la loro luce veniva deviata dalla nostra stella. Si dice che il fisico tedesco, a chi gli chiese come avrebbe reagito se l’osservazione dell’eclissi avesse sconfessato la sua teoria, risposte: “Mi sarei dispiaciuto per il Signore. La relatività generale, comunque, è corretta”.
Red shift gravitazionale della luce
Si tratta di un fenomeno per cui la frequenza della radiazione elettromagnetica si sposta se l’osservatore si trova in una regione a potenziale gravitazionale maggiore rispetto alla sorgente della radiazione stessa. Per semplificare: il fenomeno è l’analogo elettromagnetico dello spostamento in frequenza delle onde sonore che sperimentiamo quando ci transita vicino un’ambulanza a sirene spiegate: la frequenza del suono della sirena cambia quando l’ambulanza si allontana da noi. Uno studio sperimentale del 1971 ha misurato accuratamente il red shift gravitazionale della luce emessa da Sirio B, risultato – tanto per cambiare – in accordo con le previsioni einsteiniane.
Alle tre verifiche classiche sono poi seguite, in tempi più recenti, altre osservazioni sperimentali che hanno ulteriormente consolidato la robustezza della relatività generale. È il caso, per esempio dell’osservazione della radiazione emessa dalla supernova Refsdal: il team di Patrick Kelly, della University of California, Berkeley, ha scoperto nel 2015 che la luce si divide in ben quattro percorsi diversi dando origine alla cosiddetta croce di Einstein. Responsabili sono dei cluster galattici estremamente massicci che, curvando lo spazio tempo, deviano la luce della supernova come se fossero enormi lenti di ingrandimento. E ancora: l’osservazione delle onde gravitazionali, impresa complicatissima dal punto di vista sperimentale e centrata, a febbraio 2016, dagli interferometri dell’esperimento aLigo di Hanford e Livingstone. Si tratta, ricordiamo, di una perturbazione dello spazio-tempo che si origina per effetto dell’accelerazione di due o più corpi dotati di massa (due buchi neri o due stelle in rotazione, per l’appunto) e che si propaga alla velocità della luce modificando a sua volta, localmente, la geometria dello spazio e del tempo. Alla prima storica osservazione, tra l’altro, ne sono seguite altre due. L’ultima, recentissima, si deve alla collisione di due buchi neri, che si sono fusi in unico corpo con massa pari a circa 49 volte quella del Sole e hanno emesso onde gravitazionali captate, ancora una volta, dagli acutissimi occhi di aLigo.
Arriviamo così, finalmente, all’attualità: gli autori dello studio appena pubblicato su Science, usando i dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble, dalla Nasa e dall’Agenzia spaziale, hanno (ancora una volta) studiato la deformazione dello spazio-tempo provocata dalla massa di una stella, analizzando la deviazione della luce di un’altra stella posta sullo sfondo. In questo modo, è stato possibile misurare la massa della stella responsabile della deformazione: “La ricerca”, commenta Kailash Sahu, primo autore dello studio, “fornisce un nuovo strumento per determinare la massa di oggetti cui non possiamo accedere in alcun altro modo. La nostra équipe ha misurato la massa di una nana bianca, un corpo celeste che ha esaurito la propria riserva di idrogeno e che costituisce una sorta di resto fossile della prima generazione di stelle della Via Lattea”.
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