Cari Esploratori Erranti,

voglio condividere con voi un interessante articolo letto su “La Repubblica”.
L’argomento è complesso, ma fondamentale: il rapporto tra ricchezza e felicità.
Eventuali riflessioni che ne deriveranno arricchiranno il patrimonio culturale della nostra Gilda, che -lo ricordo- non ambisce a divenire una setta, una loggia, un partito politico o un “movimento” (per usare una parola che in questi giorni va per la maggiore), ma che si propone semplicemente di riscoprire, determinare e diffondere una cultura che potremmo definire a grandi linee come una forma di “umanesimo empatico e biofilo del XXI secolo”.
Vi chiedo di leggere (ed eventualmente ri-leggere) con attenzione il testo, evitando di soffermarvi su quantificazioni e validità di cifre e importi, su riflessioni di carattere fiscale ed economico o di correre a controllare sulla vostra dichiarazione dei redditi quanto vi manca o di quanto avete superato le soglie indicate… così buttereste via solo tempo e salute!
Vi chiedo piuttosto di riflettere ed interiorizzare i profondi concetti espressi abbastanza bene dall’autore, tra i quali:
(1) Non c’è bisogno di rischiare l’illegalità per essere felici;
(2) La felicità è essenzialmente un problema di rapporto tra aspettative e realizzazioni;
(3) Bisogna evitare di mettere ai primi posti della propria scala dei valori variabili materiali in luogo di amicizie/affetti;
(4) Raggiunta una soglia di benessere economico accettabile a fare la differenza è come si spendono i soldi, non quanti se ne hanno.Buona lettura e… a presto!

Quanto costa la felicità

Se potessimo avere, 3500 euro al mese… Saremmo certi di trovare la felicità? Ricerche alla mano, parrebbe proprio di sì. L’importante, come consigliava nel ’39 la famosa canzone Mille lire al mese, è non esagerare. Ovvero: non rischiare di guadagnare di più.
Gli studiosi sostengono infatti che esiste un “numero magico”, una cifra di reddito sopra la quale è inutile andare, perché la felicità non aumenta. Negli Stati Uniti questa sottile linea rossa è tra i 50 e i 75mila dollari (ovvero tra i 41 e i 62mila euro annui, al mese tra i 3400 e i 5100 euro): oltre, non vale la pena. Nel 2010 era stato uno studio dell’Università di Princeton, cui aveva partecipato anche il Nobel Daniel Kahneman, a indicare in 75mila dollari la cifra massima, che ora (sarà la crisi?) è stata “ridimensionata” a 50mila da una ricerca del Marist Institute for Public Opinion.
Ma per l’Italia? Quanto costa da noi la felicità? «Se si ha un figlio servono 3500 euro al mese – dice Giuseppe Roma, direttore del Censis – Purché non si abbia un mutuo da pagare, condizione che accomuna solo una minoranza di italiani, visto che l’80% delle famiglie ha la casa di proprietà». È una cifra ben al di sopra delle possibilità di una buona metà della popolazione, che secondo i dati del Tesoro, presi dalle dichiarazioni dell’Irpef, non arriva a 1250 euro, mentre la media generale è di 1600. Ed è assai superiore anche al reddito considerato minimo per vivere “senza lussi ma senza privarsi del necessario”: 1400 euro al mese se si è single, 2000 in coppia, 2400 in una famiglia composta da tre persone (dati Banca d’Italia, indagine sui bilanci delle famiglie). Pare comunque che sul cartellino “appeso” alla parola felicità stia scritto un prezzo non esorbitante: siano i 3500 euro indicati dal Censis o i 3400-5100 degli studi americani, sono cifre che si possono sognare senza affidarsi per forza al SuperEnalotto. Ed è una buona notizia, in tempi di crisi, licenziamenti e contratti non confermati.
Secondo una ricerca pubblicata nel 2009 da The Journal of Positive Psychology, gli americani credevano che il loro livello di soddisfazione si sarebbe raddoppiato se lo stesso fosse successo al loro reddito. Ma lo studio di Princeton dimostra che non è così: solo il 9 per cento al duplicarsi dei guadagni diventava più felice. Non c’è dunque bisogno di rischiare l’illegalità per essere felici, anche se c’è chi non l’ha ancora capito. La “scorciatoia” (guadagnare tanto anche in modo disonesto, evadendo o corrompendo) «è il fenomeno più grave di questi tempi», spiega la scrittrice Nunzia Penelope, che dopo Soldi rubati torna in libreria a ottobre con Ricchi e poveri (Ponte alle Grazie). «L’avidità spinge in alto l’evasione e la corruzione, che hanno raggiunto livelli record, sottraendo 200 miliardi l’anno ai conti pubblici. Il dilagare dell’illegalità economica è la prima causa della crisi che mette in ginocchio l’Italia, costringendo il governo a manovre durissime. In parallelo aumenta intanto la diseguaglianza: i dieci italiani più ricchi possiedono quanto i tre milioni più poveri, e i primi venti top manager hanno guadagnato nel 2011 quanto 70mila operai e 150mila precari».
Le conferme sul fatto che l’equazione “ricchezza=felicità” funzioni solo in parte arrivano anche da altre recenti ricerche. A luglio l’Università di Berkeley ha interrogato gli studenti di 12 campus e ne è emerso che l’essere rispettati e ammirati da amici, parenti e società in generale, pesa più del portafoglio, perché – come ha spiegato la dottoressa Cameron Anderson dopo la pubblicazione del suo studio su Psychological Science – permette di guadagnare maggiore influenza e migliora la propria integrazione nel tessuto sociale. «Dalle indagini Istat risulta che ci sono moltissime persone con redditi medio-alti che dichiarano disagio e fatica nell’arrivare a fine mese, mentre tanti cittadini con redditi più bassi non sono dello stesso avviso», commenta Leonardo Becchetti, economista dell’Università di Tor Vergata». Accade perché la felicità è essenzialmente un problema di rapporto tra aspettative e realizzazioni. Si può essere più infelici anche se le “realizzazioni” migliorano, se allo stesso tempo le aspettative crescono più che proporzionalmente».
Ma quant’è diffusa da noi l’idea che si debba guadagnare sempre di più, anche a detrimento di altro? «In genere negli studi si riescono a identificare due tipologie», aggiunge Becchetti, che a giugno ha pubblicato con la Bruno Mondadori Il mercato siamo noi. «Chi al primo posto nella scala dei valori mette le variabili materiali, e chi invece sceglie amicizia e affetti. E i primi tendono a esser meno felici, perché hanno come obiettivo una variabile che non genera mai soddisfazione stabile, e soffrono di più del confronto con gli altri».
Nunzia Penelope, da parte sua, ritiene di far parte «di una esigua minoranza che continua a credere più nell’amore che nel denaro. Meglio due cuori e una capanna che una collezione di ville con piscina, ma da sola. I miei amici, e soprattutto le mie amiche, mi accusano di essere un’inguaribile romantica, replicando che senza soldi non c’è nemmeno amore. In parte è vero: le ristrettezze economiche restringono anche lo spazio per i sentimenti. Però i numeri darebbero ragione a me: i suicidi per motivi sentimentali sono ancora il doppio di quelli per motivi economici, anche se non fanno altrettanto notizia. Nello stesso tempo, vedo purtroppo un nesso tra l’aumento dell’ossessione per il denaro e un fenomeno che solo da poco sociologi e psicologi stanno iniziando a studiare, la sempre più ridotta capacità delle persone di innamorarsi veramente. È il paradosso dei nostri tempi: si ritiene meno rischioso investire in titoli finanziari, magari tossici, che in affetti».
Eppure, tra i tanti, già i filosofi Aristotele e Adam Smith avevano messo in guardia dal puntare tutto sul Dio Denaro. E nel 1974 Richard Easterlin, professore di economia all’Università della California meridionale, aveva definito il paradosso della felicità (o paradosso di Easterlin), secondo cui, quando aumenta il reddito, la felicità umana cresce fino a un certo punto, poi diminuisce seguendo una curva ad U rovesciata.
Molti economisti e leader mondiali stanno correndo ai ripari, e provano a ridimensionare l’importanza del Prodotto interno lordo in favore della cosiddetta Felicità interna lorda. Di recente le Nazioni Unite hanno organizzato a New York una conferenza dal titolo “La felicità e il benessere: definizione di un nuovo paradigma economico”, cui hanno preso parte, tra gli altri, il Nobel Joseph Stiglitz, un altro grande economista come Jeffrey Sachs (che ha curato il “Rapporto mondiale sulla felicità”), l’intellettuale buddhista Karma Ura e il primo ministro del suo Paese, il Bhutan, il cui ex re, nel 1972, coniò appunto l’espressione “Felicità interna lorda”. E persino due leader conservatori come l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy e il premier britannico David Cameron, certo non insensibili ideologicamente e personalmente al colore dei soldi, hanno promosso commissioni e ricerche per indagare il nesso tra ricchezza e benessere. Lo stesso Easterlin, a maggio, ha dimostrato che i cinesi sono in media meno felici di quando erano poveri, prendendo i risultati di sei sondaggi del 1990 e riproponendo questionari simili, oggi, ad alcune migliaia di persone.
Da tutto ciò non si deve però pauperisticamente ricavare la conclusione che “povero è bello”. Tutt’altro. Nel 2008 Business Week, incrociando un gran numero di dati, ha stilato una classifica dei dieci Paesi più felici del mondo: tranne Colombia e Porto Rico, le altre erano tutte benestanti nazioni europee (più il Canada). Ma come per gli Stati, anche per gli individui vale il principio che raggiunta una soglia accettabile di benessere economico a fare la differenza è come si spendono i soldi, non quanti se ne hanno. «Un decennio di ricerche ha dimostrato che si insiste nello spendere per se stessi, ma si dovrebbe passare dagli oggetti (tv e auto) alle esperienze (viaggi e serate speciali)», scrivono sul New York Times gli studiosi Elizabeth Dunn e Michael Norton, autori di Happy Money: The Science of Smarter Spending. «Una nostra indagine recente mostra che in tanti casi si sta meglio se semplicemente si compra meno. E se si compra per gli altri».
La ricetta sta un po’ tra il “Less is more” e il “Better is more”. Il segreto per godersi la vita in tempo di crisi e di spending review (pubblica e personale) potrebbe stare in queste due parole: underindulgence e altruismo. La prima (un neologismo che indica il trattenersi, il concedersi meno per poter godere di più) si traduce nel motto “Il banchetto è nel primo assaggio” (di Micheal Pollan, autore del Dilemma dell’onnivoro) ed è esemplificato dalla “prima sorsata di birra” dell’omonimo libro di Philippe Delerm. Giuseppe Roma del Censis sposa la tesi con passione: «Dobbiamo guardare con più profondità ciò che facciamo, perché la conoscenza può essere una piacevole chiave per il risparmio. Per esempio: mangiare la frutta di stagione, scoprire la trattoria poco cara dove si cucina all’antica, andare a piedi o con una nuova linea della metropolitana invece che in automobile». Poi c’è lo spendere per gli altri invece che per se stessi. Può sembrare un paradosso in tempi di crisi, o addirittura una provocazione per chi non arrivi alla fine del mese. Ma può richiedere poco sforzo, e dare tanto anche al donatore.
«Una delle cose che mi ha reso più felice nella mia vita è stato regalare una discreta somma a una ragazza rom con tre bambini: le occorreva per avere una abitazione decente. Per me quei soldi erano l’equivalente di una vacanza, a lei e ai suoi figli hanno cambiato la vita», racconta Nunzia Penelope. «Un’altra volta ho comprato un albero di Natale a un bambino che non ne aveva mai avuto uno. Lo so, sembrano storie da libro Cuore, invece è la vita di oggi. In momenti come questi, chi ha di più, anche soltanto un euro in più, deve dare a chi ha di meno. Basterebbe offrire cornetto e cappuccino all’immigrato che vuole venderci i soliti calzini, per sentirsi felici in due»
(14 settembre 2012)
FONTE



I SOLDI DANNO LA FELICITÀ, ECCO QUANTI NE SERVONO

I soldi non danno la felicità, recita un noto proverbio.
Ora però a smentirlo ci pensa la scienza: il denaro rende felici, secondo uno studio della Purdue University americana.
E c’è una somma ottimale per raggiungere questo obiettivo, che però varia nel mondo.
Ma il reddito ideale esiste: oscilla tra 60 mila e 95 mila dollari a testa – a seconda del tipo di felicità di cui si parla – e in media nei Paesi ricchi la soglia è più alta.
“Ciò potrebbe sorprendere, in quanto quello che vediamo in tv e nella pubblicità indicherebbe che non c’è un limite quando si tratta di quanti soldi servono per la felicità.
Ora noi abbiamo visto che i limiti esistono”, spiega su ‘Nature Human Behaviour’ Andrew T.
Jebb, l’autore principale del lavoro. Ma quanti soldi servono davvero per cambiare il livello di benessere di una persona e regalargli il sorriso? “Abbiamo scoperto che il reddito ideale è di 95 mila dollari per quanto riguarda la soddisfazione per la propria vita, e oscilla tra 60 mila e 75 mila dollari per il benessere emotivo.
Cifre che valgono per i singoli, e che probabilmente saranno più alte per le famiglie”.
Il benessere emotivo, precisano i ricercatori, riguarda le emozioni quotidiane: il fatto di sentirsi felici, eccitati, tristi o arrabbiati.
La soddisfazione della propria vita è una valutazione complessiva di come si sta, ed è probabilmente più influenzata dagli obiettivi che ci si pone e dai confronti con gli altri. “C’è una sostanziale variazione tra le regioni del mondo, con una sorta di ‘sazietà’ che scatta più tardi nelle regioni più ricche” per quanto riguarda la soddisfazione della vita, prosegue Jebb.
“Questo potrebbe essere dovuto al fatto che le valutazioni tendono a essere maggiormente influenzate dagli standard con cui ci si confronta con le altre persone”. Il lavoro si basa sui dati del Gallup World Poll, uno studio su un campione rappresentativo di oltre 1,7 milioni di persone in 164 Paesi, e le stime sono state calcolate in base al potere d’acquisto e grazie alle domande relative alla soddisfazione per la propria vita e al proprio benessere.
Per questa ricerca gli importi sono stati calcolati in dollari e i dati sono relativi al singolo individuo, non alle famiglie. Lo studio ha anche rilevato che, una volta raggiunta la fatidica soglia della felicità, ulteriori aumenti di reddito tendono a essere associati a una riduzione della soddisfazione per la propria vita e a un livello inferiore di benessere.
Ciò può essere dovuto al fatto che il denaro è importante per soddisfare i bisogni di base, ma fino a un certo punto.
Dopo, infatti, il desiderio di maggiori guadagni materiali e il peso del confronto sociale potrebbero, ironicamente, ridurre il benessere. Insomma, “il denaro è solo una parte di ciò che davvero ci rende felici.
E noi stiamo imparando qualcosa in più sui limiti del denaro”.
FONTE (AdnKronos Salute)