[Da Wikipedia] Con la locuzione Ex libris (che in latino sta per “dai libri”) ci si riferisce ad una etichetta, solitamente ornata di figure e motti, che si applica su un libro per indicarne il proprietario. Può fungere anche come contrassegno apposto nella parte interna della prima pagina di copertina dei volumi catalogati in una biblioteca privata. L’etichettatura può essere cartacea, in materiali pregiati quali cuoio o pergamena, o sotto forma di timbro, in questo caso, a inchiostro, a lacca, a fuoco od altro.

EDIZIONE 1990 


Da sempre appassionato di libri e lettura (un magnifico “universo positivo”, che permette a tanti “più o meno giovani” di isolarsi da realtà complesse, costruttivamente), nel 1988 collaborai volontario nella biblioteca di Bricherasio alla catalogazione di un gran numero di volumi, lascito testamentario di un noto medico locale. Imparai la DDC, “Classificazione Decimale Dewey“, toccai i primi volumi di pregio (il tatto rappresenta uno degli aspetti fantastici dell’interazione con i libri, cosa non replicabile nelle edizioni digitali 🤨) e rimasi affascinato dagli “ex libris” che ne decoravano gran parte. L’anno seguente, traslocati nella nuova casa di Lusernetta e costruita la libreria nella mia nuova camera, iniziai a elaborare l’etichetta che avrebbe contraddistinto i miei “Amici/Maestri di carta”.
Rappresentai simbolicamente a china la mia realtà: il mio ecosistema e l’energia dei miei 17 anni.
Riguardandolo, 30 anni dopo, non posso non osservare che fui fortemente inconsciamente influenzato dallo stemma posto nella parte centrale, in alto, della Cappella di San Bernardino nel piccolo cimitero di Lusernetta. Luogo che frequentavo puntualmente, essendo la mia nonna materna mancata nel 1977 ed essendo tradizione imperativa di famiglia far si che fiori freschi ne decorassero sempre la tomba. (APPROFONDIMENTO)
Nel logo, in primo piano, una imponente quercia. Ai suoi piedi un robusto cinghiale (animale che da sempre gode delle mie simpatie 😀) si ciba delle sue ghiande. Sullo sfondo una massiccia montagna che vuole ricordare le quattro cime che sovrastano, proteggono e condizionano la vita nelle mie valli: il Monviso, il Bric Boucie, il Frioland e il Vandalino. Dietro il monte un sole albeggiante, a significare crescita (ma è lasciato volutamente indeterminato, poiché così può rappresentare anche il tramonto o la luna piena) e in alto a sinistra un falco, disegnato sulla falsariga del logo della Salewa (impresa tirolese produttrice di materiale per alpinismo. Nel 1990 mi iscrissi ufficialmente al CAI-UGET di Torre Pellice). In calce il motto che da sempre mi ripeto per darmi forza nei momenti difficile e per gioire dei successi quando la Fortuna mi sorride: “FABER EST SUAE QUISQUE FORTUNAE“. “Ciascuno è artefice della propria sorte“, espressione caratteristica della teoria dell’homo faber (anche) del filosofo Giordano Bruno , secondo cui l’unico artefice del proprio destino è l’uomo stesso.
L’etichetta in un primo momento venne fotocopiata, ritagliata e incollata sulla prima pagina interna dei volumi. Poi, con l’evoluzione delle fotocopiatrici, inizia a fotocopiarla su fogli A4 autodesivi. Nel 2014 chiesi a una tipografia di C.so Matteotti a Torino di realizzarmi il timbro a tampone. Ad oggi l’ex libris fa bella mostra di se su 1.350 volumi 🏆🏆🏆 (cui si devono sommare quelli con l’ex libris di Arihanna e di coppia F@R). (APPROFONDIMENTO)

EDIZIONE 2020 


Trent’anni sono tanti. Cambia il mondo, cambiano gli altri e cambi tu, con la tua visione delle cose. Almeno per quanto mi riguarda, con lo scorrere del tempo rimangono solidi i principi e i valori (le radici, se vogliamo fare un esempio che richiami la saggezza degli alberi), ma cambiano le priorità, le esigenze, gli obiettivi (le fronde) e -in particolar modo- l’ecosistema nel quale il vento del Destino (o della Predestinazione, per chi ha il dono di una Fede) ha portato a germogliare i tuoi semi.
Così, dopo aver vagato ramingo un po’ di anni prima per l’Italia e poi per il Vecchio Continente, ormai da quasi un ventennio vivo con Arihanna a San Pancrazio di Pianezza (nella cintura di Torino, all’imbocco della Val Susa) e sono dipendente di una primaria compagnia assicurativa dove mi sono specializzato nella Responsabilità Civile e Tutela Legale dei professionisti. Valli e cime sono quasi un ricordo e le molte interazioni sociali vissute (con i tanti risvolti problematici derivati 🙄😆), hanno fatto evolvere/cambiato i miei “simboli totemici” di riferimento.
Quindi il monte, che prima dominava lo spazio, ora è stato spostato più sullo sfondo, a delineare una linea di orizzonte più lontana e ha lasciato spazio anche alle foreste dove mi reco -quando riesco- per fare camminate rilassanti e qualche fotografia. Foreste di abeti, le conifere che ricoprono il territorio savoiardo (dal fr. “sapin“).
L’albero non è più una quercia ma un grande platano. Con gli anni ho rivalutato (e per certi aspetti mi sono un po’ immedesimato) con questa stupenda essenza vegetale: il  Platanus Acerifolia è un perfetto esempio di eterosi, o “vigore dell’ibrido”. Progenie di due varietà, ciascuna delle quali è stata isolata e incrociata con l’altra, mostra un significativo incremento di vitalità e forza. Si è adattato benissimo alla vita urbana, grazie alla sua peculiare capacità di prosperare anche in mezzo all’aria inquinata. Anzi, sfaldando continuamente la corteccia (disseminata di piccoli pori che assorbono il sudiciume dell’aria) in grandi scaglie, l’albero rimane sano contribuendo alla pulizia dell’aria cittadina. Inoltre la sua maestosa cupola offre ombra senza disturbare la visuale al livello della strada, i suoi pon-pon procurano cibo agli uccelli, le sue foglie ricordano quelle dell’acero (vedi bandiera del Canada, che adoro) e, non da ultimo, l’albero fu scelto nel XIX secolo dalla corona inglese quale emblema ideale per la capitale di un impero in costante espansione.
Anche gli animali totemici sono cambiati: non più cinghiale e falco ma orso e corvo. Oltre alla comparsa in alto a destra di una coppia di germani reali.
L’orso è l’animale che simboleggia il legame tra cielo e terra. Incarna al contempo qualità positive come il coraggio, la gentilezza, grande volontà e forza. Ma è anche simbolo di qualità negative come la malvagità, la ferocia e la bramosia. Greci, celti e gli antichi popoli germanici associavano l’orso alle proprie divinità così come i nativi americani lo collegavano all’agire di una forza soprannaturale. In generale, poiché solito andare in letargo, rappresentava la capacità d’introspezione, il simbolo della meditazione e della comprensione di misteri legati al tempo e alla vita.

Al corvo, uccello dotato di un’intelligenza elevatissima, sono associati diversi significati simbolici. Tuttora, in molte lingue, la frase “possedere la coscienza del corvo” è riferita a colui che ha vasta conoscenza, derivante da una profonda elevazione spirituale.

La simbologia legata al corvo/cornacchia è comunque enigmatica: da un lato incarna ciò che la divinità rappresenta (quindi anche la solarità della vita oltre alla suprema conoscenza ed elevazione spirituale) dall’altro è associata alla guerra, alla morte e al lato oscuro dell’animo umano. Per i nativi americani la cornacchia rappresentava la custode dei più grandi misteri. Era l’unico essere vivente in grado di trasgredire le leggi del mondo poiché dotata della facoltà di assumere qualsiasi sembianza e poter essere presente in due luoghi contemporaneamente. Nella tradizione celtica e in quella irlandese si narra di come, in origine, il piumaggio del corvo fosse bianco ma fu trasformato in un piumaggio nero dopo che l’animale mentì al suo padrone e dio Lugh per nascondere il tradimento della consorte. Da quel momento esso divenne simbolo dell’animo umano che, se perso, può divenire cattivo consigliere e volto alla menzogna. L’animale divenne eternamente schiavo del dio e come tale considerato profetico. I celti infatti spesso erano soliti interpretare gli eventi futuri in base ai comportamenti e al volo dei corvi. FONTE

Infine la coppia di anatre, di germani reali, che tagliano il cielo in alto a destra rappresenta la nostra coppia. Come ben sa chi ha partecipato al nostro rito matrimoniale alla Sacra di San Michele, abbiamo eletto a simbolo di coppia questi stupendi uccelli nel lontano 2003.

L’Anatra è un uccello migratore ed è la personificazione del viaggio iniziatico. Per la migrazione che compie ogni anno simboleggia la difficile ricerca spirituale e il ciclo delle rinascite. Negli antichi egizi è associata alla dea Iside. Nell’ebraismo è il simbolo dell’immortalità. La particolarità di tali migrazioni è rappresentata dal fatto che gli esemplari maschi di anatra compiono questi viaggi sempre insieme alla femmina. In oriente imbattersi in una coppia di anatre (oppure tenere nella propria abitazione la riproduzione in porcellana o altri materiali di una coppia di anatre) è simbolo di buon auspicio per l’unità e la fedeltà della coppia. I celti, i sanscriti e i greci lo consideravano un uccello sacro poiché gli attribuivano un valore simbolico in merito alla creazione del mondo. Fra gli indiani dell’America del Nord vi è la credenza che l’anatra possa facilitare l’apprendimento della disciplina del nuoto da parte dei bambini. Al contempo viene vista come un’interceditrice tra cielo e terra.

Parallelamente in Italia e in Francia (soprattutto nelle regioni del sud) l’anatra assume più un ruolo di portatore di sfortuna. Questo, forse, a causa della sua atavica relazione con le paludi, luogo comunemente associato alla malattia, alla morte e alla sventura. Per il fatto che voli sulla superficie dell’acqua l’Anatra è considerata anche simbolo di superficialità, di maldicenze, inganni e tradimento. FONTE

Concludono il logo un pila di libri e il motto che ormai da anni affianca il precedente nel mio quotidiano agire: “NUMQUAM QUIESCERE”. “Mai fermarsi”. Sotto-intitolato «Non esiste il bene o il male, solo decisioni e conseguenze.»
L’etichetta è ora quadrata, in linea con gli altri due ex-libris, a simbolo della ricerca costante di equilibrio e proporzione.


La cappella di San Bernardino di Lusernetta

Nella parte centrale, in alto, campeggia lo stemma che rappresenta la fusione di due casati: quello del conte Enrico Morozzo e Irene Veraris di Castiglione, nobili torinesi che verso la fine del 1800 si occuparono della risistemazione della cappella.
La sua collocazione storica è alla fine del XV sec. e il suo nome è legato a San Bernardino da Siena (1380-1444) che intorno al 1425 si recò nelle valli di Luserna per la conversione dei valdesi ed è proprio in suo onore che venne dedicata questa cappella. Nel 1584 fu cappella gentilizia dei conti di Rorà e rimase l’unica chiesa del paese fino al 1846 quando venne eretta la chiesa parrocchiale S. Antonio Abate.
FONTE

11/2015 - Cappella di San Bernardino

https://archeocarta.org/lusernetta-to-cappella-san-bernardino/