Kong Zi, Lao Zi, Zhuang Zi: tutti “figli” dello Yi Jing
Un giorno, Zhuang Zi si addormentò in un parco: sognò di essere una bellissima farfalla. Vola di qua, vola di là, alla fine la farfalla, stanca, si addormentò. Anche la farfalla fece un sogno: sognò di essere Zhuang Zi. In quel momento Zhuang Zi si svegliò: ma non riusciva a capire se in quel momento era il vero Zhuang Zi o il Zhuang Zi che la farfalla aveva sognato. Non sapeva più se se era Zhuang Zi ad avere sognato di essere una farfalla, o se era una farfalla ad aver sognato di essere Zhuang Zi.
Associare il Libro dei Mutamenti alla base di confucianesimo e taoismo può sembrare un po’ bizzarro, in quanto notoriamente Confucio e Lao Zi rappresentano due orientamenti filosofici contrapposti: tuttavia, se guardiamo appena oltre le apparenze, la situazione non è così contraddittoria come sembra.
La formazione dei testi canonici cinesi è indissociabile dal nome di Confucio. Nei Dialoghi Confucio ricorre a delle citazioni ed opera un uso didattico di un certo numero di testi, che egli stesso dichiara di avere modificato, rimaneggiato ed anche emendato. Nel II° secolo a.C. allorché si apre con la dinastia Han l’epoca imperiale, il primo grande storico cinese Sima Qian così descrive i Classici:
«Il Classico dei Mutamenti, che tratta del Cielo e della terra, dello Yin e dello Yang, delle Quattro Stagioni e dei Cinque Elementi è lo studio del divenire per eccellenza;
Le Memorie sui Riti, che definiscono i rapporti tra gli uomini, sono lo studio della condotta;
Il Classico dei Documenti, che ci tramanda le gesta dei re dell’antichità, è lo studio della politica;
Il Classico delle Odi, che canta monti e fiumi, vallate e burroni, alberi ed erbe, animali ed uccelli, maschi e femmine, è l’espressione per eccellenza della poesia;
Gli Annali delle Primavere ed Autunni, che distinguono il giusto dall’ingiusto, sono lo studio del governo dell’umanità.»
Sicuramente tali testi già esistevano all’epoca di Confucio, che se ne è servito nel suo insegnamento e, ciò facendo, li ha indubbiamente rimaneggiati e reinterpretati alla sua maniera in una ottica etica e pedagogica. In particolare, è attribuito a Confucio un notevole contributo al completamento dello Yi Jing (Il Commentario alle immagini e Commento alle singole linee degli esagrammi, e le appendici, dette “Dieci Ali”).
Ma anche Lao Zi e Zhuang Zi conobbero questo libro e ne furono ispirati nella scrittura dei loro “classici”, il Dao De Jing e il Zhuang Zi: la connessione tra i Yi Jing e taoismo è molto stretta: tutto il pensiero taoista è basato sulle teorie dello Yin e Yang, su quella dei Cinque Elementi e su quella degli Otto Trigrammi. L’eterno alternarsi delle energie primordiali, il flusso ciclico delle stagioni, le interazioni generative/distruttive dei Cinque Elementi sono intimamente legate al Libro dei Mutamenti.
Ma chi erano questi personaggi? E che cosa hanno detto di importante per avere fama ancora ai nostri giorni?
Confucio e la sua scuola
Confucio è la latinizzazione operata dai gesuiti missionari (Confutius) del nome cinese Kong Fu Zi (Maestro Kong). Le notizie biografiche che possediamo sono scarse e di molto posteriori alla sua morte: secondo la tradizione, Confucio nacque nel 551 a.C. e morì nel 479, all’età di settantadue anni. Era originario del piccolo principato di Lu (attualmente lo Shandong, provincia costiera a sud di Pechino). Apparentemente di discendenza aristocratica, Confucio stesso fa allusione nei “Dialoghi” ad una giovinezza di condizioni modeste. Per le sue origini sociali, Confucio è rappresentativo di un ceto in ascesa, intermedio tra la nobiltà guerriera e il popolo dei contadini e degli artigiani: si tratta del ceto degli shi che, in virtù delle loro competenze in ambiti diversi e segnatamente nel campo culturale, finiranno per formare la nota categoria dei letterati-funzionari della Cina imperiale.
Confucio fu impegnato fin da giovane nella vita politica di Lu, e dopo aver ricoperto incarichi amministrativi subalterni divenne infine ministro della giustizia. La leggenda vuole che abbia poi lasciato il paese natale per protestare verso il malgoverno del suo sovrano: sta di fatto che verso la cinquantina egli rinuncia alla carriera politica. Deluso dal sovrano del suo paese tenta in seguito di offrire i propri servigi e i suoi consigli ad altri, pare senza grande successo.
Dopo i sessant’anni se ne torna a Lu, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita ad insegnare a discepoli sempre più numerosi. E’ in questo periodo che, secondo la tradizione, avrebbe composto (o quanto meno riordinato) i testi che gli sono attribuiti. Confucio è influenzato dalle attitudini morali che un tempo erano proprie della classe nobile: moderazione, rispetto dei riti, fedeltà alle antiche tradizioni. La sua prospettiva è sostanzialmente conservatrice, nel senso che mirava a ristabilire il rispetto dei valori e soprattutto dei comportamenti tradizionali, anche dal punto di vista formale. Nella visione dei confuciani, la società doveva strutturarsi su una rete gerarchica ben stabilita e sul principio di un paternalismo autoritario, sanciti da pratiche formaliste e da comportamenti prescritti; l’organizzazione statale era improntata al modello delle relazioni esistenti nella famiglia. Come l’autorità del padre, contemperata dal suo impegno a procurare ai familiari prosperità e sicurezza, era indiscussa, così nello Stato, il condizionamento pervasivo di ogni pensiero e di ogni atto era ritenuto indispensabile per garantire l’ordine, la pace e la prosperità materiale.
Ma cosa ha detto di “speciale” il buon Confucio? Per lui innanzitutto c’è «l’apprendimento», inteso però, non tanto come un procedimento intellettuale ma come esperienza di vita, come pratica che si condivide con altri, che è fonte di gioia. La finalità pratica della educazione consiste nella formazione di un «uomo di valore» sul piano morale e capace di aiutare gli altri nel sociale: in tal modo si delinea da subito il destino «politico» dell’uomo colto che, invece di tenersi in disparte per meglio assolvere ad un ruolo di coscienza critica, avverte invece la responsabilità di impegnarsi nel processo sociale e di governo.
Una delle qualità dell’uomo di valore è il «senso di umanità», che si manifesta in virtù di tipo relazionale fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà. La relazione che in natura fonda l’appartenenza di ogni individuo alla comunità umana è quella del figlio nei confronti del padre. Sulla «pietà filiale» si fonda la relazione politica tra suddito e principe, la relazione familiare tra moglie e marito e quella sociale tra amici. Poiché la famiglia è percepita come una estensione dell’individuo, lo stato come una estensione della famiglia, e poiché il principe è rispetto ai suoi sudditi ciò che un padre è rispetto ai suoi figli, non vi è soluzione di continuità tra etica e politica. ll sovrano, nell’ideale confuciano, dovrebbe incarnare spontaneamente il senso di umanità, imponendosi con la benevolenza e non con la forza, dovrebbe possedere la «virtù», che non è tanto la virtù in senso morale, in opposizione al vizio, quanto piuttosto la “virtus” latina intesa come ascendente naturale, carisma, che consente ad una persona di affermarsi senza nessuna coercizione.
Dopo la morte di Confucio, Mencio (372-287 a.C.) razionalizzò l’insegnamento di Confucio sulla “benevolenza” (o bontà di cuore) e sull’importanza dei valori morali nella società, dando così inizio a una disputa che avrebbe occupato i pensatori confuciani per diversi secoli. Mencio infatti sosteneva come norma della moralità la natura umana, che è fondamentalmente buona, per cui alla vita morale occorreva soltanto un processo di auto perfezionamento. Qui il discorso religioso diventa più esplicito, poiché il tentativo è quello di mostrare come il dio-cielo (concepito come forza morale) si rapporta all’uomo e lo aiuta a realizzarsi.
Dong Zhong-Shu (197-104 a.C.) riuscì a far adottare il Confucianesimo come religione di stato sotto la dinastia degli Han (136 a.C.). Grazie a lui si svilupparono notevolmente la burocrazia imperiale e la meritocrazia, cui il sistema degli esami per il mandarinato diede forte impulso. Sotto questa dinastia, il confucianesimo si arricchì di una cosmologia e di una metafisica, basata sul dualismo di yin (principio femminile, ombra, freddo, riposo, passività, terra) e yang (principio maschile, luce, calore, energia, attività, aggressività, cielo).
Xunzi (298-238 a.C.), che è il terzo fondatore del Confucianesimo, sosteneva invece che la natura umana è incline al male e solo attraverso un’educazione imposta dall’esterno, essa può vivere pacificamente e con dignità. Da notare che fu soprattutto Xunzi a sviluppare il lato pratico della religione confuciana con la sua dottrina dell’azione rituale. Confucio si era soffermato soprattutto sull’esigenza di vivere la vita con umanità e di preservare i riti tradizionali. Xunzi formalizzò e codificò questa prassi, introducendo nuovi riti, i quali, peraltro, essendo prevalentemente dei sacrifici ufficiali statali, erano poco sentiti dal popolo.
Con l’avvento della dinastia Song (960-1279 d.C.) il pensiero confuciano entrò nella sua nuova e ultima fase di elaborazione. A partire dal XII sec. sorge praticamente il “neo-Confucianesimo”, in direzione del panteismo e sotto l’influenza del Taoismo e del Buddismo. La preoccupazione fondamentale fu quella di studiare la storia passata e i testi classici, considerati depositari del modello ideale del “buon governo”.
L’ impostazione del Confucianesimo data da Dong rimase praticamente invariata sino al 1905. Poi il culto statale venne riorganizzato nel 1907 e soppresso nel 1912. Durante la “rivoluzione culturale” maoista ci si scagliò contro il Confucianesimo in quanto tale, senza distinguere le idee originarie del fondatore da quelle, di alcuni suoi seguaci, che poi risultarono dominanti. Una campagna anti – Confucio è stata condotta anche nel 1973: sotto accusa furono quegli insegnanti che si servivano di metodi autoritari. La casa di Confucio venne saccheggiata dalle “guardie rosse”: le preziose edizioni di antichi testi confuciani conservate nella biblioteca, la statua di Confucio, quelle dei suoi quattro discepoli e seguaci più celebri, i vasi sacrificali, gli antichi strumenti musicali, fra i quali il liuto: tutto andò distrutto.
L’attuale governo cinese ha deciso da qualche anno di rilanciare in grande stile la figura del maestro Kong: gli Istituti Confucio – oggi presenti in più di 36 nazioni – servono non solo per apprendere la lingua e la cultura, ma anche per avere “una visione più chiara della Cina moderna”. Grazie all’importanza della Cina nel mondo, gli studenti stranieri di lingua cinese crescono sempre più: secondo l’agenzia Nuova Cina nel mondo vi sono circa 30 milioni di stranieri che studiano cinese ed anche in Italia, nelle università di lingue, i corsi di cinese stanno avendo un boom di iscrizioni. (In Italia è stato aperto un Istituto Confucio nel 2005 presso l’Università “La Sapienza” di Roma. [www.istitutoconfucio.it])
Si può intuire, alla luce di questi cenni sul pensiero confuciano, come il progetto del governo cinese intenda promuovere non solo lo studio all’estero, ma anche diffondere le idee del grande filosofo in patria. Il desiderio di mostrare un volto noto alla cultura mondiale, la crisi della moralità e dei valori spirituali nel paese, la ricerca di identità ha fatto puntare tutto sul filosofo del V secolo a.C., sulla moralità da lui predicata, soprattutto la pietà filiale, l’obbedienza alle autorità, il sacrificarsi per il clan. La contraddizione apparente è che sia proprio il governo comunista a riportare in luce un filosofo che Mao ha tentato in tutti i modi di distruggere e che la Rivoluzione Culturale ha giudicato un simbolo della “arretratezza feudale”: ma, come dicono i cinesi, “è del saggio cambiare opinione …”.
La scuola taoista
Parallelamente allo sviluppo del confucianesimo, si sviluppano tendenze che possono sembrare antisociali e persino anarchiche, che continueranno ad alimentare, anche nell’era imperiale, una delle correnti più originali e vivaci della intellettualità cinese. La «scuola taoista» rappresenta la principale di queste tendenze. La condanna del lusso, della tecnologia, delle istituzioni, l’indifferenza e il distacco per le cose, tutti consigliano un ideale di sobrietà riferendosi alle piccole ed isolate comunità rurali. Per i taoisti i tempi oscuri in cui gli uomini ignoravano tutte le raffinatezze della civiltà erano l’età dell’ oro: ogni progresso tecnico, ogni nuova istituzione rappresentano un passo in più verso l’asservimento dell’uomo e la degradazione delle sue virtù naturali. Lo stato doveva essere leggero e limitato alle dimensioni del villaggio, la virtù dei governanti doveva essere misurata su un’intuitiva saggezza e non su un elaborato possesso di nozioni, il rapporto con la natura poteva essere stabilito in termini di convivenza e non di assoggettamento. Il taoismo ha costituito nella civiltà della Cina il momento libertario dell’evasione dagli obblighi e dalle coazioni, dell’iniziativa individuale, del piacere e della curiosità personale (ha dato un contributo senza pari all’elaborazione della scienza, della tecnologia e della medicina), della fantasia (la pittura e la letteratura cinesi sono dominate dalle concezioni taoiste) e anche della trasgressione dagli obblighi politici o familiari.
Secondo la leggenda che fa di lui un contemporaneo di Confucio, vissuto nel VI-V secolo a.C., sarebbe Lao Zi ( 老子) ad aprire la «via taoista». Tuttavia esistono a livello scientifico dei dubbi sulla reale esistenza storica di Lao Zi. Come tutti personaggi mitici, strane leggende sono state tramandate sulla sua nascita, quantomeno originale: sua madre l’avrebbe portato in grembo 81 anni (ovvero nove volte nove anni, dato che il 9 è un numero magico), e sarebbe venuto al mondo con i capelli e le sopracciglia bianche! Da cui il soprannome di Laozi, che oltre “Vecchio Maestro” può essere tradotto come “Vecchio Bambino”. Ben presto gli venne attribuita una favolosa longevità: 80 anni, poi 160, 200 anni, e anche più!
Successivamente, la figura di Lao Zi subì un processo di divinizzazione: divenne il dio della Longevità sotto una particolare forma, quella di Shoulao, una delle sue emanazioni. Shoulao è molto popolare in Cina, e nei musei si trova spesso la sua immagine (in ceramica, pittura, ecc…). È facilmente riconoscibile per il cranio smisurato e calvo, a forma di proiettile e per la fronte prominente, la lunga barba bianca, il bastone di legno, spesso portato da un ragazzino, il suo assistente.
La tradizione vuole che in un momento di innumerevoli e sanguinose guerre tra i diversi regni e feudi in cui il territorio cinese si componeva, Lao Zi sviluppasse una dottrina mirante ad arrestare le guerre che imperversavano. Questa dottrina, il taoismo, cercò di stimolare un equilibrio nella società facendo riferimento ad una forza che plasma, circonda e fluisce sempre tra tutte le cose. Sempre secondo la leggenda, Lao Zi, demoralizzato per il declino dei Zhou, sarebbe partito per dirigersi ad ovest. Quando giunse all’ultimo passo prima della steppa, il guardiano del passo gli disse: «Dato che state per ritirarvi dal mondo, vi prego di voler comporre un libro per me». Lassù Lao Zi scrisse le cinquemila parole del Dao De Jing (IL Classico della Via e della Virtù), poi se ne andò e nessuno seppe dove morì. Il Dao De Jing (detto anche Lao Zi) si presenta in una forma completamente differente da tutte le opere che l’hanno preceduta: invece di una esposizione didattica sotto forme di domande e risposte, alla maniera dei “Dialoghi” di Confucio, si ha qui una serie di versi ritmati e rimati, di estrema concisione e connotati da uno stile un po’ esoterico. Il contenuto si astiene deliberatamente da ogni riferimento a luoghi, eventi, personaggi, che consentano una datazione dell’ opera: di qui il numero impressionante di interpretazioni e traduzioni esistenti.
La tradizione ha fat300-681-60_1.jpgto di Zhuang Zi 庄子 il secondo maestro taoista dopo Lao Zi: peraltro una lettura attenta dei testi induce a rimettere in discussione la sequenza tradizionale invertendone l’ordine e collocando la composizione del Zhuang Zi (l’opera attribuita al maestro) nel IV sec., prima di quella del Lao Zi databile all’ inizio del III sec. Occorre inoltre precisare che i due nomi, che oggi vengono sempre citati assieme, non furono associati prima dell’ età imperiale: fu infatti solo nel II sec., all’epoca Han, nel II° sec. a.C. che apparve l’etichetta di «scuola taoista» 道家 (dao jia) nella classificazione delle sei grandi scuole di pensiero degli Stati Combattenti operata da Sima Qian nelle Memorie di uno storico (shi ji).
Il Zhuang Zi, come testo, è steso in una prosa esuberante, di alta qualità letteraria e poetica: in confronto all’anonimo Lao Zi, il Zhuang Zi appare come una vera e propria opera di autore dal tono marcatamente personale. Tuttavia esso rimane comunque una miscellanea di scritti rappresentativi di correnti alquanto diverse, scritti in periodi diversi, di cui solo una parte viene attribuita a Zhuang Zi. A differenza di Lao Zi, Zhuang Zi è un personaggio di cui almeno è certa l’esistenza, anche se si sa molto poco su di lui. Il suo nome personale era Zhou e sarebbe stato originario dell’area meridionale di Chu, vissuto tra la fine del IV e l’inizio del III sec a.C. Dopo aver occupato un posto amministrativo subalterno, si sarebbe deliberatamente ritirato dal mondo, offrendo di se stesso l’immagine di un personaggio eccentrico che costituisce l’oggetto di numerosi aneddoti.
La disputa filosofica
Il tema centrale della speculazione cinese è il seguente: esistono uomini di vari tipi e condizioni (politici, artisti, scienziati) e per ciascuno esiste la più alta forma di sviluppo della quale il tipo è capace. Ma quale è la più alta forma di sviluppo di cui un uomo «come uomo» è capace?
Secondo i filosofi cinesi è nientemeno che quella del «saggio» e l’ideale di un saggio è l’identificazione dell’individuo con l’universo. Il dibattito filosofico cinese non è tanto sulla domanda “Cos’è la verità?” ma “Dov’è la Via?”, (Dao) ovvero il modo di regolare lo stato e di guidare l’esistenza individuale. Questo termine, Dao (detto anche Tao), di cui sovente si attribuisce il monopolio ai taoisti, è di fatto un vocabolo corrente nella letteratura antica e significa «strada, via», «cammino» e per estensione «metodo, modo di procedere». Inoltre, a causa della fluidità delle categorie grammaticali del cinese antico, Dao può anche significare «camminare», «avanzare», ma anche «parlare, enunciare». Così ogni corrente di pensiero ha il suo dao, in quanto propone un insegnamento sotto forma di enunciati la cui validità non è di ordine teorico, ma si fonda su un insieme di pratiche. Nel dao l’importante non è attingere il fine quanto piuttosto saper procedere. la Via non è mai tracciata in precedenza, ma si traccia mano a mano che vi si cammina
Nel pensiero cinese prevale la riflessione in rapporto all’azione piuttosto che in rapporto alla conoscenza in sé. Piuttosto che un «sapere cosa», e cioè la ricerca della verità, la conoscenza è soprattutto un «sapere come» e cioè la ricerca del come ordinare e dirigere la propria vita nell’ambito di uno spazio sociale. Il pensiero confuciano porta ad una visione di tipo «politico», nel senso di un ordinamento del mondo secondo la visione umana, mentre i taoisti privilegiano una visione «artistica», nel senso della partecipazione dell’uomo alla gestazione del mondo.
La mente umana è capace di due tipi di conoscenza, quella razionale e quella intuitiva: la prima tradizionalmente associata alla scienza, la seconda alla religione. In occidente si privilegia la razionalità, in oriente l’intuito: per meglio dire, i cinesi hanno sempre sottolineato la natura complementare dell’intuitivo e del razionale: taoismo e confucianesimo ne sono la dimostrazione.
La conoscenza razionale appartiene al campo dell’intelletto, la cui funzione è discriminare, dividere, confrontare, misurare ed ordinare in categorie. L’astrazione è una caratteristica tipica di questa conoscenza, perché per poter analizzare l’immensa varietà di forme e fenomeni non possiamo prendere in considerazione tutti gli aspetti, ma se ne devono scegliere solo alcuni significativi. Il mondo naturale, d’altra parte, ha una varietà e complessità infinita, nella quale le cose non avvengono in successione, ma tutte contemporaneamente: è chiaro che il nostro sistema astratto di pensiero concettuale non potrà mai descrivere o comprendere questa realtà nella sua complessità: tutta la conoscenza razionale è necessariamente limitata.
Poiché tuttavia la nostra rappresentazione della realtà è molto più facile da afferrare che non tutta la realtà stessa, noi tendiamo a confondere le due cose e a prendere i nostri concetti e i nostri simboli come se fossero la realtà.
Zhuang Zi ricorre ad ogni procedimento possibile per deridere la ragione discorsiva: nel suo libro, con una forma di suprema ironia, spesso usa le parole con un significato opposto a quello usuale, mostrando così di aver capito che spesso l’umorismo è ben più efficace e corrosivo di un lungo discorso. Predilige il dialogo serrato o l’aneddoto paradossale che si conclude con un tocco di nonsenso finalizzato a produrre un sussulto, un balzo in una verità altra rispetto a quella della logica ordinaria 1. Un altro suo procedimento consiste nell’intavolare una discussione pesudo-logica con tutte le apparenze della razionalità, per concluderla in modo delirante.
Zhuang Zi e Hui Zi passeggiavano sull’argine del fiume Hao. Zhuang Zi esclamò: «Guardate i pesci, come sguazzano a loro agio. E’ questo il piacere dei pesci».
Hui Zi replicò: «Ma voi non siete un pesce: come potete sapere quale è il piacere dei pesci?».
Zhuang Zi gli ribatté:«E voi non siete me; come potete dunque sapere che io non so quale è il piacere dei pesci?».
E Hui Zi di rimando: «Io non sono voi, e dunque di certo non so ciò che sta in voi. Ma voi di certo non siete un pesce, ed è dunque evidente che non sapete quale è il piacere dei pesci.»
Zhuang Zi rispose: « Riprendiamo dall’ inizio, se non vi dispiace. Voi mi avete chiesto come sapevo qual è il piacere dei pesci: dunque, per farmi questa domanda, sapevate che lo sapevo. Ebbene lo so, standomene qui in riva al fiume.»
Ciò che è messo ironicamente in causa non è più soltanto l’uso che si fa del linguaggio, ma il linguaggio stesso. Per Zhuang Zi il linguaggio non può dirci nulla sulla vera natura delle cose per il fatto che è esso stesso a porre non soltanto i nomi (名 ming), che diamo alle cose ma al contempo le cose stesse (实 shi). Cos’è che permette di decidere che qualcosa «è questo» o non lo è? Zhuang Zi si diverte a mettere le proprie idee in bocca a Confucio sovvertendone il ruolo. La sua critica verso Confucio è feroce: lui aveva detto al suo discepolo Zilu:
«Vuoi che ti insegni cos’è la conoscenza? Sapere che si sa quando si sa, e sapere che non si sa quando non si sa, questa è la conoscenza»
Inoltre aveva affermato di sè nei Dialoghi:
«Io, a quindici anni decisi di dedicarmi allo studio; a trenta anni mi affermai saldamente nella società; a quaranta anni non ebbi più nessuna incertezza; a cinquanta anni compresi il Decreto del Cielo; a sessant’anni seppi ascoltare tutti; a settanta anni, riuscii a seguire i desideri del cuore senza violare le regole» (Dialoghi II-4)
Ed ecco la parodia che ne fa Zhuang Zi:
«A sessanta anni Confucio non aveva fatto altro che cambiare opinione sessanta volte. Ogni volta che aveva cominciato col dire “è così”, aveva poi concluso con “non è così”. Chi sa se per un uomo di sessant’anni la verità non si presenti sotto lo stesso aspetto di ciò che per cinquantanove anni fu per lui un errore?»
In un epoca in cui imperversavano le discussioni tra confuciani, moisti e sofisti, Zhuang Zi ritiene che non vi sia motivo di dare ragione agli uni piuttosto che agli altri. Questo lo induce a chiedersi: la ragione è davvero ragionevole? La ragione analitica funziona sul principio del terzo escluso: la tal cosa «è quella» o non lo è. Ma secondo Zhuang Zi è illusorio pretendere di affermare qualcosa, dato che è possibile, simultaneamente affermarne il contrario. I logici dicevano:
Asserire che nessuna proposizione prevale nell’argomentazione logica non può corrispondere alla realtà: l’argomentazione consiste in questo: l’uno dice che è così, l’altro dice che non è così, e prevale colui la cui proposizione corrisponde alla realtà
Ma Zhuang Zi risponde:
Supponendo che ci mettiamo a discutere, voi ed io, e che voi abbiate la meglio su di me, questo significherebbe che voi avete ragione e io torto? E se sono io ad avere la meglio su di voi, questo significherebbe che sono io ad avere ragione e voi torto? O forse invece avremmo ciascuno in parte ragione e in parte torto? Oppure avremmo entrambi ragione, oppure entrambi torto? E se non siamo capaci di dirimere noi stessi la questione, altri sarebbero ancora più confusi. A chi fare appello come arbitro? Se questo qualcuno è d’accordo con voi o con me, come potrebbe per ciò stesso essere arbitro? E se non è d’accordo né con me né con voi come potrebbe dunque arbitrare? Ma se è d’accordo sia con me sia con voi, l’arbitrato è forse possibile? Così dunque se nessuno – né io né voi né un terzo – è capace di dirimere la questione, potremmo forse ricorrere a qualcun altro?
Un’ altro ostacolo fondamentale alla conoscenza è il linguaggio: l’imprecisione e l’ambiguità del nostro linguaggio sono indispensabili per i poeti i quali lavorano molto per associazioni, utilizzando i diversi strati subconsci del linguaggio stesso. La scienza mira invece a definizioni chiare e a relazioni prive di ambiguità: ecco quindi il linguaggio matematico come forma più alta di rigore e di logica. Il metodo scientifico dell’astrazione è molto efficace e potente, ma comporta un prezzo da pagare: via via che definiamo con maggiore precisione il nostro sistema di concetti esso si distacca sempre più dal mondo reale. Basta pensare alle complesse teorie fisiche moderne, la relatività, i quanti e alla estrema complicazione degli esperimenti nel mondo subatomico… chi di noi, poveri mortali, potrà mai avere una idea concreta di cosa è un orbitale di probabilità o di quanto grande sia un neutrino? E’ così che per integrare i modelli matematici dobbiamo usare i modelli verbali, con tutte le loro imprecisioni ed ambiguità… un circolo vizioso!
Più che un irrazionale, Zhuang Zi è un antirazionalista: mette in dubbio che la ragione analitica possa mostrarci cosa è il mondo.
Un giorno, Zhuang Zi si addormentò in un parco: sognò di essere una bellissima farfalla. Vola di qua, vola di là, alla fine la farfalla, stanca, si addormentò. Anche la farfalla fece un sogno: sognò di essere Zhuang Zi. In quel momento Zhuang Zi si svegliò: ma non riusciva a capire se in quel momento era il vero Zhuang Zi o il Zhuang Zi che la farfalla aveva sognato. Non sapeva più se se era Zhuang Zi ad avere sognato di essere una farfalla, o se era una farfalla ad aver sognato di essere Zhuang Zi.
Qui il problema, per Zhuang Zi, è che non vi è propriamente alcun modo di sapere se colui che parla è in stato di veglia o di sogno, così come non vi è alcun modo di sapere se ciò che si pensa sia conoscenza o ignoranza.
Mentre sogniamo, non sappiamo di sognare, interpretando un sogno nel mezzo di un altro sogno, e soltanto al risveglio sappiamo di aver sognato. Malgrado ciò gli sciocchi si credono desti: voi e Confucio non fate che sognare, ed io che dico che sognate, sono io stesso un sogno.
Ma se Zhuang Zi sottolinea le proprietà autodissolventi del linguaggio, lo fa per ricusarlo totalmente, o in vista di qualcos’altro? In realtà sembra che Zhuang Zi pensi a qualcosa «al di là del linguaggio». Il linguaggio dunque va usato avendo ben chiara la sua limitatezza: è per questo che Zhuang Zi conclude:
«Colui che sa non parla, colui che parla non sa».
E ancora:
«La ragion d’essere della nassa è il pesce: una volta preso il pesce, si dimentica la nassa.
La ragion d’essere della trappola è la lepre: una volta presa la lepre, si dimentica la trappola.
La ragione delle parole è il senso: una volta afferrato il senso si dimenticano le parole.
Dove troverò l’uomo che sappia dimenticare le parole, per scambiare con lui due parole?»
Rimane il fatto che anche l’esperienza diretta intuitiva della realtà non può essere descritta verbalmente, essendo il nostro linguaggio sostanzialmente limitato: per risolvere questo problema sono state individuate diverse strade: il misticismo indiano presenta le sue affermazioni sotto forma di miti, servendosi di metafore, di simboli, di immagini poetiche, di similitudini, di allegorie. Il linguaggio mitico è molto meno condizionato dalla logica o dal senso comune: è pieno di situazioni magiche e suggestive, non è mai preciso. I mistici cinesi e giapponesi hanno trovato un modo diverso per affrontare il problema del linguaggio: invece del mito si servono del paradosso, proprio per mettere in luce le incongruenze che nascono nella comunicazione verbale.
Nel suo intento di radicalizzazione, il Lao Zi presenta delle tesi paradossali più forti del Zhuang Zi, che per lo più si limita a ironizzare sulla relatività delle cose. Invece della domanda «come so che ciò che chiamo “conoscenza” non è ignoranza? E come so che chiamo “ignoranza” non è conoscenza?», il Lao Zi afferma:
Non considerare il sapere come sapere è somma cosa
Considerare il non-sapere come sapere è una peste
(Lao Zi, 71)
Il paradosso del Lao Zi consiste nel prendere in contropiede determinate abitudini di pensiero: preferire il debole al forte, il non-agire all’agire, il femminile al maschile, il sotto al sopra, l’ignoranza alla conoscenza. Il Lao Zi parla di preferenza, non di considerare soltanto il debole escludendo il forte, in quanto le coppie di opposizione nel pensiero cinese non sono mai a carattere esclusivo ma complementare, poiché i contrari sono in relazione non già logica, bensì organica e ciclica, sul modello generativo della coppia yin/yang.
Zhuang Zi arriva ad elogiare l’inutilità:
Mentre attraversava una montagna,
Zhuang Zi vide un albero dai lunghi rami e dal fogliame rigoglioso.
Un boscaiolo che tagliava la legna lì vicino non toccava quell’albero.
Zhuang Zi gli chiese il perché «Perché la sua legna non è buona a nulla» rispose il boscaiolo.
«Grazie alla sua inutilità quest’albero giungerà al limite naturale della sua esistenza»
concluse Zhuang Zi.
(Zhuang Zi, XX)
Ma il paradosso più radicale consiste nell’affermare che il nulla ha più valore di qualcosa, il vuoto ha più valore del pieno:
Trenta raggi convergono nel mozzo
Ma è proprio dove non c’è nulla che sta l’utilità della ruota
Si plasma l’argilla per farne un recipiente
Ma è proprio dove non c’è nulla che sta l’utilità del recipiente
Si aprono porte e finestre per fare una stanza
Ma è dove non c’è nulla che sta l’utilità della stanza
Così il «c’è» presenta delle opportunità, che il «non c’è» trasforma in utilità
(Lao Zi,11)
Con Zhuang Zi si apre una nuova era della riflessione filosofica, incentrata sulla grande questione del rapporto tra l’uomo ed il Cielo (o il Dao). In proposito il Zhuang Zi condivide con il Lao Zi la medesima intuizione iniziale: il Dao è il corso naturale e spontaneo delle cose, che bisogna lasciare agire. Il solo essere a staccarsene è l’uomo, con la sua pretesa di sovrapporvi le proprie parole e le proprie azioni. La condizione primaria per la ricerca del Dao è di rendersi disponibili, di mettersi in ascolto, in modo da poter captare le sottili vibrazioni che ci giungono dalla natura, malgrado i rumori che le si sovrappongono.
Con la solita irriverenza, così Zhuang Zi si esprime a proposito:
Il Maestro Dong Guo domandò al Maestro Zhuang: «Dov’è ciò che chiamate il Dao?»
«Ovunque» disse Zhuang Zi.«Bisogna localizzarlo» riprese Dong Guo .
«In questa formica» disse il maestro Zhuang. «E più in basso?»
«In questo filo d’erba». « E più in basso ancora?»
«In questo letame» disse il Maestro Zhuang.
Il Maestro Dong Guo non aggiunse altro.
(Zhuang Zi,XXII)
Nella visione politica di Confucio, l’uomo di valore (junzi) è l’incarnazione di una terna di valori: apprendimento (xue), il senso dell’umanità (ren) e lo spirito rituale (li). Poiché la famiglia è percepita come una estensione dell’individuo, lo stato come una estensione della famiglia, e poiché il principe è rispetto ai suoi sudditi ciò che un padre è rispetto ai suoi figli, non vi è soluzione di continuità tra etica e politica. Confucio converte dunque l’autorità del principe nell’ascendente dell’uomo esemplare, allo stesso modo in cui il«decreto celeste» è convertito da mandato dinastico in missione morale. Il sovrano che, nell’ideale confuciano, incarna spontaneamente il ren, imponendosi con la benevolenza e non con la forza, possiede il 德 de. Anche questo termine, che viene abitualmente tradotto con «virtù», viene rivisitato da Confucio. Non è tanto la virtù in senso morale, in opposizione al vizio, quanto piuttosto la «virtus» latina intesa come ascendente naturale, carisma, che consente ad una persona di affermarsi senza nessuna coercizione.
Il credo politico di Confucio lo conduce così a definire un ordine di priorità che resta sorprendentemente attuale:
Zigong chiese:«Cosa significa governare?»
Il Maestro rispose:«Significa vigilare perché il popolo abbia cibo ed armi a sufficienza e assicurarsi la sua fiducia».
Zigong chiese ancora:«E se si dovesse fare a meno di una di queste tre cose, quale sarebbe?».
Il maestro rispose: «Sarebbero le armi».
L’altro chiese di nuovo:«E delle altre due quale sarebbe?».
Il maestro disse: «Sarebbe il cibo. In ogni epoca gli uomini sono stati sempre soggetti alla morte. ma un popolo privo di fiducia non sarebbe in grado di reggersi.» (Dialoghi XII,7)
L’esistenza di una teoria politica nel Lao Zi può sorprendere, se si fa riferimento ad una concezione largamente diffusa del taoismo come saggezza individuale. In effetti soltanto il Zhuang Zi si pronuncia per un deliberato disimpegno dalla politica, che nel Lao Zi rappresenta invece un aspetto primario della pratica del non-agire.
Confucio aveva detto:
«Governare (zheng) equivale ad essere nella rettitudine»
(Dialoghi XII,17)
Il motto politico di Lao Zi è:
«reggere un grande stato è come friggere i pesciolini»
(Lao Zi,60)
Quando si fa cuocere un pesciolino, non bisogna toccarlo e rivoltarlo, altrimenti si rischia si schiacciarlo: così non bisogna stancare il popolo con continui cambiamenti e amministrativi e nuove leggi. E Zhuang Zi incalza:
«Chi sa governare il mondo è come chi sa pascolare i cavalli.
Si limita ad allontanare dai suoi cavalli tutto ciò che potrebbe nuocere loro»
(Zhuang Zi, XXIV)
I taoisti non negano il rapporto dell’uomo con il mondo. Il Santo è colui che semplicemente riesce ad intrattenere tale rapporto senza lasciarsi «reificare dalle cose»: per Zhuang Zi si tratta di liberarsi, di svuotarsi del mondo, ma non per negarlo in nome della sua impermanenza, che è tematica squisitamente buddista. Fondendosi con il Dao, l’uomo ritrova invece il suo centro e non è più ferito da ciò che lo spirito umano considera abitualmente come sofferenza; declino, malattia, morte.
In mezzo ad un mondo che si perde, io solo cerco il vero cammino,
ma come riuscirò a trovarlo? So che è impossibile.
Ma so anche che se volessi costringerlo, questo mondo,
commetterei un errore in più.
Meglio lasciarlo qual è, senza cercare di stimolarlo,
e viverci in mezzo senza crucciarmi.
(Zhuang Zi, XII)
Le varie scuole taoiste sottolineano tutte l’unità fondamentale dell’universo che è la caratteristica principale del loro insegnamento: l’aspirazione più elevata dei loro seguaci è quella di diventare pienamente consapevoli dell’unità e della interconnessione reciproca di tutte le cose, di trascendere la nozione di sé come individuo singolo e di identificarsi con la realtà ultima. Il raggiungimento di questa consapevolezza, chiamata «illuminazione» non solo è un atto intellettuale, ma una esperienza che coinvolge l’intera persona ed è fondamentalmente di natura religiosa.
Il confucianesimo, invece, è la giustificazione razionale e l’espressione teorica sistema sociale cinese dell’epoca. Il confucianesimo, in quanto filosofia della organizzazione sociale e quindi della vita quotidiana, pone l’accento sulle responsabilità sociali dell’uomo. La sua filosofia parla solo di valori morali e non vuole entrare nella sfera del metafisico.
In realtà, come abbiamo visto, questa distinzione è solo strumentale: la filosofia cinese è di questo mondo ed insieme ultramondana. Le due correnti di pensiero, benché rivali, si completavano reciprocamente: è difficile, di fatto, fare una separazione netta tra loro: in ogni pensatore infatti, si realizza una certa compenetrazione dei due modi di vedere la realtà.
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Bibliografia
1) Anne Cheng “Storia del pensiero cinese” – Ed.Einaudi-2000.
2) Fung Yu-lan “Storia della filosofia cinese”- Ed. Mondadori –1990
3) John A.G. Roberts “Storia della Cina”- Ed. Il Mulino-2001
4) Jaques Gernet “La Cina Antica: dalle origini all’impero” – Ed. Luni – 1994
5) M.Sabattini, P.Santangelo “Storia della Cina” – Ed. Laterza – 2003
6) J.J.L. Duyvendak “Tao Te Ching” –Ed. Adelphi – 1990
7) Yuan Huaqing, Giorgio La Rosa “I Classici Confuciani”- Ed. Vallardi – 1995
8) “Zhuang-zi” – Ed. Adelphi – 1992
9) F. Capra “Il Tao della fisica” – Ed. Adelphi – 1990
10) M. Abbiati “La lingua cinese” –Ed. Cafoscarina – 1992
11) Alan W. Watts “Il Tao: la via dell’acqua che scorre” – Ed. Ubaldini – 1977
FONTE