Oggi inauguro questa nuova rubrica del mio blog/forum, nella quale raccoglierò massime e pensieri di illustri studiosi della materia apistica, con un particolare riferimento alla “Comunicazione tra api” nelle sue diverse forme.
Iniziamo con qualche pensiero di Raffaele Cirone, presidente della FAI, tratto dall’introduzione al testo di Giorgio Celli “La mente dell’ape, considerazioni tra etologia e filosofia”, Editrice Compositori:
1. La massa cerebrale di cui dispone un’ape è di un milione di neuroni. Una famiglia d’api raggiunge in media una popolazione di 50.000 unità. Sono cervelli articolati in una sofisticata rete neuronale capace di condividere conoscenze, trasferire esperienze, presiedere a scelte e attività di comune interesse. Globalmente quindi, lo sforzo collettivo volto alla sopravvivenza della specie, può contare su un numero di neuroni pari a metà di quelli in dote a ogni essere umano. (Raffaele Cirone)
2. Darwin definì il cervello dell’ape “una delle più meravigliose molecole al mondo”. (Raffaele Cirone)
3. Gli insetti abitano il pianeta da 300 milioni di anni, reperti fossili attestano un progenitore dell’ape 40 milioni di anni fa. Le api da miele hanno iniziato il loro cammino evolutivo 25 milioni di anni fa. L’uomo ha fatto la sua comparsa sul palcoscenico della storia 2 milioni di anni fa. (Raffaele Cirone)
4. Le progenitrici dell’Apis Mellifera si sono sviluppate sugli areali dell’Himalaya e da qui si sono distribuite in tutto il mondo grazie alle straordinarie capacità di adattamento. Quest’ape, infatti, risponde agli estremi climatici nidificando in cavità protette, vivendo in cavità numerose e capaci di autoregolare le temperature, costruendo più favi allineati tra loro che diventano solido magazzino di scorte alimentari e sicura culla per le nasciture. E’ anche un’ape che perfeziona al meglio -dandoci così prova di grande intelligenza- i sistemi di comunicazione all’interno delle proprie colonie. Messaggi sensati, coreografie danzanti codificate in una sorta di linguaggio universale e comune a tutte le razze di api, tali da far comprendere alle compagne dove sia il cibo, quanto lontano e in che direzione si trovi rispetto alla grotta o alla cavità arborea scelta come casa. Indizi, preziosi esempi per il pavido e ancora inesperto progenitore degli umani che guarda, prende spunto, emula e impara a fare altrettanto: ripararsi, aggregarsi, costruire, difendersi con oggetti a punta. Testimonianza le pitture rupestri datate 30.000 anni fa che rappresentano “domatori di api” e “cacciatori di miele”. (Raffaele Cirone)
5. La parola stessa “ape”, il suo percorso etimologico, ha qualcosa di affascinante che non trova immediati e scontati riscontri altrove: “ape”, espressione della quale per secoli si è ignorata la provenienza fino a quando, nel 1940, il filologo Giovanni Semeraro prova che essa non è certo figlia del latino “apis”. Occorre invece risalire all’accadico, antica lingua di matrice assiro-babilonese, per dare un senso compiuto a quella parola che oggi, mutata dal latino, classifica ovunque nel mondo l’ape. “Apu, che sta a intendere “punta” o “spina”, insieme ad “Appu” che indica “insetto”, sono i più antichi progenitori di ape. Espressioni eloquenti di ciò che l’ape è nella sua morfologica evidenza: un insetto, con un pungiglione i cui effetti sono equivalenti a quelli di una spina. Fatale e coincidente la derivazione geografica, contestualizzata in un territorio culla di civiltà, prossimo a quello di origine dell’Apis Mellifera. Imprinting lessicale e georeferenziato, risalente a 7000 e più anni fa. (Raffaele Cirone)

6. Le api vedono tutti i colori, ma non il rosso. In surplus, però, vedono l’ultravioletto. In tal modo, per esempio i prati che sono verdi, all’ape appaiono di un grigio spento sul quale i fiori acquistano una meravigliosa evidenza. Qualcuno si chiederà perchè le api visitano i fiori di papavero: si è accertato che i petali del papavero sono degli specchi efficientissimi dell’ultravioletto e così le api sono attratte da un sorta di aurora boreale che noi non vediamo. (Giorgio Celli)
7. Come sapete la puntura di un’ape è facilmente distinguibile da quella di una vespa. L’ape ha lo stiletto dentellato che funziona come un vero e proprio arpione, penetrando nella pelle elastica di un mammifero. Dopo aver colpito l’insetto vorrebbe fuggire per evitare rappresaglie della vittima, ma l’aculeo, ruotando su se stesso, si aggancia durevolmente alla pelle perforata e l’ape finisce per lacerarsi l’addome negli sforzi di estrarlo, lasciando il suo bisturi infisso nella ferita. Quindi se vi punge un’ape, provvedete subito a rimuoverlo, perchè la ghiandola velenifera è restata connessa all’arma e continua a pompare veleno. Nelle vespe l’aggressione non equivale a un suicidio perchè il loro stiletto è liscio e va dentro e fuori dalla ferita con facilità. (Giorgio Celli)
8. Le api posseggono una forma di comunicazione molto efficiente che può venire elevata al rango di un linguaggio vero e proprio. Si tratta di un linguaggio gestuale e, più precisamente, di una danza dove i coreogrammi sostituiscono le parole. Questa danza era stata osservata fin dai tempi più remoti: Aristotele la interpreta come una manifestazione di esaltazione e di invito al bottinamento. Nel 1788 un sacerdote dedito all’apicoltura, certo Spitzer, costruì un’arnia con la parete di vetro per osservare la misteriosa danza e darne un’interpretazione che sfiora la verità senza centrarla. Anch’egli la interpreta come una manifestazione di entusiasmo di un’ape che ha scoperto un campo fiorito e avverte genericamente le compagne. La verità nel 1901 viene nuovamente sfiorata da uno scrittore belga, Maurice Maeterlinck, che vincerà il premio nobel dieci anni più tardi per la sua opera letteraria in cui mescola tasselli di poesia visionaria e informazioni scientifiche. Attuati degli esperimenti con scarsi risultati, risolve la questione come una metafora: decide che esiste un fantomatico “spirito dell’alveare” che governerebbe tutte le operazioni che segnano la vita delle api. Per cui l’arnia diventa un piccolo palcoscenico di un teatro naturale, popolato di esseri che danno vita ad uno spettacolo ora gioioso ora tragico. Nel 1919 affronta la problematica un ricercatore geniale dotato delle conoscenze e della pazienza che mancavano a Maeterlinck: Karl von Frisch. (Giorgio Celli)
9. Von Frisch accerta che esistono due tipi di danza: la danza circolare, o in tondo, e la danza dell’addome, detta anche danza a otto o scodinzolante. Quando la bottinatrice rientra nell’alveare esegue sul favo una danza dopodichè distribuisce una gocciolina del nettare raccolto alle compagne che ne fanno richiesta, quindi si invola per riprendere il bottinamento. I primi risultati lo portano a dedurre che la danza in tondo viene effettuata dalle bottinatrici di nettare e quella dell’addome dalle bottinatrici di polline. Teoria che sarà negli anni seguenti confutata dai ricercatori americani. (Giorgio Celli)
10. Nel 1942, una collaboratrice di von Frisch, certa Ruth Bentler, confermò le osservazioni degli americani e indusse il proprio maestro a rivedere la propria posizione in merito. Nel 1947 von Frisch diede alle stampe il risultato delle sue ricerche, annunciando al mondo che aveva decifrato la stele di Rosetta del linguaggio delle api. Risultò così che la danza in tondo era effettuata da api che avevano trovato del nettare o del polline in prossimità dell’alveare, tra i 5 e gli 80 metri secondo la specie e la razza presa in esame. La danza dell’addome, o scodinzolante o a otto, era a carico delle bottinatrici che avevano reperito una sorgente alimentare a più di 40-100metri dall’alveare. Von Frisch decifrò perfino cosa le api con queste coreogrammi si dicessero tra loro. La bottinatrice che danza in tondo comunica un’informazione generica che suona più o meno “c’è del cibo negli immediati dintorni dell’alveare”. Le compagne allertate e rese edotte escono dall’arnia e si mettono a volare in circoli sempre più ampi finchè si imbattono nel paese di Bengodi annunciato. Nel caso di danza a otto le cose si complicano e si manifestano i rudimenti di un linguaggio in piena regola. La danza permette di comunicare alle compagne il punto in cui la sorgente alimentare, indifferentemente nettare o polline, è localizzata, considerando il punto intermedio della linea immaginaria che collega l’azimut solare (la proiezione del sole sull’orizzonte), la bottinatrice e il tratto rettilineo tra i due emicicli. (Giorgio Celli)
Il disegno sotto riportato illustra quanto decritto.
11. Nella danza a otto oltre alla direzione l’ape comunica anche la distanza del luogo di raccolta. La bottinatrice, al rientro nell’arnia, danza tanto più velocemente quanto più vicina è la sorgente alimentare. Per cui il numero di evoluzioni, in unità convenzionale di tempo, diminuisce con il crescere della distanza. Anche gli scodinzolamenti partecipano a questa informazione ma, mentre il numero di giravolte è inversamente proporzionale alla distanza, il numero di scodinzolamenti per unità di tempo cresce ed è quindi direttamente proporzionale. Da evidenziare che durante la corsa lungo il tratto rettilineo l’ape emette anche un suono prodotto dalla contrazione rapida dei muscoli alari e consiste in esplosioni di trenta salve per una trentina di secondi che un tempo si credeva indicassero la ricchezza in zucchero della sorgente alimentare, ma ora si sa partecipano all’informazione sulla distanza. Mentre l’ape danza, una delle compagne che la seguono può emettere un suono secco e breve: la danzatrice si arresta e distribuisce alla questuante una gocciolina di nettare. (Giorgio Celli)
12. Il linguaggio delle api presenta dei dialetti e cioè delle piccole variazioni secondo le razze. Per esempio nell’apis mellifera ligustica (la nostra) ogni scodinzolamento equivale a 20 metri, mentre nella a. m. carnica, l’ape tedesca, a 45 metri e nell’a. m. lamarckii, l’ape egiziana, a 12 metri. Anche le distanze necessarie perchè la danza in tondo si converta in quella a otto sono diverse secondo le razze: la ligustica passa dalla prima alla seconda su distanze del cibo di 15 metri, la carnica persiste nella danza in tondo sino a 80 metri. L’indicazione della distanza è affetta da numerose imperfezioni, per esempio la danza a otto, pur così complessa, non riesce a comunicare l’altezza di una sorgente alimentare, dando per scontato che sia reperibile al livello del suolo. (Giorgio Celli)
13. Come fa a calcolare la distanza l’ape? Von Frisch ha pensato che l’insetto fosse in grado di tradurre in metri l’energia consumata nel volo secondo il principio “più fatica, più dispendio energetico, più distanza” per provare questa ipotesi ha incollato sull’addome delle api piccoli oggetti metallici così da aumentare il peso dell’insetto e l’attrito con il vento durante il volo, ottenendo risultati eloquenti. Cinquant’anni dopo però altri ricercatori tramite un esperimento consistente nel far transitare le bottinatrici di ritorno all’alveare dentro un tunnel sulle cui pareti erano state dipinte ricche costellazioni di immagini, sono riusciti a dimostrare che l’ape sia molto sensibile nell’orientarsi ai punti di riferimento terrestri, i cosiddetti “landmark”, e che le ricchezze delle percezioni visive durante il ritorno dia la misura della distanza: più cose viste più lungo il percorso. (Giorgio Celli)
14. Uno dei requisiti, spesso segnalati come deficienze del linguaggio dell’ape, è di presentarsi fisso, atto ad indicare una sola cosa: la sorgente alimentare. Non è così, la stessa danza serve per indicare nettare, polline, acqua, propoli e soprattutto la localizzazione di un uovo insediamento. Quando l’ape sciama, un fenomeno che vede migrare la vecchia regina e una parte del suo popolo e che si verifica quando le nuove aspiranti al trono stanno per uscire dalle cellette di allevamento e una di esse è destinata a prendere possesso, monarca assoluta, dell’alveare. Lo sciame migrante si invola e spesso va a appendersi ad un ramo d’albero. A quel punto delle api esploratrici si dirigono verso tutti i punti del territorio per trovare un nuovo insediamento. Al ritorno le esploratrici che hanno trovato una possibile terra di Canaan per il popolo errante si mettono a danzare, intraprendendo una specie di dibattito elettorale, nel senso che ognuna fa propaganda alla sua scoperta. Alla fine quella che danza più a lungo la vince sulle altre ed è stato osservato che l’insediamento prescelto è quasi sempre il migliore per ampiezza, facilità di accesso e sicurezza. E’ anche stato osservato che a pari qualità viene scelto l’insediamento più lontano: la maggior fatica sarà compensata dal fatto di mettere a disposizione della nuova società un’area di bottinamento più vasta e non sovrapposta a quella dell’alveare d’origine. (Giorgio Celli)
15. C’è forse una scuola nell’alveare? Per la danza esiste forse una componente di apprendimento? Si sa che le bottinatrici esordienti non volano subito alla ricerca dei luoghi di raccolta: prima osservano a lungo le api esperte che si esibiscono sul favo. Si sa inoltre che le novizie uscite in campo sono meno brave delle veterane nell’interpretare le informazioni trasmesse dalla danza e diventano sempre più competenti con il tempo. Pinker in un suo saggio di grande interesse risponde alla domanda con l’analisi del genoma degli organismi pertanto vi è predisposizione all’apprendimento e alla riscoperta di informazioni celate nel dna. (Giorgio Celli)
16. Il linguaggio delle api lingue e dialetti a confronto (Giorgio Celli)
17. Due specie di api l’a. florea a l’a. dorsata eseguono le loro danze in pieno sole in silenzio, le altre specie vivono invece in un alveare posto in qualche cavità e quindi danzano pressochè al buio. In tal caso lo scodinzolamento è accompagnato da delle salve di suoni che non sono, come diceva von Frisch, delle manifestazioni di “enfasi”, ma che contribuiscono d informare le api sulla distanza del cibo. La svalutazione dei suoni nel linguaggio delle api può essere stato dovuto al fatto che per molto tempo si è pensato che le api fossero sorde. Molti apicoltori ne sono ancora convinti. Invece si è scoperto che le antenne, oltre ad essere sede di recettori sensoriali del gusto, dell’olfatto e del tatto, lo sono anche del suono. Le antenne funzionano un poco come un diapason e si sa che la base, rispetto al flagello, più lungo e flessibile, vibrano a diverse frequenze di suoni: la base a frequenze attorno ai 10 hertz, il flagello a frequenze tra i 240 e i 300 hertz. (Giorgio Celli)
18. Nell’esame del linguaggio delle api è importante accennare al fatto che, oltre alle informazioni fornite dalla danza e dai suoni che la sussidiano, quando l’ape rientra nell’alveare porta con sè l’odore dei fiori visitati, così aggiunge questa informazione molecolare per le compagne. Tanto più che l’ape è solita marcare la sorgente alimentare con il secreto di una ghiandola che si trova all’estremità del suo addome e che è altrimenti nota come la ghiandola di Nassonov. (Giorgio Celli)
19. Esperimento di Gould. Per capire la sua esperienza dobbiamo ricordare che l’occhio dell’ape non è come il nostro a camera, una sorta di macchina fotografica in miniatura, ma un occhio composto, un insieme di elementi ottici simili detti ommatidi, paragonabili ad un rudimentale televisore. Aggiungiamo che oltre all’occhio composto, l’ape presenta tre occhi semplici, detti ocelli, disposti a triangolo sul capo e che non sono capaci di percepire immagini, ma che contribuiscono a rendere l’ape più sensibile alla luce. Lo scienziato ha verniciato questi occelli, rendendoli opachi: le bottinatrici escono così dall’arnia più tardi al mattino e rientrano più presto la sera, per loro il sole nasce più tardi e tramonta prima. Nella comunicazione di queste api con le compagne dell’arnia si è verificato così quello che potremmo definire l’effetto “torre di Babele”: le api normale e le altre hanno cominciato a parlare due lingue diverse. (Giorgio Celli)
20. L’ape-robot di Michelsen ha posto davvero la parola fine sulla controversia dell’esistenza di un linguaggio tra api, lasciandoci in eredità un insetto che è abilitato, unico tra tutti gli animali, a intraprendere una conversazione con noi. L’ape tecnologica di Michelsen si è valsa di una raffinata progettazione meccanica ed elettronica culminata in un piccolo oggetto simile ad una bottinatrice che ha la possibilità di muovere le ali, di scodinzolare, di emettere suoni e, mediante una pompetta contraibile, delle goccioline di miele. L’ape-robot è stata in grado di comunicare per la prima volta con le api, facendole andare alle coppelle indicate dalla simulazione meccanica della danza: è la prima volta nella storia della scienza, ce un uomo riesce a farsi capire, nel senso più ampio del termine, da un insetto. E non sono così più ammessi dubbi sul fatto che la danza sia una lingua. (Giorgio Celli)
21. Ernest Cassirer, il grande filosofo europeo, aveva definito l’uomo un animale simbolico. Sembrava fosse il solo a possedere questa virtù, von Frisch ha dimostrato che anche l’ape, questa piccola creatura, è in grado di buttare sul tappeto della sopravvivenza qualche suo credito simbolico. (Giorgio Celli)
22. Se gli odori, si pensi al profumo dei fiori, rivestono un’importanza cruciale nella vita delle api, la percezione visiva non è da meno. Le api sono cieche al rosso e i fiori di questo colore sono visitati dalle farfalle, che lo vedono, oppure in Sud America dai colibrì, i cosiddetti uccelli mosca. Nell’ape il numero degli ommatidi (singolo elemento dell’occhio) è differente secondo le diverse funzioni.L’occhio della regina è composto da 3.500 ommatidi, mentre quello delle operaie ne ha 4.500 e nei fuchi questi salgono a 7.500. L’organo denuncia le esigenze di una divisione del lavoro: la regina resta per gran parte della sua vita nel buio dell’alveare, le operaie a fine carriera escono a bottinare ed i fuchi devono fare il grande volo dietro alla regina e vederla mentre si muove come un piccolo punto nero sull’orizzonte, così da poterla raggiungere. Ci vede meglio chi ne ha più bisogno. (Giorgio Celli)
23. L’ape predilige e riconosce tra figure a stella, o con varie insenature, da altre a contorni più lineari. D’altra parte non esistono fiori quadrati o triangolari e possiamo supporre che le figure frastagliate evochino un fiore e che la preferenza sia in larga misura istintiva. La riprova di quanto detto è confermata dal fatto che se all’uscita dell’arnia in cerca di fiori l’ape predilige le forme frastagliate al rientro, carica di nettare e polline, inverte la preferenza e gradisce forme semplici come il tondo del pertugio dell’entrata dell’alveare. Se l’ape dipingesse forse sarebbe cubista! (Giorgio Celli)
24. L’ape ha una notevole capacità di orientarsi cominciamo con il dire che, come gli antichi navigatori, l’ape ha il sole come bussola, non il sole nel cielo, ma il suo azimut, la sia posizione sulla linea orizzontale. In principio si era pensato che fosse proprio il sole a costituire l’ago magnetico del volo dell’ape, ma recenti studi hanno dimostrato che, come guidata da un invisibile filo di Arianna, l’ape segue la luce polarizzata del cielo e più precisamente quella della banda dell’ultravioletto che il nostro insetto percepisce benissimo attraverso delle cellule presenti nei suoi ommatidi. L’ape è sensibile ai diversi livelli di polarizzazione del cielo e se ne vale come bussola per orientarsi nel suo va e vieni dall’arnia. Però il sole nel suo movimento apparente, attraversa il cielo cambiando posizione secondo l’ora del giorno. A quanto pare l’ape è in grado di calcolare lo spostamento del sole ed effettuare la correzione al fine di mantenere inalterato il suo viaggio di andata e ritorno. (Giorgio Celli)
25. Negli ultimi decenni del secolo appena passato Gould ha sostenuto che le api sono in possesso di una mappa cognitiva e che la impiegano nel dirigere i loro voli. Ha osservato che quando l’ape vola su territorio all’andata immagazzini certe immagini, un albero, un palo della luce, un campanile e al ritorno faccia coincidere queste immagini immagazzinate, con le cose incontrate nel suo percorso e la sovrapposizione costituirebbe una sorta di filo di Arianna filmico. Come se l’ape utilizzasse una moviola facendola scorrere in un senso al’andata e nell’altro al ritorno. Punti elevati sull’orizzonte e singoli oggetti molto visibili nel paesaggio influenzano fortemente l’ape nel tracciare i suoi percorsi: come fosse attratta da una forza di gravità percettiva è dimostrato come decida di allungare anche notevolmente le traiettorie per avere riferimenti precisi. (Giorgio Celli)
26. Oltre ad una memoria dei luoghi è dimostrato che nelle api i ricordi sono strettamente associati a una possibilità di calcolare il tempo. Esperimenti a fine ‘800 dello scienziato Augusto Forel (ripetuti da Celli) dimostrano che le api sono dotate di un preciso orologio interno: educate a una distribuzione di cibo a una specifica ora le api memorizzano luogo e orario e lo trasmettono alla memoria dell’intera arnia generazione dopo generazione. Ciò dimostra che le api sono dotate di due memorie diverse: una a breve termine e un’altra a lungo termine. Sembra che la prima dia legata a risultanze esclusivamente neurologiche, mentre la seconda alla sintesi di certe proteine. Alcuni ricercatori hanno notato con sorpresa che i meccanismi della memoria sembrano molto simili nell’uomo e nell’ape, a ulteriore conferma di una loro segreta e imprevedibile specularità con noi. (Giorgio Celli)
27. L’ape è in grado o no di generalizzare? Il problema è di ordine filosofico ed è stato posto per la prima volta da Platone. Per rispondere a questo quesito il ricercatore Giurfa nel 2004 ha costruito un congegno formato da un corridoio di accesso ad una piccola camera dalla quale partono altri due corridoi che in fondo, eventualmente, possono ospitare un’offerta di cibo. Sull’entrata del corridoio di accesso viene collocato un segnale, per esempio di colore blu. Colore che viene replicato solo sulla porta d’accesso alla stanza con il premio. Ben presto l’ape capisce che il cibo sarà reperibile solo nel corridoio che porta lo stesso segnale visto all’entrata. Il risultato non cambia se sostituiamo il colore blu con linee o simboli. Dunque l’ape sembra in grado di confermare Platone! Lo stesso Giurfa afferma che sempre più ci si rende conto di come le dimensioni del cervello non abbiano l’importanza che si pensava un tempo per le manifestazioni di comportamenti cognitivi. Bisogna ricominciare a studiare gli invertebrati senza dare quel peso all’istinto che forse ci ha impedito di vedere come stanno veramente le cose. Gli scimpanzè e i delfini pensano? Perchè no anche le api? (Giorgio Celli)