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Aria condizionata, in ufficio fa litigare 7 colleghi su 10

Il condizionatore porta scompiglio negli ambienti di lavoro dove d’estate sono soprattutto le donne a soffrire. Il motivo? Sono regolati sul metabolismo basale degli uomini, dicono gli scienziati
C’E’ chi la vuole sempre accesa e chi non si rassegna. Difficile mettersi d’accordo sull’aria condizionata, soprattutto in ufficio. L’estate porta ogni anno scompiglio quando si tratta di regolare il termostato in cerca di un po’ di sollievo contro la calura. E a farne le spese sono soprattutto i colleghi: 7 su 10 arrivano a litigare sulla questione, senza venirne a capo. La conferma arriva da un’indagine promossa da Found!, condotta su circa 2500 lavoratori/dipendenti, tra uomini e donne di età compresa tra i 25 e i 65 anni, realizzato con metodologia Woa (Web opinion analysis) attraverso un monitoraggio online sui principali social network, blog, forum e community dedicate, per scoprire quali sono le principali problematiche che nascono negli ambienti di lavoro.
In particolare sono le donne (75%) a soffrire l’accensione dei climatizzatori e la scienza ne ha svelato il motivo. Secondo lo studio condotto dal dottor Boris Kingma della Maastricht University Medical Centre infatti, la temperatura degli edifici viene calcolata sul metabolismo basale (Basal metabolic rate – BMR) di un uomo medio. Per questo motivo il gentil sesso si affida a cardigan (29%), giacchette (25%) e sciarpe (21%) per contrastare le temperature “glaciali” del posto di lavoro. Un problematica approfondita dal quotidiano brintannico The Daily Telegraph, che ha definito persino “sessista” la presa di posizione da parte di alcuni uomini sull’argomento.
Donne, ma anche uomini insofferenti, che nell’arco della giornata si lamentano in media una volta alla mattina e una al pomeriggio nel 42% dei casi, almeno 4 volte al giorno nel 38% e non meno di 2 volte al giorno nel 35%. C’è persino chi non si stanca di lamentarsi durante tutto l’arco della giornata (5%).
Il 65% dei lavoratori, per fare notare che qualcosa non va, comincia a indossare gradualmente, uno dietro l’altro, capi d’abbigliamento sempre più pesanti, con l’aggiunta di sciarpe o foulard. Anche se a volte basta solo uno sguardo di comprensione (56%) per capire cosa ne pensano. E se questi escamotage non bastono, il 52% inizia a sbuffare, un metodo classico per segnalare indirettamente che qualcosa non va.
Ma se il clima fa discutere durante la bella stagione, il secondo motivo che crea tensioni in ufficio è il fatto di non andare d’accordo con il capo (65%), con i colleghi (58%) o dover condividere spazi stretti (49%), che limitano i movimenti.
Cinque le regole suggerite dagli autori della ricerca per convivere meglio in ufficio, con o senza aria condizionata:
1) E’ importante sostenere il bene comune di un gruppo e mettere in secondo piano i bisogni personali. Questo non vuol dire rinunciare ad un bisogno, ma condividere la problematica e trovare una soluzione condivisa;
2) Una delle regole più importanti per convivere con un problema è imparare a subirlo, ma solo in parte, per trovare la soluzione più giusta ed eliminarlo. Per questo motivo il grado di sopportazione personale deve essere allenato;
3) Se qualcuno soffre più di un altro l’aria condizionata, l’importante è non trovarsi nella postazione sbagliata. Avere l’aria puntata contro può essere molto fastidioso: la soluzione ideale è scegliere un posto al riparo dal gelo;
4) Quando è ora di spegnere l’aria condizionata e affrontare l’aria torrida di una bella giornata, cibi freschi e ricchi d’acqua sono un toccasana per il corpo. Non risolvono nell’immediato il problema, ma aiutano a sopportare meglio il caldo;
5) Trovarsi a ridosso della finestra può sembrare uno svantaggio, ma diventa un vantaggio se si riesce a sfruttare le giornate ventilate.
Basta avere uno spiraglio d’aria puntato contro, con le persiane a filtrare i raggi di sole, per affrontare con le giuste armi l’afa.
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Scarpa stringata o tacco alto così si vince la sfida in ufficio

Il look e il modo di muoversi, compresi i piccoli tic, sono l’espressione della nostra personalità. In un libro che esce oggi, un’esperta di body language spiega a uomini e donne come “fare centro”
PIU’ efficace di mille parole. Più rapido di uno starnuto. Definire il giudizio su chi ci sta di fronte, soprattutto in ufficio, è questione di secondi. Anzi, di un decimo di secondo. Gli elementi che contribuiscono a promuovere o bocciare il vicino di banco, il capo, o il nuovo arrivato sono infiniti: taglio dei capelli, colore degli abiti, modello di scarpe, grandezza della borsa, fantasia della cravatta. A documentare quei processi mentali, che precedono i giudizi lampo, è un libro: “Hai le scarpe giuste per chiedere un aumento?”, di Judi James una delle maggiori esperte inglesi in Body language (in libreria da oggi).
Le sorprese sono infinite. Come i migliori feticisti sanno, sono soprattutto le scarpe a parlare di noi. Biglietto da visita più completo di un profilo su Facebook, le calzature rivelano pensieri espliciti ma anche segretissimi. Le donne con il tacco plateau, nuovo mantra delle petit ma non solo, puntano a sovrastare l’uomo ed hanno una mania di controllo. Chi invece indossa scarpe comode, soprattutto se in sala riunioni, è destinata a perdere nel duello con la collega dal tacco a spillo perché, quest’ultima, dimostra di non temere il sacrificio nella scalata al potere.
Anche le calzature maschili possono sorprendere: le stringate sono scelte da chi ha una natura meticolosa, un intellettuale o uno stratega. Chi predilige il mocassino è un “maschio alfa” pigro, dal fascino scimmiesco, che non perde tempo con le stringhe e delega la fatica. Chi indossa gli scarponcini in
camoscio preferisce aggirare le regole ma, spesso, non è destinato a fare carriera. Il colore dei capelli non lascia dubbi: le bionde, solitamente le prime ad essere ammirate, sono però ritenute infantili e innocenti. Alle brune è riconosciuta più intelligenza e decisione. Non solo. Il 71%, informa James, guadagna più delle rivali dai colori nordici.
Per gli uomini, a sorpresa, il tanto vituperato “riportino” svela un carattere combattente e i colleghi devono sapere che, chi prova a tagliare la strada a colui che si attacca con tenacia ai pochi capelli rimasti, non avrà vita facile. Attenzione, poi, ai gesti involontari. Toccarsi i capelli è un rito autoconsolatorio, il piede metronomo impone all’interlocutore un ritmo rapido e denuncia segni d’impazienza. Mangiucchiare una penna in un cda, invece, costituisce un errore fatale perché denuncia distrazione. Chi gioca con gli occhiali tende ad estraniarsi e, se non ascoltato, minaccia gli altri d’esclusione. Risultato? Ci troviamo vicino ad un maniaco del controllo.
Anche la borsa, come la psicanalisi insegna, svela parecchi tratti del sé femminile. Chi ne sceglie una con molte tasche, non è ben organizzata ed è una vittima dello stress. La tracolla dimostra un approccio pratico alla vita mentre, chi possiede un’ordinatissima pochette, ha manie di autodisciplina. L’uomo con lo zaino, invece, coniuga i tratti dell’alpinista con quelli dell’impiegato. Anche il colore della camicia maschile è rivelatore: chi la sceglie bianca merita fiducia, così come chi abbina la camicia azzurra alla cravatta bordeaux. Quanto c’è del vero in questi ritratti? Secondo Giovanni Scibilia, sociologo e studioso di consumi: “L’immagine è sempre più importante anche se non si riduce ad un singolo elemento ma all’insieme delle cose, a come s’indossano e al fisico”. “L’importante è non cadere nel mimo”, precisa Scibilia, “se non si porta mai la cravatta inutile indossarla per un colloquio, si rischia di essere smascherati. Il maglione alla Marchionne, per esempio, se lo può permettere lui solo perché è Marchionne”.
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Usa: SENO procace LICENZIAMENTO sicuro – Dedicato alle ragazze che meditano il ricorso alla mastoplastica additiva

Proco è la parola di oggi: è il pretendente alla mano di una donna. L’unico, frequente utilizzo che se ne conosca in lingua italiana è riferito ai Proci dell’Odissea, capeggiati da Antinoo, principi di Itaca che aspiravano alla mano della tetragona Penelope, consorte di Ulisse. Da proco deriva il verbo ‘procari’, ‘domandare, esigere con sfacciataggine’; e sempre da proco discende l’aggettivo PROCACE che sarebbe riferito più all’atteggiamento di una persona che alla conturbante avvenenza di una parte del corpo; infatti, la comune radice di entrambe le parole è -tenetevi forte!- ‘preghiera’ dalla radice ‘prex’. Tant’è che il pretendente finisce per rivolgere preghiere sempre più insistenti nel manifestare le proprie intenzioni. Lo stalking ancor non esisteva al tempo dell’ignoto autore (questione omerica). Il vocabolo ‘seno’ deriva abbastanza chiaramente da golfo, insenatura, piega della veste, lembo rigonfio, anche se l’etimologia vera rimane oscura. Il significato vira su ventre materno nel passaggio dal latino all’italiano: “Benedictus fructus ventris tui” recita l’Ave Maria, poi tradotta in “Benedetto il frutto del tuo seno”. E’ interessante seguire l’INCUBAZIONE dei vocaboli: le parole sono vive e nulla è lasciato al caso. Attualmente i più capienti serbatoi di neologismi sono la tv, i media in genere e l’informatica, che hanno soppiantato i letterati nel conio del linguaggio. Se il Presidente della Camera, On. Gianfranco FINI, avrà successo nella sua operazione politica che sta ponendo fine ad un’era (parola da cui a propria volta deriva erario), ben presto avremo giocoforza “fiellini” per definire gli appartenenti a “Futuro e Libertà”, al momento relegati in un equivoco “futuristi”, che equivarrebbe a seguaci del movimento artistico-letterario di cui padre fu Filippo Tommaso MARINETTI. Un’altra caratteristica del linguaggio dev’esser la chiarezza: prima era la “Lega Nord” per non creare equivoci usando la sola parola “Lega”; ora ch’è il più antico partito italiano per consunzione degli altri, tutti capiscono che ci si riferisce al movimento creato dall’Umberto BOSSI. Ogni giorno nasce qualche vocabolo nuovo, mentre altri cadono nella desuetudine e, quindi, pian piano muoiono. Ma poi accade che rinascano. Nella lingua parlata ‘procace’ assume un univoco riferimento: ad una parte reificata del corpo femminile (ed invece era riferito in origine alla persona-uomo che domanda la mano di una fanciulla), per lo più il seno formoso, abbondante, che, a tacer del richiamo sessuale, nell’inconscio maschile lascia immaginare che quella donna un dì sarà un’ottima nutrice per la prole. In fin dei conti unica, animalesca ragione dell’attrazione uomo-donna è la finalità della riproduzione, tant’è che la vecchiaia (al momento l’età massima raggiunta è 122 anni e spiccioli) è, per così dire, un’invenzione moderna correlata al progresso: l’uomo è stato creato per campare quei cinquant’anni che coincidono più o meno con l’età fertile della donna. Che, però, quella donna che ha in dono un seno abbondante e, per l’appunto, procace sia esposta per tale sua caratteristica ad un licenziamento lo apprendiamo dalla realtà statunitense di oggi. Accade in Florida alla Deveraux Foundation, azienda sanitaria di Orlando, “The City Beautiful”, capoluogo della Contea di Orange: Amy-Erin BLAKELY non è certo una nuova bomba-sexy, ma una donna di 44 anni, pare capace e preparata, che occupa un ruolo dirigenziale per sei anni ed un brutto giorno viene licenziata perché ha il seno troppo grande. Le misure eccessive distraggono i colleghi uomini nelle riunioni di lavoro. Ora sarà una Corte a giudicare il licenziamento in tronco. “A difendere la quarantatreenne -ricorda il “Corriere della Sera online”- sarà Gloria ALLRED, noto avvocato americano che recentemente ha avuto come cliente Rachel Uchitel, una delle presunte amanti di Tiger Woods”. La Blakely in conferenza stampa rimarca di non avere mai indossato abiti particolarmente attillati e provocanti evitando, in particolare, scollature profonde. L’Azienda respinge in blocco le accuse e ricorda che in ditta più della metà degli alti dirigenti è donna. Il 6 giu ’10 Studio Cataldi si occupò dell’analogo caso di Lorenzana, dipendente della City Group di ceppo portoricano parimenti licenziata perché troppo sexy. Dedico questa news a tutte le ragazze che non si piacciono dalla cintola in sù e meditano di sottoporsi ad un intervento di mastoplastica additiva. Lasciate stare! Investite semmai tempo e danaro nel Vostro sapere, viaggiate, leggete, studiate, fatevi un’idea compiuta del concetto di legalità e di democrazia e prendetelo a modello-guida, vivete con curiosità e fregatevene altamente se il vostro CORPO non corrisponde al modello di bellezza ora imperante; comprendo che non avrete mai l’ebbrezza di essere chiamate schedine, grechine, letterine, veline, bensì DONNE: persone apprezzate da chi Vi merita, da chi si accorgerà della Vostra competenza ed abilità, della Vostra preparazione, della Vostra tenacia e della Vostra abnegazione, della Vostra maturità mentale e fisica. E non sarete elementi decorativi, da cambiare quando non servite più. Quando la moda cambia e ritorna la donna grissino e poi di nuovo quella tutta tette. Avete fatto caso che in tv i volti delle donne mature non ritoccate sono stati banditi? Gli uomini, poi, sono sempre in abito completo e cravatta, le donne, che potrebbero essere le loro figlie o anche nipoti, sono pressoché nude, di cornice. I commenti degli attempati signori, anche quando vorrebbero atteggiarsi a gentiluomini, sono del tipo Foro Boario e mercato del bestiame. Andatevi invece a prendere una foto dell’astrofisica Margherita Hack ventenne, atletica, slanciata, plastica, bella, quand’era una promessa dell’atletica. Ma quanto rimane straordinariamente interessante oggi, a distanza di più di sessant’anni: è il suo cervello, la sua umanità, la sua parola che sono straordinari e da fuori si percepiscono eccome. Stesso discorso vale per Rita Levi Montalcini. O per Carla Fracci e Sara Simeoni: datevi questi modelli, non ve ne pentirete, nessuno vi butterà mai via come se foste cosificate, UMILIATE nel reggiseno debordante e nelle labbra gonfie di silicone. Fidatevi. Ne va del Vostro DIRITTO a non far da cornice agli uomini. Tra l’altro, sono arcisicuro che un innesto vigoroso di donne nelle Istituzioni di questo sfibrato Paese farebbe precipitare il tasso di corruzione e di corruttibilità. Ricordate Renzo ARBORE con le sue Ragazze Coccodè, con Miss Nord e Miss Sud? Che precursore con la sua satira graffiante e l’umorismo divertentissimo. Aveva detto tutto nel 1987 (mi pare che l’idea gli germogliò in testa il 7 giu ’87). Diceva “Nannarella” MAGNANI al truccatore che stava per coprirle le rughe: “Lasciamele tutte, non me ne togliere nemmeno una, ci ho messo una vita a farmele”.
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Lo “STRAINING” : manifestazione attenuata del Mobbing e delitto di maltrattamenti in famiglia.

Dott. Maurizio Tarantino – Cassazione Penale n. 28603 del 03 luglio 2013 – La prima sentenza della S.C. ad aver trattato il tema del mobbing risale al 1999 (Cass. 19.1.1999, n. 475). Da allora la sezione lavoro ha avuto modo di pronunciarsi più volte sul punto (si vedano ex pl. Cass. 10.1.2012, n. 87, Cass. 31.5.2011, n. 12048 e Cass. 17.2.2009, n. 3705), tanto che oggi è finalmente possibile delineare quelli che sono i presupposti che il lavoratore ha l’onere di allegare e provare affinchè possa legittimamente pretendere ed ottenere il risarcimento del danno da parte del datore di lavoro.
Tali presupposti sono:
– la molteplicità dei comportamenti di carattere vessatorio, illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente;
– la sistematicità e la protrazione nel tempo di tali comportamenti;
– l’intento, la volontà diretta alla persecuzione o all’emarginazione del lavoratore (cfr. anche Cass. 21 maggio 2011, n. 12048; Cass. 26 marzo 2010, n. 7382, Trib. Torino 5.5.2011, n. 1398);
– l’evento lesivo della salute o della personalità del lavoratore;
– il nesso di causa tra la condotta ed il pregiudizio.
Particolare rilevanza ha la dimostrazione dell’intento persecutorio posto in essere dal mobber, tanto che, secondo l’orientamento che può dirsi unanime in giurisprudenza, il fenomeno mobbing non può sussistere senza la dimostrazione di una precisa e determinata volontà finalizzata a perseguitare.
Orbene, premesso tutto quanto innanzi esposto, si evidenzia che l’art. 2103 cod. civ. afferma il principio di contrattualità delle mansioni: tale disposizione, così come novellata dall’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. statuto dei lavoratori), stabilisce, infatti, che «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. […]. Ogni patto contrario è nullo».
Dunque, il potere del datore (c.d. ius variandi) di modificare in modo unilaterale le mansioni del lavoratore risulta sotanzialmente sottoposto a due condizioni:
a) che le mansioni siano, non già identiche, bensì equivalenti a quelle da ultimo svolte o, se invece superiori, successivamente acquisite;
b) che la retribuzione da ultimo corrisposta o acquisita non venga a subire alcuna diminuzione.
L’art. 2103 cod. civ. disciplina, quindi, l’esercizio del potere datoriale di gestire le risorse umane all’interno dell’azienda preoccupandosi, a tale scopo, di fissare un requisito minimo di legittimità del mutamento delle mansioni del lavoratore, con l’inequivoca statuizione che i nuovi e diversi compiti devono essere – per lo meno – equivalenti a quelli per i quali questo è stato assunto ovvero, se questi hanno già subito una modificazione, a quelli da ultimo effettivamente svolti.
Ciò premesso, occorre rilevare che la nozione di equivalenza impiegata dal legislatore ha un carattere aperto, indicando di per sé un criterio relazionale generico tra mansioni di provenienza e mansioni di destinazione.
Vero è che sia la dottrina che la giurisprudenza individuano il criterio di valore sul quale modellare il giudizio di equivalenza nella dignità professionale del lavoratore, tuttavia, i contenuti ed i caratteri costitutivi della dignità professionale non hanno contorni precisi e vanno letti in concreto, in stretto rapporto con i dati ambientali del fenomeno regolato.
Ebbene, nel caso prospettato, la Corte di Cassazione sez. penale con la sentenza n. 28603 del 03 luglio 2013 interviene sul tema del mobbing qualificando i comportamenti ed episodi di emarginazione come : una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo.
Per parlare di straining è dunque sufficiente una singola azione stressante cui seguano effetti negativi duraturi nel tempo (come nel caso di gravissimo demansionamento o di svuotamento di mansioni). La vittima è in persistente inferiorità rispetto alla persona che attua lo straining (strainer).
La pronuncia in esame, ha riconosciuto ad un dipendente di banca, relegato a lavorare in uno «sgabuzzino, spoglio e sporco», con «mansioni dequalificanti» e «meramente esecutive e ripetitive» comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni di autonomia decisionale a ruoli di “bassa e/o nessuna autonomia”, e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l’attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni da lui espletate.
La Corte puntualizza che, nonostante la situazione del dipendente rappresenti un fatto astrattamente riconducibile alla nozione di “mobbing”, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, nel caso di specie si tratta di “straining”.
Infatti secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare (intesa come relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti).
La variazione di tale rapporto, avuto riguardo alla ratìo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poichè è soltanto nel contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti
Per tali motivi, gli Ermellini hanno stabilito che, nel delitto di cui all’art. 572 cod. pen. rientrino non soltanto percosse, minacce, ingiurie, privazioni imposte alla vittima, ma anche atti di scherno, disprezzo, umiliazione ed asservimento idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali alla vittima.
Ne consegue che deve essere il giudice di merito ad accertare se i singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti, oppure integrino ipotesi criminose autonomamente volute dall’agente e, pertanto, concorrenti con il delitto di cui all’art. 572 cod. pen .
Dott. Maurizio Tarantino
Fonte: (StudioCataldi.it)


Le chiacchiere sul lavoro? Sono utili alla carriera

Contrariamente ad alcuni luoghi comuni le donne tenderebbero a essere meno loquaci degli uomini in ufficio. Ma in realtà essere efficienti non basta e passare i classici cinque minuti alla macchinetta del caffè aiuta a farsi conoscere e benvolere
Le chiacchiere sul lavoro? Sono utili alla carriera Le chiacchiere con i colleghi fanno una grande differenza per la carriera, specie per quella femminile. A lanciare il sasso è un articolo del Financial Times secondo cui chiacchierare sul posto di lavoro serve ad avanzare a livello professionale, magari in modo indiretto, ma serve. Si potrebbe pensare che le donne siano dunque in una botte di ferro, considerato che il luogo comune le vuole tradizionalmente più votate al gossip e alla conversazione rispetto agli uomini. A ben vedere però non è proprio così: secondo il libro “The Female Mind” di Louann Brizendine le donne pronunciano circa 20.000 parole al giorno a fronte delle 7.000 degli uomini, ma ci sono altri studi che confutano questa teoria affermando che entrambi i sessi pronunciano circa 12.000 parole al giorno.
Donne meno chiacchierone degli uomini
Secondo l’articolo del Financial Times, ci sono diversi elementi che sono intervenuti negli ultimi anni sui luoghi di lavoro e che hanno modificato lo scenario comunicativo, rendendo gli uomini più propensi del sesso femminile alla conversazione nei momenti di pausa.
“In genere si tende a pensare che le donne siano più chiacchierone degli uomini, anche in ufficio, ma ci sono diverse ricerche che sostengono invece che non è così. Anzi ritengo che ci sia una propensione a parlare meno rispetto al sesso maschile”, conferma Barbara Poggio, sociologa e delegata dell’università di Trento per le pari opportunità. Ma come mai le donne tendono a essere più silenziose al lavoro rispetto a quanto non si creda?
“Da un lato hanno meno tempo e cercano quindi di concentrarsi completamente sulle proprie mansioni negli orari d’ufficio”. L’obiettivo è infatti essere molto efficienti in modo da terminare il proprio lavoro in tempo e poter così equilibrare la propria carriera con le incombenze domestiche e familiari. “In secondo luogo, forse permane la tendenza a voler fare tante cose, per cui la chiacchiera viene percepita come tempo perso”, aggiunge l’esperta. Molte donne professioniste, infatti, evitano le chiacchiere in ufficio perché le considerano una distrazione e un lusso. Limitandosi nei momenti di pausa a consumare uno spuntino alla scrivania mentre continuano a lavorare al computer o usando la pausa pranzo per sbrigare questioni pratiche, come fare la spesa al supermercato. Aggiungeteci un’altra ragione: spesso le donne continuano a risentire di una pressione sociale a livello psicologico che le spinge a dover dimostrare di essere serie e motivate sul lavoro. Ecco perché molte rifuggono dalle chiacchiere perché considerate dannose per la propria immagine professionale.
“In più sono cambiati i modelli di lavoro, con le tecnologie che sono diventate più centrali e questo porta ciascuno a passare molto più tempo a contatto con lo schermo del computer”, osserva Poggio. Spesso poi le donne preferiscono in genere parlare con altre persone del proprio sesso, anche per maggiori interessi in comune, ma spesso negli uffici a prevalere numericamente sono gli uomini.
Parlare poco fa male alla carriera
Tanta efficienza, però, non sembra giovare alla carriera femminile. Tanto che, sempre il Financial Times, riporta la testimonianza di una giovane dipendente di una media company presa da parte dal capo alla quale è stato detto che, sebbene il suo lavoro fosse del tutto soddisfacente, c’era comunque un problema: la scarsa propensione alla chiacchiera. “Oggi l’ambito emozionale riveste una maggior centralità nei contesti di lavoro”, spiega Poggio. “Le relazioni interpersonali e la capacità di entrare in contatto con gli altri sono sempre più essenziali. Stanno inoltre acquisendo importanza i network e quindi fare chiacchiera anche con le persone che non si conoscono serve a fare rete. Il bar, la macchinetta del caffè sono i luoghi dove ci si ritrova e sono contesti informali dove passano un sacco di informazioni utili”.
Morale della favola, anche se non bisogna eccedere, trovare cinque minuti per conversare alla macchina del caffè serve a farsi conoscere e apprezzare e a entrare nei network aziendali. Alle small talks, come le chiamano gli inglesi, ci si dovrebbe per questo dedicare con la stessa attenzione e cura che si riserva al lavoro, impiegando una certa quantità di tempo della giornata alle conversazioni alla macchinetta del caffè. Come insegna il libro “Secretaries’ talks”, in cui le chiacchiere delle segretarie si rivelano fondamentali per il successo dei capi, non sarà di certo tempo perso.
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Troppo belle per la leadership?

Secondo gli esperti sarebbero molte le trappole dell’avvenenza per le donne in posizioni apicali
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Essere belle, oppure attraenti sembrerebbe un traguardo distorto che viene più o meno auspicato ovunque dagli standard sociali e professionali. Ma ci sono campi e posizioni nelle quali essa è piuttosto da considerarsi come un’arma a doppio taglio. Per esempio quando una donna è a capo di un’azienda, oppure in ruolo di alta rappresentanza, deve stare molto attenta a come gestisce il proprio potere seduttivo.
Almeno secondo un pool di esperti che da Nord a Sud, lancia un allarme sugli effetti negativi di un look considerato comunque come eccessivo, o fuori contesto, rispetto alla cultura aziendale. Secondo Selena Rezvani, autrice di Pushback, e consulente per l’immagine femminile, è importante che le donne trovino un equilibrio tra: “L’espressione della propria femminilità ma non la propria forzata enfasi”. Un equilibrio sottile che molti studi hanno cercato di chiarire con precisione, ma senza successo. Per esempio una ricerca condotta da Procter & Gamble, ha provato a capire l’impatto del colore dei capelli sulla percezione di qualità come leadership e affidabilità.
É emerso che il grigio dona di certo autorevolezza in alcuni casi, mentre nei restanti è associato a un’idea di personalità piuttosto stantia e seriosa. Al contrario, molte donne di potere bionde, hanno cambiato la propria sfumatura chiara in favore di una tonalità più scura. E per quanto riguarda l’abbigliamento? Anche qui è una questione di equilibrio. L’importante, sempre secondo gli esperti, è uniformarsi allo stile della propria cultura aziendale, innovandola con un briciolo di originalità. Per esempio uno di questi trend è ben incarnato da Marissa Mayer, CEO di Yahoo. Nonostante la cultura geek del mondo hi-tech imponga uno stile casual a tutti gli appartenenti al settore, la manager ha sempre cercato di mantenere un’aria chic. E i risultati, si vedono.
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Licenziato chi dice troppe parolacce

Confermato dalla Cassazione il licenziamento di una commessa che in pausa pranzo usava un linguaggio sboccato con le colleghe
di Marina Crisafi – Confermato ieri dalla Cassazione (sentenza n. 3380/2017 qui sotto allegata) il licenziamento per giusta causa inflitto ad una commessa bolognese, ritenuta colpevole dell’uso di un linguaggio sboccato e ricco di parolacce durante la pausa pranzo con le colleghe. La donna era stata richiamata più volte dal direttore del negozio per il quale lavorava ma il comportamento si era protratto ed era arrivata la massima sanzione.
Senza successo la commessa si rivolgeva ai giudici di merito che confermavano la legittimità del licenziamento. E a nulla valgono le sue doglianze neanche di fronte al Palazzaccio. Secondo i difensori della donna il comportamento non era di gravità tale da ledere il vincolo fiduciario. E non poteva certo pretendersi che “ai lavoratori dipendenti nei momenti della pausa di lavoro sia inibito un linguaggio adoperato normalmente da persone della stessa estrazione sociale, della stessa cultura e accomunate dalla familiarità che subentra in conseguenza di un lavoro quotidiano in uno spazio ristretto nell’azienda in cui operano”.
Ma per gli Ermellini il ricorso è inammissibile e la sentenza d’appello non contiene nessun vizio motivazionale con riferimento al fatto storico consistente nella condotta tenuta dalla lavoratrice. Per cui, licenziamento confermato e donna condannata anche a pagare oltre 3mila euro per le spese processuali.
Cassazione, sentenza n. 3380/2017
Fonte: (www.StudioCataldi.it)