Le origini della parolaccia sono antichissime. Risalgono agli uomini primitivi, che sfogavano la propria rabbia usando termini proibiti (come i nomi dei morti).
Nonostante sia ufficialmente e tendenzialmente una pratica disapprovata, dire le parolacce può essere liberatorio e, nell’uso comune, un modo di esprimersi colorito è molto utile per comunicare un concetto in maniera tanto immediata quanto semplice. Questi alcuni dei motivi capaci di giustificare una diffusione capillare del turpiloquio nel linguaggio di tutti i giorni.
La società civile non contempla l’uso della violenza fisica. In questo contesto la parolaccia diventa un sostituto in grado di scaricare l’aggressività che si accumula, trasformandosi in una sorta di arma.
La parolaccia è utile per dare maggior peso ai termini a cui è associata, regalando enfasi al discorso.
Uno dei poteri delle espressioni più triviali è di suscitare ilarità in svariate occasioni. Proprio per questo diversi comici ne fanno abbondantemente uso.
Chi perde la memoria solitamente non dimentica le parolacce, perché vengono memorizzate nell’emisfero destro del cervello.
Il turpiloquio può migliorare l’autostima, in quanto offre una sensazione di ribellione quando lo si utilizza in una situazione spiacevole.
Una recente ricerca pubblicata su Social Psychological and Personality Science, sostiene che una persona che impreca appare più onesta, poiché l’impressione è che stia comunicando la sua opinione senza filtri.
Secondo uno studio pubblicato su Language Sciences, chi usa molte parolacce ha solitamente una padronanza di linguaggio superiore alla media.
Uno dei motivi per cui alcuni bambini indulgono nel turpiloquio, nonostante le generali raccomandazioni dei genitori, è che un linguaggio più colorito regala l’illusione di essere “grandi”.
Sono diversi i letterati che nei secoli hanno utilizzato parole non proprio gentili nelle loro opere. L’esempio migliore può essere il “sommo poeta” Dante, che nella Divina Commedia, in più occasioni, si concede delle “licenze”.
In tempi più recenti, sono le canzoni a contenere nei loro testi numerose parolacce. Una ricerca sulla musica leggera ha evidenziato che il genere con più frequenza di turpiloquio è il rap, seguito dall’heavy metal e dalla musica elettronica.
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Chi impreca è più affidabile. Lo studio che legittima l’irriverenza
Parolacce e imprecazioni, considerate socialmente inaccettabili, sono indice di onestà e trasparenza. Almeno secondo lo studio internazionale “Frankly, we do give a damn: The relationship between profanity and honesty”, che sarà pubblicato sulla rivista scientifica Psychological and Personality Science. Secondo i ricercatori delle università di Hong Kong, Stanford, Cambridge e Maastricht esiste un legame positivo tra l’uso di un linguaggio irriverente e l’onestà della persona. Ovvero chi usa abitualmente parolacce, maledizioni, termini volgari e offensivi è più sincero, e quindi più affidabile, di chi cerca di controllare il proprio linguaggio. Una conclusione a cui i ricercatori sono giunti analizzando il rapporto imprecazioni-onestà sotto tre aspetti: a livello individuale (esaminando 276 persone), nel linguaggio usato sui social network (controllando ben 73.789 utenti) e a livello sociale. Stando a quanto dichiarato all’Independent da David Stilwell, co-autore dello studio, “se filtri il linguaggio, probabilmente, filtrerai anche i contenuti. E anziché dire ciò che pensi, dirai ciò che gli altri vogliono sentire. Chi non frena la lingua, e impreca, dice davvero ciò che pensa e, dal suo punto di vista, è più sincero”
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