Le divinità delle società moderne puniscono il peccato e promuovono la virtù. Quando le comunità erano più piccole non era così: ecco il motivo
“Saranno riunite davanti a Lui tutte le genti, ed Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla Sua destra e i capri alla sinistra”. È così che Matteo descrive il giudizio finale cui tutti, secondo la religione cattolica, saremo sottoposti “quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria”. Un Dio che, dunque, separerà i buoni dai cattivi, premiando i primi e destinando i secondi alla dannazione eterna.
La figura della divinità moralizzatrice non è tipica del solo cattolicesimo. È un tratto comune a quasi tutte le religioni delle grandi società moderne; ma, come ha appena fatto notare Lizzie Wade in un pezzo pubblicato su Science, non è sempre stato così. “Per la maggior parte della storia dell’umanità”, scrive la giornalista, “le divinità moralizzatrici sono state l’eccezione. I nostri antenati concepivano in realtà le divinità come assolutamente indifferenti agli esseri umani e al loro comportamento buono o cattivo”.
Wade fa riferimento, in particolare, a un libro pubblicato dallo psicologo Ara Norenzayan, della University of British Columbia di Vancouver, dal titolo “Big Gods: How Religion Transformed Cooperation and Conflict”, in cui si espone la tesi secondo la quale le divinità moralizzatrici sarebbero “emerse” di pari passo alla crescita (demografica e sociale) delle comunità umane, sostanzialmente per ragioni economiche e culurali.
Un dio che giudica il comportamento umano, secondo Norenzayan, è stato “necessario” per “rinforzare le norme sociali: non solo può vedere dove ti trovi e come ti comporti, ma è addirittura dentro la tua mente”. Le divinità moralizzatrici avrebbero aiutato religioni diversissime tra loro, come per esempio l’Islam e il mormonismo, a diffondersi, favorendo la compattazione dei gruppi sociali e dunque l’efficienza delle comunità. In altre parole: l’idea di un dio onnipresente, giudice inappellabile, di cui aver paura, ha catalizzato la coesione delle comunità sociali, favorendone la sopravvivenza e lo sviluppo.
Per dimostrare questa tesi, Norenzayan ha condotto diversi studi. In una ricerca del 2007, pubblicata su Psychological Science, diede a un gruppo di volontari 10 dollari a testa, chiedendo a ciascuno di decidere autonomamente quanto denaro dare a un estraneo e quanto tenerne per sé: i soggetti appartenenti a un gruppo di controllo elargivano, in media, poco meno di due dollari a testa; quelli appartenenti a un gruppo in cui la richiesta di ridistribuire il denaro era rinforzata da motivazioni religiose ne davano, in media, più di quattro dollari.
L’esperimento è stato ripetuto tre anni più tardi con gli agricoltori di una tribù della Papua Nuova Guinea e ha dato gli stessi risultati. Il che ha convinto Norenzayan che esista “un’intima connessione tra divinità moralizzatrici e comportamento prosociale”, cioè attenzione ai bisogni della comunità prima che ai propri, e che tale connessione possa spiegare l’evoluzione delle religioni.
In società più piccole, invece, il comportamento prosociale non dipende dalla religione: “La tribù degli Hadza”, spiega Wade, “un gruppo di cacciatori-raccoglitori africani, non crede nell’aldilà, per esempio, e le sue divinità (sole e luna) sono indifferenti rispetto alle azioni umane. Eppure è una comunità molto compatta e cooperativa”. Perché, secondo Norenzayan, “in comunità così piccole non serve una forza sovrannaturale per incoraggiare questo comportamento, dal momento che ognuno conosce intimamente tutti gli altri: se qualcuno ruba o mente, lo sapranno subito tutti, e nessuno sarà più disposto a cooperare con il malfattore”.
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