Ricopio integralmente questo articolo dal BLOG di Riccardo Maggiolo per riproporlo periodicamente agli Esploratori Erranti. Condivido i concetti espressi e apprezzo la gradevolissima forma espositiva. Spero che i valori di cui è portatore lo scritto attecchiscano nel cuore di sempre più umani.

Siamo diversi. Il patrimonio genetico conta. Dove nasci conta. Il genere conta. Ma continuiamo a confondere uguaglianza con equità

“Celebrate Humanity” è stato lo slogan – per chi scrive, azzeccatissimo – dei Giochi olimpici. Che anche quest’anno, in questa particolarissima edizione, si stanno concludendo. Due settimane di competizioni intense, esaltanti, non di rado al limite delle capacità umane. Gare che hanno regalato enormi gioie e profonde delusioni; grandi storie di riscatto e momenti di forte sconforto; ma sempre con una costante: il rispetto, la comunanza, la condivisione, il sentirsi tutti parte di una comunità. Lo spirito olimpico, lo chiamano.

Le Olimpiadi sono forse il più fortunato esperimento di “universalismo”: da oltre un secolo consentono all’essere umano di inscenare un evento che tanto alimenta la competizione quanto rinsalda la fratellanza; sia stimola al miglioramento individuale che promuove la pace tra i popoli; da una parte rinsalda lo spirito patriottico e dall’altra restituisce un’idea di comune appartenenza al genere umano. Dal momento che questa pare la sfida principale per l’umanità per gli anni a venire – cioè gestire la globalizzazione, il progressivo sgretolarsi dei confini, senza innescare spirali di conflitto che, date le attuali tecnologie, potrebbero sfociare in scenari apocalittici – forse dovremmo spendere qualche minuto a cercare di capire come i Giochi olimpici riescono in questo piccolo miracolo.

Forse la chiave è questa: che le Olimpiadi ci sbattono in faccia, con tutta l’evidenza possibile, una verità che non vogliamo vedere. Che siamo diversi. Che il patrimonio genetico conta. Che dove nasci conta. Che il genere conta. Che la fortuna conta. Che noi possiamo – e dobbiamo – celebrare la determinazione, la costanza, il sacrificio, la dedizione; ma che, alla fine, se sei maschio correrai mediamente più veloce di una femmina; se sei caraibico sarai mediamente più veloce di un sudamericano; se sei nato in un Paese ricco dove lo sport è sostenuto e praticato sarai avvantaggiato; se sei il migliore di tutti ma la mattina della gara ti viene la febbre o ti giri una caviglia, non potrai vincere.

A pensarci bene, è proprio questo il perno attorno a cui gira tanta parte del dibattito politico e culturale degli ultimi anni – anzi, forse decenni o persino secoli: se siamo uguali oppure no. Si pensi a uno dei dibattiti più accesi ultimamente: quello sul genere. La pretesa che donne e uomini siano fisicamente diversi solo dal collo in giù, e che – praticamente unica tra tutte le specie animali – l’essere umano non presenti differenze comportamentali di genere è un controsenso biologico. Se milioni di anni passati le une perlopiù a tenere in grembo e accudire figli e gli altri perlopiù a procurarsi risorse in ambiente ostile non avessero prodotto qualche adattamento fisico e comportamentale dovremmo buttare via Darwin.

Se gli uomini vanno più forte nello sport delle donne è perché per milioni di anni hanno rincorso prede nelle foreste e nelle savane. Se nelle scuole dell’infanzia le insegnanti sono quasi tutte donne è perché per milioni di anni hanno accudito bambini. Quasi una banalità, ma che non vogliamo sentire. Certo, questo non vuol dire che nel modellare il comportamento umano non intervengano fattori sociali e culturali – che peraltro negli esseri umani sono particolarmente potenti. E certo, se il sottoscritto dovesse fare una gara di velocità con Elaine Thompson-Herah ne uscirebbe umiliato. Ma non si può negare che ci siano differenze biologiche tra i generi, e che queste implichino anche differenze comportamentali e persino cerebrali che mediamente – mediamente! – portano gli uomini a eccellere in alcune discipline e le donne in altre.

Se si buttano dei giocattoli a delle scimmie, le femmine tenderanno a giocare più con le bambole e i maschi con i camioncini. E nei Paesi scandinavi – tra i più avanzati al mondo sia culturalmente che da un punto di vista legislativo sulla parità di genere – si osserva il cosiddetto “Nordic Paradox”: donne e uomini scelgono ancora di più lavori “tipici” del loro genere che in Paesi meno liberi. Negare che ci sia anche – anche! – una differenza biologica che determina diversi comportamenti tra generi è un’illusione che rischia di far rientrare dalla finestra il problema che stiamo cercando di espellere dalla porta. E anzi, di aumentarlo. Perché rinforza quello che è il vero retaggio dannoso del patriarcato: la diffusa e  profonda convinzione che il lavoro di cura, quello “amorevole” più che “appassionato”, quello più tipicamente femminile, sia sub-lavoro.

Lo si è visto bene, per esempio, anche nella storia di Eseosa Fostine Desalu, staffettista della 4×100 maschile e medaglia d’oro olimpica, e di sua madre, badante. Fausto (così dice di voler essere chiamato) ha raccontato quanti sacrifici ha fatto sua madre per crescerlo, e la signora ha rinunciato a un’apparizione televisiva perché non voleva abbandonare il suo posto di lavoro, lasciando sola la persona che aveva in cura. Nei giorni scorsi questa bella storia è stata rilanciata, e ovviamente con merito e ottime intenzioni Fausto e sua madre sono stati riempiti di complimenti. Ma non sfuggiva qua e là un sottinteso: che la madre di Fausto fosse “solo” una badante; che da un’umilissima lavoratrice della cura fosse venuto fuori niente meno che un campione olimpico.

Ecco, questo è forse il punto: che non accettando la diversità finiamo per imporre gli stessi standard, le stesse ambizioni, gli stessi modelli culturali per tutti; che nel tentativo di dare a tutti gli stessi mezzi e le stesse condizioni di partenza, finiamo per non accorgerci che questo non elimina le differenze innate; anzi. Insomma, che confondiamo l’uguaglianza con l’equità. Pensiamo che per vivere in pace e prosperità dovremmo tutti volere le stesse cose, e che i risultati che otteniamo siano indicatori fedeli del merito. Finiamo così per esempio per spingere le donne ad ambire a ruoli “maschili” invece che nobilitare anche e soprattutto quelli più tipicamente femminili. Oppure, finiamo per pensare che lo sport sia un vero ascensore sociale – quando solo uno su centinaia di migliaia diventa olimpionico; e peraltro oggigiorno spesso non riesce a vivere neanche di quello.

Le Olimpiadi devono il suo successo anche alla formula della narrazione – forse la più antica e potente tecnologia mai creata dall’essere umano. Cioè mettono in risalto epiche personali in cui un individuo si erge al di sopra di difficoltà enormi per ricevere gloria e onori. In queste Olimpiadi è stato per esempio il caso della tuffatrice Quan Hongchan, quattordicenne di famiglia poverissima che spera ora di poter curare la madre; o di Artur Naifonov e Zaurbek Sidakov, sopravvissuti alla strage di Beslan e ora campioni olimpici. Queste narrazioni incantano le masse e stimolano gli individui a impegnarsi, ma non dovrebbero autorizzarci a pensare che le eccezioni possano essere regola; che onori e successi si possano ottenere solo con l’impegno e la dedizione, facendo finta di non sapere che le circostanze sia di partenza che di percorso hanno un ruolo decisivo se non preponderante.

Non è negando le differenze che si raggiunge la pace, ma celebrandole. Non è tanto esaltando il vincitore e infuocando la competizione che si migliorano le prestazioni individuali e collettive, ma onorando lo sforzo e lasciando ognuno perseguire l’attività che più gli permette di esprimersi come essere umano, a prescindere da soldi e attenzioni. Questo sembrano dirci i Giochi olimpici. E poi, festeggiare insieme – ché “celebrate” in inglese vuol dire anche questo.

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