Potrebbe essere confusa con la sindrome del cuore spezzato. Ma in realtà è qualcosa di più. Colpisce infatti chi si sente solo un perdente, chi non ha più nulla di buono da aspettarsi nella vita, chi ha perso ogni tipo di desiderio. Ma porta alla morte. Secondo John Leach, docente di psicologia all’Università di Portsmouth, Usa, è una morte che arriva non perché si è ammalati, ma perché, semplicemente, si molla il colpo. Viene chiamata morte psicogenica.

In uno studio appena pubblicato su Science Direct viene descritta come una condizione in cui le persone sviluppano una apatia estrema, una perdita delle speranze, la non voglia di vivere, nonostante non siano presenti cause organiche. Se il processo che porta lasciare ogni presa sulla vita non viene arrestato, la morte arriva di solito in circa 3 settimane dopo che si è iniziato a “ritirarsi”. E’ una sorta di deterioramento psicologico progressivo che porta però a un risultato definitivo sul nostro corpo.

In realtà la scienza sta sempre più scoprendo i legami tra i nostri stati mentali e fisici. Numerosi studi hanno notato relazioni tra il nostro pessimismo, o la poca voglia di vivere e l’incidenza di alcune patologie.

Ma nel caso della morte psicogenica non ci sono effetti secondari, non vengono innestati disturbi specifici. Un caso molto noto, ma anche molto dibattuto, è quello di Debbie Reynolds, la madre dell’eroina di Star Wars Carrie Fisher che morì d’infarto durante un volo nel 2016. Reynolds morì il giorno dopo per quello che venne definito un ictus, ma in molti, compreso il figlio Todd Fisher dissero che si era invece spenta perché non voleva vivere senza la figlia.

La sindrome del cuore spezzato in effetti esiste: si tratta della cardiomiopatia da stress caratterizzata da una disfunzione del ventricolo sinistro, di solito transitoria, che si manifesta con sintomi che possono simulare una sindrome coronarica acuta. Non è però un vero e proprio attacco di cuore.
La morte psicogenica però non viene preceduta da questi sintomi. Interviene quando, dopo aver subito uno shock, la persona sente di non avere vie di fuga e ritiene che la morte sia l’unica opzione. Non ha a che fare neppure con il suicidio, perché non viene attivata coscientemente. Non è neppure legata alla depressione, una malattia con la quale si può invece convivere per decenni. Si tratta di un evento che arriva quando si decide profondamente che procedere non ha più nessun senso.
La ricerca ha indagato anche sulle cause: il deterioramento potrebbe nascere da una malfunzionamento che si verifica nella corteccia cingolata anteriore. Questa parte del nostro cervello è la responsabile delle motivazioni e controlla il comportamento che permette il raggiungimento degli obbiettivi.
La morte sopraggiunge dopo che si sono superati cinque stadi.
Il primo è l’isolamento sociale. In seguito a un brutto episodio le persone si ritirano in se stesse e diventano svogliate e indifferenti alle emozioni, in una parola passive. E’ uno stato che spesso si ritrova nei carcerati. E’ un meccanismo di difesa, un modo per sottrarsi alla battaglia. In teoria dovrebbe portare a una stabilità emotiva, mentre invece purtroppo produce effetti contrari.
Il secondo è l’apatia, una morte simbolica. Si tratta di una melanconia demoralizzante, molto diversa dalla frustrazione o dalla tristezza. E’ stata riscontrata in prigionieri di guerra e in chi è sopravvissuto ad affondamenti in nave o aerei caduti. In pratica chi la prova non è più interessato a combattere per la propria sopravvivenza, diventa trasandato, non si lava, non tiene pulita la casa, non riesce a fare neppure il più piccolo sforzo.
Il terzo viene definito come abulia. E’ una mancanza totale di motivazioni associata a una riduzione delle risposte emotive. Rende impossibile prendere decisioni e iniziativa. In questa situazione è difficile parlare e anche svolgere le piccole azioni quotidiane, compreso il mangiare. Si è persa ogni intenzione, la capacità di desiderare, di prendersi cura di se stessi. Ma si può ancora essere motivati da altri, anche se a volte sono necessari metodi forti. L’abulia è uno stato in cui la mente sembra vuota e la coscienza inesistente. Non ci sono pensieri. La mente sembra essere diventata una poltiglia.
Il quarto livello viene chiamato acinesia psichica, ovvero una ulteriore riduzione della motivazione all’essere. La persona è ingolfata in un profondo stato di apatia al punto da diventare insensibile perfino al dolore. Nella pubblicazione dello psicologo viene descritta una donna che si è scottata gravemente al sole, solo perché non trovava una scusa per proteggersi. La persona è cosciente ma inconsapevole di quello che le accade, spesso è incontinente, ma nega la sua condizione. Leach racconta anche che alle persone detenute nei campi di concentramento nazista che erano prossime a morire, veniva chiesto se volevano fumare una sigaretta. Negli altri momenti le sigarette erano un bene prezioso, di scambio, che serviva ad avere cibo e altri beni. Ma se un prigioniero in un momento qualsiasi se ne accendeva una, significava che c’era qualcosa, che aveva perso la fiducia in ogni cosa. Di solito questa fase dura 3-4 giorni e poi porta al quinto livello.
L’ultima, detta morte psicogenica, corrisponde al momento  in cui la voglia di vivere è completamente andata e porta alla disintegrazione. A volte, poco prima, compare un desiderio, un guizzo, e si fa qualcosa che porta piacere. Ma è solo l’ultimo fuoco artificiale. Poi si tira l’ultimo respiro.
Fortunatamente questo processo non è inevitabile. Se chi soffre non viene lasciato solo, si può intervenire per fermare i vari passi. Attività fisica obbligata e organizzazione della quotidianità possono invertire la situazione. E’ importante che la persona possa rendersi conto della sua situazione e riprendere il controllo con strumenti, anche semplici. Sesso, cibo buono, acqua, bevande, ma anche sostanze stupefacenti lievi, e anche l’ascolto della musica, permettono il rilascio di dopamina, che riporta motivazione, senso di ricompensa, buon umore e attenzione.
Ci sono già tante cause di morte, tanto vale evitare quella procurata da noi stessi.
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“Morte psicogenica”, scoperta la malattia letale senza sintomi: tre settimane e sei morto

È una nuova malattia che non ha un agente patogeno, ma è letale e conduce al decesso. È stata chiamata la “Morte Psicogenica”, ed è un fine vita che arriva senza alcuna morbilità evidente o manifesta, senza alcuna compromissione d’organo, che porta a morte in tre settimane, non perché si è ammalati, ma semplicemente perché non si ha più nessuna voglia di vivere.
Colpisce quelle persone che, dopo uno shock psicologico, drammatico e traumatico, restano appunto scioccati, non reagiscono e non combattono, non riescono a superarlo e improvvisamene sviluppano una apatia estrema, e si lasciano andare, mollano il colpo, abbandonandosi ad un processo che, se non viene contrastato, fa fermare per sempre un cuore sano in meno di un mese.

Clinicamente spesso è confusa con “la sindrome del cuore spezzato”, che è una morbilità riconosciuta che insorge nei soggetti più fragili non accettano la fine di un amore importante, o un lutto improvviso ed irrimediabile, ma che è tutt’altra malattia, perché queste persone sviluppano una vera e propria miocardiopatia da stress, di solito transitoria che si manifesta con sintomi che possono simulare una sindrome coronarica acuta, e che produce aritmie e infarti coronarici, al punto che tali pazienti a volte periscono di crepacuore.

Ma nel caso della ‘morte psicogena’ non ci sono prodromi, non ci sono sintomi fisici, non ci sono alterazioni e tutti gli esami radiologici e di laboratorio risultano nella norma, eppure la fine avanza silenziosa e incontrastata, a breve distanza dallo shock psicologico che ha inondato l’ anima del paziente disintegrandola, e il quale paziente decide in modo inconscio, che la morte sia l’unica opzione per liberarsi da quel macigno sul cuore.
Questa nuova patologia non ha nulla a che fare con il suicidio, perché non viene attivata coscientemente, e non è legata neppure alla depressione acuta, una malattia facilmente riconoscibile, la quale, anche quando interviene violentemente, non ha questi effetti, e con la quale di norma si può convivere anche per decenni.
La ‘morte psicogena’ è un evento che arriva quando si decide profondamente che procedere non ha più senso, ed è qualcosa di più di una reale patologia, perché il paziente abbandona la vita da sano, non ha più voglia di sopravvivere, abbandona le armi e si lascia scivolare nell’ oblio di un limbo sconosciuto, che lo culla dolcemente verso il baratro.
Uno studio condotto all’ Università di Portsmouth negli Usa, pubblicato su Science Direct, rende pubblica la nuova ‘patologia’ dopo averla riscontrata in centinaia di casi clinici, nei quali non è stato possibile individuare una morbilità specifica, o collegarla a qualsiasi malattia, se non evidenziare un legame tra lo stato mentale e fisico legato al trauma psicologico recente, dal quale il soggetto si libera con il distacco completo dalla vita che avviene in sole tre settimane, dopo aver superato cinque stadi.
All’inizio infatti, il paziente si rinchiude in isolamento sociale, diventa svogliato, passivo e indifferente alle emozioni, quasi instaurasse un meccanismo di difesa per sottrarsi alla realtà. Poi subentra l’apatia, una sorta di morte simbolica, nella quale il soggetto non riesce a fare neppure un piccolo sforzo, non si lava, non si alza dal letto,e trascura tutto quello che ha intorno. A questo punto compare l’ abulia, ovvero una totale mancanza di iniziative, di motivazioni e intenzioni, senza che emerga alcuna necessità o alcun desiderio.
In questa fase il morto vivente può essere ancora recuperato, ma dovrebbe essere scosso da altri, per esempio da una persona cara, anche in modo coattivo, perché l’ abulia è pericolosa, in quanto scompaiono addirittura i pensieri, e la coscienza appare svanita nel nulla, pur essendo il soggetto cosciente e capace di intendere.
Questo stato abulico, se non arginato, precipita velocemente nell’ acinesia psichica, ovvero una ulteriore e più profonda riduzione della motivazione all’ essere, e la persona diventa anche insensibile al dolore, prima fisico e poi psichico. Il paradosso è che in questo stadio paziente è ancora mentalmente vigile, non è catatonico e non è assente, ma è in fin di vita, e smette di mangiare e di bere per 3/4 giorni, cosa che lo conduce alla disidratazione, alla sofferenza cerebrale ed alla morte psicologica, alla disintegrazione dell’ io, finché non interviene il delirio, con il disorientamento e le farneticazioni, che altro non sono che il fuoco d’artificio delirante che spegne di colpo l’ultimo respiro.
La morte psicogenica è stata riscontrata esclusivamente nelle persone lasciate sole, abbandonate al proprio destino, prive di ogni attenzione da parte di chiunque, e non è stata registrata solo tra i barboni o i carcerati in isolamento, ma anche tra coloro che hanno perso il coniuge con il quale hanno trascorso l’intera vita, perdendo la fiducia e l’interesse per ogni cosa.
Qualunque intervento esterno nelle varie fasi è in grado di invertire la situazione, anche un intervento farmacologico estremo, al punto che negli USA alcuni casi sono stati trattati e risolti con la somministrazione endovenosa di sostanze stupefacenti, per stimolare una ricompensa sensoriale che ha risvegliato motivazione, attenzione, una insolita terapia tentata come l’ ultima razio al cospetto di un paziente che non reagisce a nulla.
Questa sindrome è quindi qualcosa di più di quella del ‘cuore spezzato’, perché nel caso della morte psicogenica si tratta di una morte autoprocurata, in assenza totale di qualunque patologia organica, se non una grave compromissione dello stato psico-neurologico. Nemmeno gli psichiatri sono riusciti a contrastare la morte psicogena, poiché in assenza di collaborazione il paziente è sordo e muto, è rinchiuso nel suo dolore ed indifferente a qualunque stimolo .
Il fatto è che noi medici operiamo con i mezzi a disposizione, e siamo in grado di togliere qualunque dolore fisico, anestetizzare anche il più terribile, opprimente ed insopportabile, perché abbiamo creato farmaci potenti, molecole derivate dagli oppiacei che in dosi giuste abbatterebbero un elefante, ma non abbiamo prodotto un solo farmaco contro il dolore dell’anima, non abbiamo nessuna medicina contro quel male non tangibile e non visibile, che corrode, consuma, e buca lo stomaco e il cuore, quello che stravolge la mente, anche se non è il cervello che soffre, ma quella parte di noi che viene chiamata anima, e che appunto anima ed alimenta ogni nostra cellula, e che, ci crediate o no, può essere più pericoloso di quello provocato da una vera malattia, perché se non contrastato spegne la voglia di vita e può portare un individuo sano alla morte psicogenica.
di Melania Rizzoli
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