Stamane leggevo il bellissimo articolo di Alessandro D’Avenia sul Corriere della Sera (che riporto in calce) e ho ricordato questo mito descritto ne “Le metamorfosi” di Ovidio. Lo ricordo a memoria per il futuro…

 


Filemone e Bauci

Filèmone e Bàuci sono i protagonisti di un episodio della mitologia classica tramandato nell’ottavo libro delle Metamorfosi di Ovidio. La favola di cui i due personaggi sono protagonisti è uno di quegli avvenimenti che venivano raccontati per provare che la virtù dell’ospitalità era ricompensata.

Mito

Un giorno Zeus ed Ermes, vagando attraverso la Frigia con sembianze umane, cercarono ospitalità nelle case vicine. I soli che li accolsero furono Filemone e Bauci, una coppia di anziani. «Bussando a mille porte, domandavano ovunque ospitalità e ovunque si negava loro l’accoglienza. Una sola casa offrì asilo: era una capanna, costruita con canne e fango. Qui, Filemone e Bauci, uniti in casto matrimonio, vedevano passare i loro giorni belli, invecchiare insieme sopportando la povertà, resa più dolce e più leggera dal loro tenero legame».

La coppia si offrì di lavare i piedi ai viaggiatori, e diede poi loro da mangiare un pranzo campestre: olive, corniole, radicchio e latte cagliato. Quando però versavano il vino, questo non finiva mai, per cui iniziarono a sospettare della finta identità della divinità. Volevano sacrificare la loro unica oca, ma l’animale aveva intuito che erano dei e andò a nascondersi tra le loro gambe.

Dopo il pranzo gli Dei si palesarono e Bauci e Filemone furono condotti sopra un’alta montagna vicina alla capanna e venne loro comandato di guardare all’indietro: mentre Zeus scatenava la propria ira contro i Frigi, videro tutto il borgo sommerso e distrutto tranne la loro povera capanna che venne trasformata in un tempio maestoso. Zeus si offrì di esaudire qualunque loro desiderio. Filemone e Bauci chiesero solo di diventare sacerdoti del tempio di Zeus e di poter morire insieme. Dopo aver vissuto ancora molti anni, i due coniugi furono trasformati in alberi: Filemone in una quercia e la moglie in un tiglio, uniti per il tronco. Questa meraviglia vegetale, che si ergeva di fronte al tempio, fu venerata per secoli.

I nomi di Filemone e di Bauci sono passati in proverbio per indicare due vecchi sposi che in passato hanno trascorso i loro giorni in un amore reciproco, e ne conservano vivo il sentimento.

Filemone e Bauci nell’arte

  • Filemone e Bauci, dipinto ad olio di Adam Elsheimer
  • Mercurio e Giove nella casa di Filemone e Bauci , dipinto ad olio su legno di Philip Gyselaer (~1625)
  • Filemone e sua moglie Bauci ospitano Giove e Mercurio travestiti da viaggiatori, dipinto ad olio su rame di Hendrick Goudt degli anni 1620
  • Filemone e Bauci visitati da Giove e Mercurio, dipinto ad olio su pannello di Rembrandt (1658)
  • Paesaggio con Filemone e Bauci, dipinto ad olio su tela di Rubens (~1620)
  • Giove e Mercurio visitano Filemone e Bauci come stranieri , dipinto su tela di Orest Kiprensky (1802)
  • Filemone e Bauci al tempio e La trasformazione di Filemone e Bauci, dipinti ad olio su tela di Janus Genelli (1801)
  • Filemone e Bauci, scultura in alluminio fuso di Claudio Prestinari (2017)

Filemone e Bauci nella musica

  • Filemone e Bauci, canzone del gruppo Amor Fou e dell’omonimo EP autoprodotto del 2009

FONTE

 


L’amore non esiste

Ho cercato l’amore per tanto tempo senza trovarlo se non nella mia testa. Poi lui mi ha trovato e ho capito che ero io a nascondermi. Inseguivo l’idea dell’amore, perché avevo paura di amare, ma amare è un verbo non un sostantivo, un’azione che richiede carne e spirito, un rischioso infinito «crescendo» dell’essere e non un comodo «stato» della mente, come chi si compiace di dirsi «artista» in un campo, ma non ha affrontato l’impegno quotidiano in quell’arte per almeno dieci anni.

Di recente un amico ha celebrato i 50 anni della moglie, confezionando 50 regali disseminati lungo la giornata, in un crescendo che partiva dalla gomma da masticare alla cannella, da lei preferita quando si conobbero giovanissimi, per arrivare a un gioiello. Amare è un’arte che s’impara e affina, non si improvvisa, è un lavoro a giornata, senza pensione.

Non è l’amore a far felici, ma amare, come dice la scrittrice Bell Hooks nel bel libro «Tutto sull’amore»: «Chi vuole credere che in amore non ci sia pienezza, che l’amore vero non esista, si aggrappa a queste sue convinzioni perché è più facile affrontare questa sofferenza del fatto che l’amore fa parte della vita, ma è assente dalla sua».

L’amore vero esiste: solo per chi ne fa un’arte di vivere.

Ma com’è possibile che nella società della formazione permanente proprio in amore ci si affida all’improvvisazione e alla spontaneità? L’amore è un lavoro a cui siamo tutti chiamati: il (capo)lavoro. Ma che cosa c’è da imparare?

L’antico mito di Filemone e Bauci, raccontato dal poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi, narra della visita che gli dei Zeus ed Ermes fecero in Frigia, antica regione dell’Anatolia, fingendosi forestieri in cerca di ospitalità. Visitarono migliaia di case ma nessuno li accolse tranne due poveri sposi, che imbandirono la loro modesta tavola con tutto ciò che avevano. Gli dei, grati, si rivelarono e chiesero loro che cosa volessero in cambio di quella generosa ospitalità. La coppia rispose: «Chiediamo d’essere sacerdoti e di custodire il vostro tempio; e poiché in dolce armonia abbiamo trascorso i nostri anni, vorremmo andarcene nello stesso istante, ch’io mai non veda la tomba di mia moglie e mai lei debba seppellirmi». Zeus trasformò quindi la loro capanna in un tempio di cui diventarono custodi.

Una relazione vera e aperta al mondo, anche se sembra «ordinaria» e piena di limiti, è in realtà un luogo sacro che attira nel suo cono di luce. Così Filemone e Bauci vissero il loro amore ancora a lungo accogliendo coloro che si recavano al tempio, e nel loro ultimo giorno, mentre si scambiavano a vicenda lo stesso ultimo saluto: «Stai bene, amore mio», gli dei trasformarono l’uno in una quercia e l’altra in un tiglio, tra loro vicini e protetti da un recinto.

La metamorfosi in alberi diversi narra che amare è riconoscersi nella differenza, ognuno è visto per quello che è e può non vergognarsene, anzi riceve dall’altro la grazia di poter essere così com’è, e questo gli permette di diventare ciò che ancora non è.

Amare allora non è un lavoro dettato dalla morale, dalla spontaneità, dalla convenienza, ma dal fatto che è l’azione migliore per crescere e compiersi: l’amore non è il fine ma il metodo di una vita riuscita, nata del tutto. Altre parole di Hooks calzano a proposito: «Nel vero amore ci si sente in contatto con il nucleo identitario dell’altro. Imbarcarsi in una relazione del genere spaventa, proprio perché si sente che non ci si può nascondere. Siamo conosciuti. Tutta l’estasi che proviamo emerge poiché questo amore ci nutre e ci sfida a crescere e a trasformarci».

In quanto azione amare è trasformazione e individuazione: (ri-)conosco me nella misura in cui sono (ri-)conosciuto dall’altro, smetto di nascondermi innanzitutto a me stesso, superando la vergogna del mio essere finito e evitando l’illusione di poter fare a meno del corpo, luogo unico della fatica e della gioia d’amore. Amare vince la morte perché ci permette di ricevere in dono la nostra mortalità, tutto ciò in cui «mi sento morire», per scoprire che non muoio ma nasco.

Lo sto imparando da e con la mia amata, io che volevo essere perfetto imparo a non essere mai abbastanza, io che volevo tutto sotto mano imparo a ricevermi dalle mani di un altro. Smetto di nascondermi, per fare luce su me stesso alla luce di un altro. Essere amati fa venire alla luce, amare dà alla luce. Quando Ovidio descrive Filemone e Bauci dice che nella loro capanna: «Non ha senso chiedersi chi è il padrone o il servitore: la casa è tutta lì, loro due: comandano e servono allo stesso modo».

Nell’arte di amare non si sa chi comanda e chi serve, come in un abbraccio non si distingue chi dà e chi riceve, perché il limite delle braccia diventa circolazione di bene senza fine in cui si è «presi», «appresi» e «compresi». Amare è (ri-)generare l’altro, farlo essere nel (voler) bene ma, come suggeriva il poeta Rilke, il 29 aprile del 1904, al giovane fratello della moglie, proprio questo è il (capo)lavoro: «Le persone giovani possono innalzarsi lentamente verso questa felicità, e prepararvisi. Non devono dimenticare che in amore sono degli esordienti, dei dilettanti, degli apprendisti; devono imparare l’amore e, come per ogni studio, ci vuole calma, pazienza e concentrazione. Prendere l’amore sul serio, soffrirlo, impararlo come un lavoro: ecco ciò che è necessario ai giovani. La gente ha frainteso il posto dell’amore nella vita: ne ha fatto un gioco e un divertimento, perché scorgono nel gioco e nel divertimento una felicità maggiore che nel lavoro; ma non esiste felicità più grande del lavoro, e l’amore, per il fatto stesso di essere l’estrema felicità, non può essere altro che lavoro» (Lettera a Friedrich Westhoff).

Aggiungerei che nell’arte di amare, così come in ogni arte, per inventare il nuovo bisogna rimanere esordienti, dilettanti, apprendisti, perché se amare diventa abitudine, mestiere, ripetizione, è finita. Come per Filemone e Bauci ogni giorno potrebbe anche essere l’ultimo, ma anche in questo caso estremo si farebbe insieme pure «la morte», e così la si accoglierebbe, perché la relazione dà la forza e il coraggio di accogliere tutto, persino quegli «stranieri» — qualsiasi nome abbiano: figli, parenti, amici, imprevisti — che rivelano se la capanna è un tempio e se questa nostra vita breve è già eterna.

FONTE