L’altra sera ho rivisto il Rob Roy del 1995 con Jessica Lange. Ora, leggendo la voce su Wikipedia, ho scoperto che Tim Roth ha persino vinto l’Oscar e il Golden Globe come miglior attore non protagonista nel ruolo di Archibald Cunningham. Mah. 🙄
Invece ricordavo che il trailer era nel cd di installazione di Win95 come esempio per le potenzialità dell’allora nuovo Media Player. 😀
Ma non è di questo che volevo parlare. 🤓
Tralasciando la critica agli attori, che non mi hanno (mai) convinto, il tesoro della pellicola risiede a mio parere nell’ambientazione (una Scozia verosimile e meravigliosa, come la ricordo) e nei valori culturali sociali occidentali descritti impeccabilmente in modo incisivo e quasi perfetto.
La mia riflessione vuole concentrarsi sul fatto che questo schema culturale, di cui sono figlio ed erede, si sta progressivamente sgretolando e ricomponendo nella mia mente con nuovi parametri.
La pellicola in sintesi vede il capo clan Rob Roy, con il nobile scopo sociale di migliorare le condizioni esistenziali della sua comunità, innescare una serie di eventi dolorosi per tutti coloro che lo circondano e il cerchio si chiude, dopo varie vicissitudini, con i ricchi nobili che rimangono infelicemente ricchi nobili, soggetti criminali (a loro volta vittime del sistema) che escono di scena senza aver di fatto pagato per i loro crimini (la morte per molti è una liberazione!), poveri sempre più poveri e disperati e un protagonista che si ritaglia un piccolo angolo di mondo dove leccarsi le ferite con la sua famiglia avendo (forse) imparato la massima alla base del nostro “status quo” sociale. Ovvero che “chi si fa li c…i sua torna sano a casa sua” o, per lo meno, “campa cent’anni”. 😉
Un’onta dev’essere vendicata, l’onore è uno dei più alti valori e con la sua infamia non si scherza… ma è veramente così?
Tutti i libri che ho letto nell’ultimo anno sul Buddismo, inteso più come filosofia esistenziale o supporto psicologico che come religione, focalizzano l’attenzione sul fatto che nella vita vi sono due certezze: il continuo cambiamento e la morte. Tutto il resto non conta.
E allora è dovere del saggio valorizzare nel migliore dei modi il (comunque sempre troppo) poco tempo che gli rimane da vivere, concentrando le proprie energie su obiettivi nobili e virtuosi, “surfando” sugli eventi in continuo divenire.
Qui il discorso si fa immensamente complesso, poichè si tratterebbe di dare un contenuto oggettivo agli “obiettivi nobili e virtuosi”, tra i quali si potrebbe inserire appunto il desidero di migliorare (rapidamente) le condizioni esistenziali della propria comunità e il difendere il proprio onore, così come vuole la nostra cultura occidentale.
Ma mi domando dove si pone la sottile linea che divide il virtuosismo dell’altruismo dal narcisistico egocentrismo che compensa la mancanza di sicurezza insita in ogni uomo e il continuo bisogno di conferme per autodeterminarsi.
Parafrasando e leggendo la storia sotto la luce degli insegnamenti orientali, vi è da chiedersi se entrare in conflitto con chi ti fa gratuitamente del male per il proprio tornaconto sia saggio o se subire per un breve periodo le angherie, lavorando per allontanarsi dal soggetto per poi lasciarlo alla mercé del proprio destino, degli effetti delle proprie cause e dell’opera di altri personaggi al suo livello di comprensione non sia meglio.
Le stesse risorse possono essere utilizzate per realizzare il proprio essere, traendone sicuramente maggior soddisfazione, realizzazione e serenità dall’essere la mano che ha lavato un’onta, attuata alla fin fine da una vittima a sua volta, che non ha saputo metabolizzare e trasformare in opportunità le proprie criticità.
Devo ancora lavorarci, ma i contenuti ci sono e la mia trasformazione è in atto. 😁