Quanti di noi vorrebbero fare carriera nel mondo del lavoro? Guardiamo i dirigenti della nostra azienda partecipare a riunioni importanti, andare a cene d’affari, vestire eleganti, girare con automobili lussuose e guadagnare cifre che noi possiamo solo sognare… e allora forse ci sarà balenata in testa la domanda: “Ma io, come posso fare carriera?“.
Ma del lato oscuro della carriera lavorativa chi ci parla? Come vanno veramente le cose e come cambiano le persone quando intraprendono questa strada? Oggi vi racconto quello che ho imparato quando lavoravo per una grande multinazionale, e ciò che ho visto accadere.

La svolta

La vita è dura, lo so, siamo stanchi e pieni di problemi ed è difficile combattere tutti i giorni, ma la cosa che più d ogni altra ci sconforta è che non vediamo alcuna via d’uscita. Quando siamo demoralizzati ciò che ci fa più disperare è che abbiamo le mani legate, non possiamo mandare tutti a quel paese, le bollette e l’affitto vanno pagati e i figli mantenuti, per cui siamo condannati a subire e subire per sempre.

Se fossimo ricchi però le cose sarebbero ben diverse, non saremmo costretti a restare chiusi tutto il giorno in questa lurida fogna che chiamiamo ufficio e nessuno potrebbe farci scattare con un email o una telefonata. Ecco, questo desideriamo più di ogni altra cosa: non avere nessuno che ci comanda, che ci impartisce ordini assurdi, che si arrabbia con noi perché non abbiamo fatto come voleva quando non è nemmeno capace di spiegarsi, che ci addossa le colpe dei suoi sbagli mentre lui non sbaglia mai. Si auto-elegge maestro di vita solo perché ha fatto carriera sta un gradino sopra di noi nell’organigramma aziendale e ha una piccola lurida fogna tutta sua dove sguazzare dieci ore al giorno.

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Ancora meglio sarebbe se fossimo noi ad impartire gli ordini, ad avere il potere e dire agli altri cosa devono fare, sì perché i capi li odiamo fino a quando non ci tendono la mano, ma se vediamo anche la più lontana possibilità di diventare come loro, allora siamo pronti a sputare in testa a tutti quelli che fino a ieri erano i nostri colleghi e cogliamo la palla al balzo. All’idea di essere importanti, fare carriera, guadagnare e essere battezzati migliori della marmaglia, non sappiamo resistere. E quanti ne abbiamo visti di colleghi voltagabbana, che prima sputtanavano i dirigenti e poi ce l’hanno fatta alle spalle, eh?!
Tutto pur di svoltare, di non essere più gli ultimi e chi se ne frega degli altri, la nostra vita è più importante, viene prima. Quando arriva il momento della promozione, quando i nostri sforzi sono premiati, ecco che ha inizio la “carriera lavorativa”, esattamente come quando il giocatore punta sul cavallo giusto e vince, assapora il brivido della ricompensa, si sente fortunato, addirittura bravo e forse più scaltro degli altri!
Quello che non sa, però, è che è esattamente in quel momento che iniziano i problemi.

Cara sono a casa

Raccontare alla propria moglie o compagna di essere strato premito e avere delle prospettive di crescita interessante, è una vera soddisfazione; ora non siamo più l’omuncolo che fa l’impiegato, il commesso o il semplice operaio, ci hanno eletto a capo repartoteam leader o responsabile delle vendite, siamo un po’ più importanti e valiamo più di prima. Nella vita vera, in verità, non è cambiato niente, ma le persone sono un tutt’uno col lavoro e se siamo importanti in ufficio lo siamo implicitamente anche nella vita! Mi viene il vomito a scriverlo, ma pare che un responsabile o un dirigente sia “più uomo” (o donna) dell’ultimo assunto, giusto?
Ma non importa, non pensiamo a queste dettagli, ci sentiamo meglio e questo è tutto ciò che conta, lo stipendio è un pochino più alto, certo insufficiente a svoltare, beh, a dire il vero praticamente uguale a prima, ma è il primo passo, se ci hanno dato una promozione è perché siamo migliori e quindi possiamo diventare ancora più importanti e quindi ricchi.

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Il nuovo ruolo richiede molto impegno e la necessità di dimostrare di essere all’altezza, ci rapportiamo con persone competenti e la produttività di una certa fetta d’azienda dipende direttamente da noi. Si lavora qualche ora di più e certe volte tocca darsi da fare il fine settimana; prima non ce lo sognavamo nemmeno, la sera correvamo subito a casa a fare due tiri a pallone con nostro figlio, ma adesso, se non facciamo in tempo la nostra parte, altre persone non possono lavorare. Siamo importanti, abbiamo delle responsabilità, i figli capiranno.
La sera rientriamo spesso tardi, iniziamo a vedere meno amici, ma loro sono sempre lì, in un certo senso li diamo per scontati, ci saranno sempre a prescindere da tutto e in fondo arriverà un giorno in cui la situazione sarà migliore, avremo preso il ritmo e non sarà più necessario lavorare così duramente.
Intanto, uno per volta, i nostri vecchi colleghi smettono di essere i nostri “amici”, non ci invitano a prendere il caffè o a pranzare insieme, ma è comprensibile, se c’è il capo si sentono sotto osservazione e certe cose meglio non dirle di fronte a chi poi può decidere sul nostro futuro. E poi c’è l’invidia: hanno scelto noi, non loro, e questo non a tutti sta bene. Poco male, mangeremo da soli o con gli altri capi, anche se con loro l’atmosfera è diversa; i galli cedroni fanno baruffa nell’aia, cercano di prevalere e non c’è molto spazio per l’amicizia vera.

Mors tua vita mea, ora si balla da soli.

Si cambia

A mano a mano che veniamo promossi la nostra quotidianità cambia, le responsabilità fanno sentire il loro peso, ma dobbiamo comportarci in modo professionale e far vedere che siamo all’altezza. Cambia il nostro modo di parlare, vestire, di guardare gli altri e probabilmente anche di vedere la vita. Prima gli ultimi erano come noi, comprendevamo la loro situazione, la visione della vita, ora ci rendiamo conto che non hanno per niente a cuore le sfide aziendali, lavoricchiano al minimo perché non si rendono conto che il loro stipendio deriva dal loro impegno. Non capiscono il valore dei propri superiori “che stanno lì a comandare senza alzare il sedere dalla sedia”. Che ingrati, danno per scontato l’impiego e non capiscono che è per l’impegno e la lungimiranza dei dirigenti che hanno un lavoro anche se c’è la crisi!
Lentamente ci imborghesiamo, i punti di vista sono una brutta bestia, un po’ come quando categorizziamo i migranti come ladri e stupratori senza sapere che Aleppo era più bella della nostra Roma, e quei “delinquenti” erano avvocati o ingegneri… i punti di vista, appunto. A mano a mano a che la nostra carriera avanza diventiamo più seri e meno spensierati, più incazzosi e probabilmente un po’ noiosi. Siamo cambiati senza accorgercene, colpa di quegli atteggiamenti di forzata serietà e ostentata sicurezza che dovevamo adottare per via del ruolo; ripetuti per anni, quei modi di fare sono lentamente divenuti parte di noi, cambiando la nostra personalità. Ora siamo come quelli che prima odiavamo, c’eravamo ripromessi che non sarebbe mai accaduto, ma la carriera è un processo lungo e il cambiamento così lento che non ci siamo nemmeno accorti di quando siamo passati dall’altra parte della barricata.

La nuova normalità

Col passare degli anni, lentamente, ecco che s’instaura la nostra nuova normalità: diventa normale lavorare tanto, essere sotto pressione, mangiare in fretta e male, ingrassare per la vita sregolata e poco sportiva, essere spesso scorbutici, passare poco tempo con i figli e quando stiamo con loro avere la testa al lavoro. Spendiamo di più perché abbiamo maggior disponibilità economica, ma risparmiamo meno perché non abbiamo il tempo di pulire la casa, fare la cena e stirare le camice. Serve la donna delle pulizie, pagare la lavanderia, comprare cibo d’asporto; il denaro sostituisce il tempo, forse avremo più cose, ma tutto quello che compriamo non ce lo godiamo perché, ancora una volta, non ne abbiamo il tempo. Anche la casa al mare è sempre lì, chiusa ad aspettarci, che mastica denaro a suon di Imis, e non ci andiamo mai.  Le vacanze sono diventate quasi un problema, siamo costretti ad andarci in agosto perché negli altri periodi c’è troppo da fare e la nostra assenza causa ritardi e inefficienze di altri, quasi ci sentiamo in colpa a non lavorare.

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Siamo distanti da tutti, dagli amici con cui uscivano, dalla compagna con la quale parliamo poco e dai figli ai quali, se non siamo in trasferta, ogni tanto riusciamo almeno a dare il bacio della buona notte, figuriamoci giocare a palla; quello abbiamo smesso da tempo. Ora siamo una vera macchina produttiva, che sacrifica tutto per la carriera, la cui vita ha un senso solo se c’è il lavoro.

Il giorno

E poi, per qualcuno, arriva quel giorno, quello in cui ci si accorge di ciò che è successo, del fatto che mentre facevamo carriera gli anni sono passati, tutti (o quasi), e non abbiamo fatto altro che lavorare. Che non stiamo concludendo nulla, non abbiamo niente di nostro e che il nostro cuore ha regalato ogni suo battito all’azienda. Sarebbe stato anche un bel battere se solo in cambio avessimo ottenuto qualcosa, ma cosa abbiamo adesso? No, veramente, cosa abbiamo ottenuto? Un titolo, un appellativo: “dirigente alle risorse umane” o “vicedirettore di filiale”. Bene, ma se ci tolgono la targhetta cosa rimane? Forse un conto in banca discreto, col quale però non ricompreremo un minuto del tempo perduto a far carriera.

Siamo invecchiati trascorrendo i giorni migliori a produrre senza sosta e senza un vero motivo, alcuni lo comprendono quando il troppo stress li manda all’ospedale, altri quando vengono lasciati dalla compagna o il preside dalla scuola li convoca perché il figlio è un problema per l’istituto. Di solito non sono belle storie, e non finiscono bene, ma questo è ciò che ho visto accadere innumerevoli volte, in innumerevoli luoghi quando lavoravo in giro per l’Italia.

Conclusioni

E allora cosa fare? La verità è che lo sappiamo bene quello che andrebbe fatto; infondo al nostro cuore lo abbiamo sempre saputo e forse qualche volta siamo stati ad un passo dal farlo, nei momenti di sconforto, quando ci siamo sentiti usati o quando lo stress e la fatica erano insopportabili:
Ebbene, bisogna mollare! 
Fare un passo indietro, dirsi sinceramente di aver sbagliato a fare carriera, che siamo stati accecati dall’idea di diventare qualcuno e avere una vita più felice, ma che quella felicità non è mai arrivata e mai la incontreremo, almeno non lungo questa strada. Bisogna buttare via tutto, recuperare il recuperabile, tornare ad essere gli ultimi, rallentare, scalare marcia, semplificare, togliersi dalla bocca quelle parole saccenti e quel ghigno arrogante di chi si sente su un piedistallo. Smettere di dedicare tutto il tempo al lavoro, smettere di lavorare se necessario.

Ma il potere logora e quando si assapora il gusto di tenere il timone, poi, accettare di non essere più il capitano è dura, soprattutto se lo dobbiamo lasciare a quel bastardo che ci ha sempre messo i bastoni tra le ruote. “E’ no, a lui non daremo questo vantaggio”, e poi abbiamo lavorato tanto per arrivare fin qui, non conviene mollare adesso, dobbiamo tenere duro ancora un po’ e le cose andranno meglio, riusciremo a gestire il tempo in modo agevole, a trovare qualche minuto per giocare a palla con nostro figlio, infondo basta poco, si tratta solo di organizzarsi e lavorare più duramente per riuscire a fare tutto in meno tempo.

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Al mattino seguente, la notifica di una mail dal nostro superiore ci butta giù dal letto prima della sveglia, la sera, la telefonata di un cliente ci blocca in ufficio ben oltre l’orario e l’ennesimo problema ci costringe a lavorare anche dopo cena. Quei due tiri a palla, con nostro figlio, li faremo domani, sì, domani, domani ci sarà il tempo!