Biofili e Necrofili: il cerchio e la retta (Testo del 6 maggio 2009)
Ogni giorno che passa, evidenzio sempre più nei comportamenti altrui che osservo, una peculiarità capace di distinguere i soggetti “biofili” da quelli “necrofili”.
Si tratta della “valutazione soggettiva e personale della propria posizione nel mondo e delle previsioni per il proprio futuro”:
I “biofili” sentono empaticamente la ciclicità degli eventi… vedono ogni fatto come un “momento” inserito in un ciclo di più ampio raggio e pertanto quando “gira male” non disperano, poiché sanno che “non può piovere per sempre” e quando “gira bene” non si lasciano andare ad eccessi poiché sanno che “non può durare per sempre”. Ecco un’altra manifestazione del Wu-Wei di cui vi parlai tempo addietro.
I “necrofili” invece congelano tutto nella loro fredda staticità, nella paura di confrontarsi con se stessi, con gli eventi e con gli altri, nell’incapacità di affrontare e adattarsi al camaleontico quotidiano trasformasi della vita. Quando “gira bene” manifestano arroganza e prepotenza certi che sono “eletti” e per loro durerà per sempre, non può essere altrimenti. Quando “gira male” si deprimono, si autocommiserano e cercano disperatamente ovunque appoggio e aiuto. Salvo repentini voltafaccia in caso che il vento cambi e, in entrambi i casi, lasciandosi sempre andare in spropositati eccessi (estremizzando, dal “mi suicido, vita crudele” all “uccido tutti, io posso”). Sono linee, sono rette. O meglio segmenti, poiché hanno un punto di inizio e uno di fine.
Cercando un’immagine da pubblicare in qs post ho trovato poi un articolo molto interessante e ben esposto. Lo pubblico ponendolo alla vostra attenzione:
IL CERCHIO COME METAFORA ESISTENZIALE
Cari cyberamici,
vi presento, qui sotto, il testo relativo alla conferenza/incontro “Il cerchio come metafora esistenziale nella consulenza filosofica” che avrà luogo oggi alle 17 presso Palazzo Marcotulli (Via Garibaldi 241, Rieti). Non è una lettura semplicissima, lo riconosco, ma vi assicuro che l’incontro sarà decisamente più “umano”. L’antologia dei testi filosofici cui faccio riferimento la potete sfogliare dal mio sito.
Buona lettura! Francesco Dipal
L’analisi etimologica, se condotta con un certo intento, può rappresentare un esercizio filosofico a se stante: un esercizio di interpretazione, per l’esattezza, un’operazione ermeneutica che serve ad indagare il senso di parole che utilizziamo tutti i giorni. Parole che, una volta ripulite, levigate, smaltate, rivelano in tutta la sua lucentezza l’ambiguità dell’intreccio simbolico da cui scaturiscono e a cui rimandano, la loro natura di “segni”, “tracce”, “orme”, dita puntate verso un ignoto da “discoprire” (a-létheia, gr. la non nascosta, la svelata, la discoperta, ossia la verità), che rappresenta l’intima trama della nostra visione del mondo, collettiva prima ancora che individuale. In questo senso, l’etimologia non è passatempo di dotti, esibizione di un sapere tanto roboante quanto sterile. È indagine di sé, istinto vitale che si fa conoscenza, penetra nella carne, duole e, a volte, purifica.
Senza meraviglia e sconvolgimento, non vi è vera conoscenza. L’esperienza “filosofica”, quella autentica, chiama in causa in prima persona il soggetto praticante, pone in gioco la sua esistenza quotidiana. Il senso delle parole è una rivelazione. Rivela al ricercatore il tessuto vivo del proprio modo d’intendere la realtà, fa sì che egli si metta in discussione radicalmente, e lo invita, infine, a “ri-centrare” la propria condotta di vita.
Di questa risorsa, tra le altre, ci si avvale durante la consulenza filosofica. Il risultato non interessa. Né il consulente, né tanto meno il consultante sono in grado di dire dove tale esercizio li condurrà. Loro si limitano ad armare il naviglio e a svolgere le vele del dialogo. Ma a quali lidi approderanno, nessuno può dirlo a priori. Navigare è tutto. La pratica è assolutamente fine a se stessa. Come il vivere, del resto.
Ma oggi si recita a soggetto. Ho delle persone dinanzi, degli ascoltatori, non una storia autobiografica su cui lavorare insieme ad un con-dialogante. C’è un’immagine che ritorna, anzi una sinfonia d’immagini: cerchio, circolarità, ciclo, ciclicità, centro, centralità. Nell’opera d’arte pittorica il simbolo è nudo, immediato, ed è dotato di una sua consistenza materiale. Dal filosofo, invece, ci si aspetta che utilizzi lògoi per rappresentare la sua visione. E che a differenza del poeta “dis-pieghi” anziché “e-vocare”. Proverò a “spiegare”, ancorché alla fine, se avrò meritato la vostra pazienza, capirete che le parole, tutte quante, in ultima istanza, altro non fanno che “evocare”.
“Cerchio” è il diminutivo di “circolo” e proviene dal latino circus, dal greco kìrkos ovvero “anello”, dalla radice indoeuropea *kr con il senso di “volgere in giro” (in sanscrito c’akra = “ruota”, “sfera”). “Ciclo” viene dal latino cyclus, greco kyklos ovvero “giro”, dalla radice indoeuropea *kwel col significato di “stare intorno”. In ultimo, “centro”, latino centrum, greco kéntron, col significato originario di “pungiglione”, in seguito “punto centrale di un circolo”.
La sfera semantica di questo gruppo di parole potrebbe essere ulteriormente ampliata. La sua ricchezza è paragonabile soltanto alla sua arcaicità. Il “cerchio” è una figura primordiale, che rimanda al rapporto fondamentale dell’uomo con se stesso e con l’ambiente circostante. Prima che “oggetto del pensiero” e della rappresentazione immaginifica, la circolarità attiene alla sfera dell’agire umano, alla nostra corporeità. Provate a pensare a tutte le operazioni quotidiane che rimandano al semplice movimento delle mani, del busto, del corpo, inteso come “volgere in giro”. Per l’homo tecnologicus potrebbe essere il movimento del mouse, oppure il semplice “svitare” la parte superiore della caffettiera. Per il contadino del neolitico il falciare in tondo il frumento o passarne al setaccio le stoppie. Ma a ben guardare, il movimento circolare si estende oltre la sfera antropologica. Il cane, prima di accucciarsi, disegna una serie di giri concentrici intorno al luogo prescelto. Il gesto, nelle savane da cui provengono i suoi antenati, assicurava un comodo giaciglio su cumuli d’erba appiattiti.
La statura eretta garantisce all’uomo un rapporto privilegiato con lo spazio. Appiedato è in grado di scorgere da lontano le sue prede, di leggere i segni del tempo cangiante dallo stormire delle fronde degli alberi, di osservare da lontano il sole che tramonta, tinteggiando le colline tutt’intorno. Larghe volute di fumo a miglia di distanza possono segnalare la presenza di un insediamento noto od ignoto.
Ma è nel cielo che l’uomo si rispecchia. Il cielo è il tetto sotto cui vive. Dal cielo giunge, benedetta, la pioggia che inumidisce i campi e genera la vita, e nelle ore più calde dardeggiano i raggi del sole. Il cielo è la sua mappa. Ad esso si affida per orientarsi. E non è cosa di poco conto: riuscire ad orientarsi per il cacciatore neolitico significa sopravvivere. L’atto del “contemplare” (dal latino cum-temno, ritagliarsi uno spazio, un fazzoletto di cielo da guardare con attenzione), dunque, prima ancora di essere investito di un significato “sacrale” – nella Roma arcaica, ad esempio, gli auguri si ritagliavano una porzione di cielo per osservare il volo degli uccelli e trarne auspici –, aveva un valore pratico, “esecutivo”.
Il cielo è visto come “volta celeste”. A “volgersi” è il sole, di giorno, la luna e le costellazioni, di notte. L’effetto, sull’osservatore antico, era a suo modo “rassicurante”. Tutto cambiava, ma, volgendosi, meravigliosamente tornava al suo posto. Col mutare scandiva il ritmo della vita, in un ciclo perpetuo che dall’ambiente si rifletteva sull’uomo, e dall’uomo sulla natura circonvicina. Le stagioni, che parevano avvicendarsi senza fine, recavano benigne i loro frutti. La veglia e il lavoro nei campi si accordavano con lo spuntar del sole e il suo immergersi nell’orizzonte a violentare altre notti. E il buio della notte era una benedizione per le membra stanche, con la luna a cullare i sogni degli infanti. Vita e morte altro non erano che fasi di un unico ciclo, di un grande anno, di una Vita immensa, sconfinata, al cui andamento circolare tutta la natura prendeva parte.
In questa prospettiva, ci è facile intendere il celebre frammento di Eraclito: “La stessa cosa sono il vivo e il morto, il desto e il dormente, il giovane e il vecchio: questi mutando trapassano in quelli e quelli ritornano a questi.”
Nella Grecia antica, il cosmo è immaginato in termini sferici, immobile come la “ben rotonda sfera” dell’Essere parmenideo o in movimento perpetuo come il fuoco eracliteo, “che a tempo debito – ciclicamente – s’accende e a tempo debito si spegne”. L’immobilità o la mobilità, l’Essere o il Divenire, in un certo senso, dipendono dal punto di vista del soggetto che leva gli occhi al firmamento: ma la sua “solida sfericità” o la sua “fluida circolarità” non vengono messe in questione. Costituiscono un’evidenza originaria.
Ad immagine e somiglianza della volta celeste l’uomo antico costruisce la sua dimora comune, erige le mura “circolari” della pòlis. Il circolo è sacro presso tutte le culture, da un capo all’altro del mondo. Sacro per il popolo dei Sioux, che lo dividono in quattro parti, quattro come i punti cardinali, quattro come le stagioni e le fasi della vita umana. Sacro per gli antichi Germani, il rund, il cerchio della tribù, sia in senso reale – i confini del villaggio – sia in senso metaforico, la gente che la compone. Round, rotonda è la tavola intorno cui si siedono i mitici cavalieri di re Artù.
Con l’avanzare del Cristianesimo – cui corrisponde un’idea di tempo e di storia completamente diversa da quella del mondo antico – il sacro si volge in “magico”, la visione divina della circolarità del tempo e delle stagioni in “paganesimo”, superstizione del villico, presenza diabolica che si manifesta nel sabba stregonico, nel circolo incantato che viene tracciato sulla nuda terra, che protegge ed occulta nel medesimo tempo la strega, colei che nel cerchio sta fissa, “centrata” o che gira in tondo, entusiasta, con le sue compagne. A guidare la danza non è più Dioniso, il dio-fanciullo, ma la sua riedizione in chiave antipagana, il dia-bolus, il grande nemico, che dagli antichi satiri, ispiratori della tragedia antica, eredita l’armamentario simbolico caprino: zampe e zoccoli, barbetta e corni.
La modernità sembra impegnata in una progressiva opera di distruzione dell’idea viscerale di circolo. Nella filosofia di Giambattista Vico le grandi stagioni dell’umano si avvitano a spirale intorno alla retta del tempo storico. Il “cerchio” di Nicola Cusano, che in pieno Quattrocento può ancora rappresentare, a buon titolo, il “divino”, lontano erede dell’indeterminato à-peiron anassimandreo, il “senza confini”, o dell’Uno neoplatonico, si distende allargandosi vieppiù negli assi cartesiani, si smaterializza tendendo all’infinto, si trasforma progressivamente in concetto tecnico-matematico, contraendosi nell’otto adagiato della matematica moderna. Da organismo microcosmico, il corpo umano si muta in macchina. Il “cerchio infranto” diventa così metafora di dis-armonia tra uomo e natura. La tracotanza della téchne baconiana – nosse est posse – mira ad infrangere i confini della “ben rotonda sfera”, a violare la legge eterna di anànche. La natura non va più contemplata, ma sezionata per poter essere dominata.
Che cosa è cambiato nella percezione che l’uomo ha di se stesso e del mondo? Come si diceva, il Cristianesimo ha introdotto in Occidente un’idea diversa di Tempo. Il Dio ebraico dell’Antico Testamento, di cui Cristo è figlio ed erede, sembra essere avverso alla ciclicità. La Creazione dell’universo è atto unico, irripetibile. Con essa ha inizio la Storia, che ha un andamento rettilineo, teleologico, escatologicamente orientato verso l’Ultimo giorno. Da Dio si ritorna a Dio, ma il cammino dell’uomo non si piega più su se stesso, non gira in tondo, non segue più il corso del firmamento. Il suo smarrimento è de-siderante (“sceso giù dalle stelle”, latino de-sidera), vive la lacerazione della trascendenza, dell’esser-gettato-nel-mondo. L’unico tramite, ciò che dà senso e significato ad una Terra in cui il vivere non è più “per-fetto” (per-ficio, latino, completo, concludo, faccio a tutto tondo), è il Cristo, il Dio fatto uomo: “Io sono la Via, la Verità, la Vita.” Una Via rettilinea, comunque la si veda, con passaggi obbligati, irripetibili, laceranti. Il Senso della Terra, quello evocato dallo Zarathustra nietzschiano, si divarica, e divaricandosi si dissipa. L’anello è rotto, infranto. “Principio e fine non fanno uno” (Eraclito), perché dalla nostra prospettiva il circolo non è più vero. In altre parole, la vita non è più degna di essere vissuta come esperienza conchiusa in sé. Il suo significato ultimo le sfugge. Senza il Padre, senza il Suo Bene e Male, siamo orfani e la Terra assomiglia ad uno sterminato orfanotrofio.
È come se, geometricamente parlando, il circolo, sinonimo di unità ed armonia tra uomo e natura, fosse stato spodestato dalla semiretta orientata, dal vettore frecciato: il missile che mira a lacerare il limite estremo, il cielo delle stelle fisse. L’universo tolemaico e la sua adamantina circolarità esplodono nell’infinitezza del mondo newtoniano.
La modernità laicista e tecno-scientista, quella che ha dato il colpo di grazia al Dio cristiano – quanto meno a livello sociologico, fatta salva l’individualità della scelta di fede – pure ne ha conservato in vita l’eredità più coercitiva, ovvero la nozione di tempo lineare. Non è più la Provvidenza a guidare i nostri passi, bensì il Progresso. Che non va verso Dio, oramai defunto, anzi non sa proprio in che direzione andare. Va e basta. Il suo è un andamento – apparentemente – rettilineo. Procedere innanzi, sempre innanzi è la parola d’ordine della téchne, della legge dell’utile e del profitto che scandisce le opere e i giorni della nostra quotidianità sociale. Produci, consuma, crepa: ma non chiederti perché. È superfluo.
Ma è proprio sul territorio del “superfluo” che si gioca la partita della philo-sophia, nella sua veste pratica ed esistenziale. La filosofia, oggi a maggior ragione di ieri, non serve a niente. Fa domande, chiede perché. Pone questioni di senso e significato. Crea disagio, imbarazza, perché non serve ad anestetizzare, né ad intrattenere. Non cura, perché non “oggettivizza” l’uomo. Gli lascia la terribile dignità e responsabilità d’esser soggetto che si prende cura di sé.
In questo orizzonte, il cerchio rappresenta un codice di geometria esistenziale che varrebbe la pena riscoprire. Dal circolo nulla resta escluso. Ogni punto è equidistante dal centro. È conchiuso, eppure la sua percorribilità appare infinita. Si “svolge” eppure ritorna su se stesso.
Se il tempo fosse circolare, come lo concepivano e lo vivevano gli antichi, non ci sarebbe alcun “al di là” a turbare i nostri sogni, nessun fine da realizzare, niente di ulteriore che non sia già qui. Ma il tempo non “è” un dato in sé, non sta da nessuna parte: è la nostra visione, siamo noi gli “abitatori del tempo”. Se non pensassimo di “perdere tempo” o di dover “impiegare il nostro tempo” per conseguire questo o quello, l’illusione metallica della téchne, col suo “tempo spazializzato”, di colpo svanirebbe come fanno i sogni al risveglio. Tutto è perfetto, in ogni momento, perché dall’attimo occhieggia l’eternità, perché ciò che non si stende in avanti, precipita in fondo, è assorbito dall’acquosità insondabile del Tutto.
È opinione comune che la dimensione del “mistico” si collochi in un al di là inarrivabile alla maggior parte di noi, in una sorta di regno fatato in cui si trastullano santi monaci e matti da legare. Eppure, a ben guardare, è qui, è sempre stato davanti ai nostri occhi. È nel presente. E se provassimo a mettere a tacere per un po’ la nostra filodiffusione mentale, finiremmo col prestargli ascolto. Ma parliamo troppo – io per primo – e abbiamo dimenticato come si ascolta. Chi non sa ascoltare non sa dialogare. Non si connette, non si “volge in giro”, va per la tangente. E la sfericità del Tutto non ammette scorciatoie.
In tutte le tradizioni filosofiche e religiose del mondo, da Montecassino a Delfi, da Lhasa a Kyoto, la pratica della “con-centrazione” sul momento presente, l’unica realtà alla quale abbiamo accesso, è sinonimo di “perfezione”. La sensazione che l’accompagna, per via di metafora, è quella dello scorrere dalla superficie della sfera al suo centro, muoversi nell’immobilità, assistere al roteare del Tutto da una posizione privilegiata. Appetire il centro di gravità del nostro essere.
È lo stato di grazia del sentirsi tutt’uno con quello che si è e che si fa qui ed ora. Friggi l’uovo se stai friggendo l’uovo. Ama se stai amando. Ascolta se qualcuno ti sta parlando. Tutto qui.
Se il tempo è circolare, come canta Zarathustra, tutto quello che stiamo vivendo ora, lo abbiamo già vissuto e tornerà in eterno sempre identico a se stesso. Non abbiamo alcun peccato originale da espiare, nessuna meta da raggiungere, salvo l’essere presenti a noi stessi. Torniamo ad essere innocenti come bambini, creativi coi colori che abbiamo dentro, puri con tutto il nostro bagaglio di ricordi, quieti con il nostro travaglio.
L’ipotesi di un tempo esistenziale ad anello, ad esempio, ci costringerebbe a ripensare – in sede di analisi autobiografica – la comune nozione di “senso di colpa” relativa al nostro passato, o di “ansia di prestazione” volta al futuro. Passato e futuro – ci suggerisce la splendida metafora della porta-attimo in Così parlò Zarathustra. Della visione e dell’enigma – sono due strade che si dipartono in direzioni diverse dallo stesso punto e che nello stesso punto s’incontrano: “Ma chi andasse avanti per una di queste strade e sempre avanti e sempre più lontano -, credi tu, o nano, che queste strade si contraddirebbero eternamente? Tutto ciò che è diritto mente, mormorò sprezzante il nano. Ogni verità è curva; il tempo stesso è un cerchio.”
Amare il proprio destino rendendo lode all’inviolato. Abbandonarsi e lasciarsi condurre in giro. Il resto è sogno che dobbiamo imparare ad osservare con benignità.
FONTE
“Differenze tra biofili e necrofili” (Testo del 26.04.09)
Ecco la differenza tra “biofili” e “necrofili”. Ecco il concetto che cerco di trasferire all’esterno… e sul quale cerco da anni di realizzare una sorta di network!
Vi voglio raccontare un aneddoto. L’ho inventato per meglio trasferire un pensiero.
Immaginate dei bimbi nel cortile delle Elementari in una bella mattina di Maggio: corrono, strillano, ridono, cadono… due secondi di lacrimoni e poi si torna a correre! Tutti uguali con il loro grembiulino azzurro… ma tutti diversi.
Sotto un platano si è formato un gruppetto: un bimbo -contravvenendo alle regole- ha portato da casa un bel camion-gru! E’ un oggetto molto desiderato, pubblicizzato su tutti i giornalini, costa molto e solo i più “fortunati” possono averlo!
I “giovani carbonari” si stringono a cerchio intorno al fortunato proprietario per ammirare il tesoro, celandolo alla vista della maestra.
Il bimbo al centro dell’attenzione è euforico:il rischio, l’ammirazione dei compagni, l’adrenalina a mille… gli fanno provare un momento di gioia immenso! I compagni chiedono di poter toccare, provare, godere di quel tesoro… e lui lascia fare, gettando solo l’occhio che nulla venga danneggiato dall’inesperienza degli amici.
Perché non dovrebbe lasciarli giocare, sono minuti, lui potrà giocarci tutta la sera!
Uno in particolare si è impossessato dell’oggetto allontanandolo dagli occhi degli altri… è il più aggressivo del gruppetto. Il “fortunato” cerca di riprenderlo: “lascialo anche agli altri, guarda che Eleonora non l’ha ancora visto (… quant’è bella…)”. I toni sono pacati… non bisogna attirare le attenzioni della maestra!
Suona la campanella: l’intervallo è finito.
Rapidi! Si deve ri-nascondere il gioco nel contenitore della merenda!
Ma l’aggressivo non pare voler mollare l’osso. “Lo tengo io”, dice “te lo riporto domani”.
Quello che sino a pochi attimi prima era il “fortunato” sgrana gli occhi: “No. Non è possibile”… “E se te lo sequestrano gli insegnanti?”… “E poi cosa dico qs sera a casa se mamma non lo vede?” “No. Lo riporto domani, tranquillo.”
La tensione tra i due è tangibile. Poi un lampo negli occhi dell’aggressivo: “Allora crepa”” TAC!
La gru ora è a terra. Le schegge di plastica ovunque.
Il primo pugno non tarda ad arrivare… e poi la reazione, le grida dei compagni, la rissa è fatta.
Arrivano gli insegnante a dividere i due. Rapidamente si fanno sparire i pezzi della gru nelle tasche e nella polvere.
Dopo, in aula, la maestra riprende i ragazzini: “Cosa è successo?”
“Nulla signora maestra”.
“Perché avete portato un giocattolo a scuola? Non conoscete le regole?”.
“Ma quale giocattolo…”
Da dietro le gonne della maestra compare una compagna con lo sguardo rivolto a terra: sul viso un misto di vergogna e soddisfazione… silenziosamente e lentamente va a sedersi al proprio banco.
“Scusi signora maestra…”.
Nessuno di noi ha chiesto di venire al mondo. Nessuno di noi ha chiesto di soffrire i dolori provocati dall’attrito col mondo. In ogni sua forma.
Ma tant’è che siamo qui e c’è il dolore. E forse… meno male! Se è vero che gli estremi sono le due facce della stessa medaglia!
La differenza tra “biofili” e “necrofili” è nella Speranza. Nella volontà di portare avanti un lavoro quotidiano per risolvere le proprie paure e dilatare i propri limiti al fine di conquistare ogni giorno fiducia in se stessi e certezza che quelle mete ambite sinceramente nel profondo si conquisteranno. Proprio perché rappresentano la realizzazione della nostra esistenza, il legame con la scintilla della vita.
Così i biofili non si fanno passare il tempo addosso: ogni attività che svolgono, anche la più semplice e ludica, è un pezzettino di lavoro per migliorarsi e migliorare il mondo.
Così i biofili non si piangono addosso, non si lamentano lagnandosi, non fanno polemica e sterile critica, non fanno ne sono “furbi”, non “spaccano il giocattolo del compagno, ne fanno la spia alla maestra”, non conoscono l’invidia poiché sanno che -col dovuto impegno e pagandone tutto il prezzo al costo di grandi sacrifici- anche loro avranno prima o poi quel giocattolo… o forse uno migliore! E sarà una gioia condividerlo a loro volta con gli altri…
La differenza tra “biofili” e “necrofili” è nell’Amore.
I biofili sanno che l’energia che unisce e muove il loro mondo è l’amore, l’amore dono sincero.
In ogni evento, per provocare movimento ci deve essere energia “attivativa”. Solo donando e investendo energia iniziale si può attivare il movimento… è un grande rischio con scarse probabilità di successo… ma senza il soddisfacimento di questo requisito diventerebbe tutto freddo e immobile. Sarebbe il trionfo della Necrofilia! E tanto basta per provare!
I biofili danno un profondo e meditato significato a termini quale “amore”, “coppia”, “rispetto”, “fiducia”, “onestà”, “fedeltà”, “sincerità”.
Pertanto amano alla luce del sole contro tutto e tutti il soggetto loro complementare sia esso un compagno/a, un animale d’affezione, un’attività lavorativa o artistica. Non conoscono pregiudizi, non conoscono vizio, non conoscono ombra… e in nome di questo amore, che è parte di se stessi nel mondo, sono disposti a tutto.
Infine i biofili sanno di essere collegati tra loro empaticamente, perché l’aver reagito al dolore della vita in modo simile fa parlar loro naturalmente la stessa lingua. Per loro nel mondo non esistono il bene e il male, il giusto e lo sbagliato… non esistono persone migliori o peggiori, poiché se siamo qui un perché ci sarà, pertanto siamo tutti utili e necessari!
Per loro nel mondo esistono decisioni e conseguenze… il cui frutto permette a un individuo di sviluppare o meno caratteristiche biofile e divenire, col tempo, un attivo membro della GEE!
Ancora riflessioni sui concetti di biofilia e necrofilia… (testo del 25.08.2013)
Non posso ora riassumere un percorso di 15 anni compiuto per depurarmi almeno parzialmente dalla visione del mondo inculcatami da Stato e Chiesa.
Ma il concetto centrale ruota intorno al fatto che dal manicheismo in poi, passando dal cristianesimo occidentale che ha dominato gran parte del mondo, sino alla tecnocrazia laica o atea contemporanea… tutto è sempre stato visto come bianco o nero, bene o male, giusto o sbagliato. Due poli in perenne contrasto. Un segmento con due estremi che non si toccheranno mai… dove al massimo sono contemplate tonalità di grigio tra una e l’altra.
Ma in tutte le altre culture del pianeta questo bipolarismo non è mai divenuto Fede, poiché non c’è mai stata la necessità di un Dio unico e di una classe dominante creata “da lui” per imporre con la violenza il suo credo sugli altri!
Taoismo, Buddhismo, Zen, Celtismo, culture norrene, indiana, lappone, maya, animismo e potrei citartene mille altre… vedono la complementarietà dei due estremi, non l’antagonismo.
Avete presente il simbolo del Tao?
Bianco e nero NON rappresentano bene e male… ma un principio creativo/aggregativo (la neghentropia o biofilia in termini moderni) e un principio disgregativo/distruttivo (l’entropia) che si completano e rigenerano a vicenda in un ciclo infinito… come l’araba fenice!
Quindi nella mia visione del mondo ci sono SOLO colori, ognuno con la sua sfumatura dal chiaro allo scuro.
Biofilia e Necrofilia, Luce e Ombra (notate che è ben diverso dal dire “bianco o nero”!) rappresentano solo la direzione scelta arbitrariamente dall’individuo nel suo agire… così come quando guidi da Torino a Milano segui una retta ma avanzi, arretri, curvi, così nel cammino esistenziale si compiono scelte in direzione di uno e dell’altro polo contemporaneamente.
Tutto ciò indipendentemente dal concetto di bene e male. Poichè possiamo approvare, condividere, emulare o meno… ma nessuno può giudicare una scelta, nemmeno un Dio.
Premio e castigo sono nella serenità e nella disperazione del quotidiano… nelle notti trascorse serenamente o rivoltandosi nel letto, nel potersi o meno guardare negli occhi la mattina facendosi la barba.