Il re: voglio solo la gioia dei miei sudditi
E il potente vicino finanzia la spesa pubblica
THIMPHU (Bhutan) – Tutto è iniziato come per caso. Nel 1974, nel giorno della sua incoronazione, un teenager con la faccia da bambino invitò i suoi sudditi a respingere le convenzioni del resto del mondo. Benché reggesse il Bhutan dalla morte del padre due anni prima, il diciottenne Jigme Singye Wangchuck stava diventando allora il sovrano più giovane al mondo. Nessuno vi prestò molta attenzione. Il sistema di Bretton Woods era appena crollato, lo choc petrolifero infuriava, la passione per la crescita economica stava per scatenare le rivoluzioni di Reagan e Deng Xiaoping.
Ma il luogo in cui il re ragazzino saliva al trono è uno dzong, palazzo metà fortezza e metà convento sull’Himalaya. In un trionfo di sete e monili che altrove sarebbe risultato grottesco, alla destra del re sedeva il lama-capo del buddhismo tantrico bhutanese. Di recente erano state costruite alcune strade per collegare il Paese al resto del mondo e un gruppo di dignitari stranieri assisteva al rito. «Sarò felice se i bhutanesi saranno felici – disse quel giorno il sovrano – Non credo ci sia altro che un re possa desiderare».
Sarebbero passati 35 anni prima che qualcuno fuori di lì se ne accorgesse. E non sono ancora le parole taglienti che il «Re Drago» avrebbe riservato anni dopo a un intervistatore del Financial Times, che lo incalzava sul perché il Pil del Bhutan crescesse meno di quello cinese. «La felicità interna lorda è molto più importante del prodotto interno lordo», replicò il re quella volta. Ma la strada del Bhutan era già segnata. Poco dopo l’incoronazione il quarto re partì per l’India, la grande protettrice del Bhutan; le foto dell’epoca mostrano un ragazzo concentrato e la sua splendida sorella Dechen Wangmo, prima consigliera, seduti ai lati di un’Indira Gandhi non si sa se più annoiata o infastidita. Di recente Dechen Wangmo si è rasa i capelli a zero e ora vive in un convento in un’alta valle deserta ai confini con il Tibet. Anche il Re Drago quattro anni fa si è auto-deposto, scatenando momenti di panico fra i bhutanesi: ha prima rinunciato ai poteri di monarca assoluto (il figlio, suo successore, è un sovrano costituzionale), quindi ha introdotto la democrazia. Senza, sarebbero mancate le condizioni della felicità.
Oggi l’ex re abita isolato in un minuscolo cottage di legno di pino, in una valle così stretta da diventare subito una gola oscurata dalle conifere. Non vede quasi nessuno, non viaggia, passa del tempo leggendo su un iPad qualche novità editoriale americana; non vuol far parlare di sé e Lungtaen Gyatso, un monaco di alto rango che in passato ha lavorato con lui, sospetta che si dedichi soprattutto alla meditazione religiosa. Ma per il Bhutan e la sua idea, è arrivato il momento del riscatto. Dal Giappone al Brasile, dal Canada all’Italia, i delegati del piccolo regno himalayano sono invitati sempre più spesso a spiegare il segreto della Felicità interna lorda. Ora che i subprime sono crollati e la Cina è il primo inquinatore globale, tutti vogliono sapere perché in Bhutan persino i cani di strada sembrino toccati dalla tranquilla soddisfazione che si respira a Thimphu, la capitale. Centinaia di randagi si aggirano sazi, quasi puliti attorno allo dzong seicentesco che incarna insieme l’autorità laica e religiosa. Duecento metri più in là, non un passo oltre, un fumo bianco si alza dal luogo prescelto per il crematorio cittadino.
Il potere buddhista è così: ricorda di continuo a se stesso il carattere transitorio di ogni cosa nel cosmo, incluso il proprio. E non sarà un modello per tutti, ma ora anche in Europa c’è chi cerca le stesse chiavi della felicità, nel timore che il Pil – specie quando declina – non misuri davvero il benessere. Il Bhutan fa enormi sforzi per classificare e perseguire il suo modello. La sanità è gratuita, la scuola (e i libri di testo) anche, l’incidenza dell’Aids e il tasso suicidi o omicidi registrati sono fra i più bassi al mondo. Intanto il governo misura tutto: la prosperità, l’ambiente, il benessere mentale, la cultura e la religiosità, la vita sociale, la armonica divisione del tempo fra il lavoro e il resto. Ogni due anni il 12% della popolazione riempie un questionario di 70 pagine con domande e quiz di ogni tipo: sulle fonti di stress, il sonno perso nell’ultimo mese, il ricorso al medico, all’astrologo o allo sciamano in caso di malattia, alcol bevuto, il karma, la conoscenza dei candidati locali al parlamento, la qualità dell’aria.
«Piccoli come siamo, pur con i nostri problemi, abbiamo qualcosa di adatto per le aspirazioni dell’umanità», dice il ministro dell’Educazione Thakur Powdyel. Il ministro è un uomo minuto, addobbato di drappi fosforescenti e, a differenza dei lama, tipi spicci e robusti, parla come un prete. La sua visione del Bhutan del futuro «è un monaco che legge i testi sacri mentre la sua cena cuoce ai raggi laser». Ma si dà da fare: l’educazione copre il 17% – gli scappa detto – «del Pil» e quando il sondaggio del 2008 ha segnalato un aumento dei livelli di stress, il ministro ha reagito. In tutte le scuole è stata introdotta la meditazione per dare ai giovani uno strumento di autocontrollo e relax. Si socchiudono le palpebre, gli occhi fissi su un punto, la sommità della lingua fra gli incisivi e il palato, la mente concentrata sul respiro. E per cinque minuti in ogni classe del Bhutan si fa silenzio. Poi però si fa lezione tutto il giorno in inglese.
Per volontà dell’ex re, in nome della laicità del governo la nuova costituzione toglie il diritto di voto ai monaci, prevede l’impeachment per la monarchia e il pensionamento obbligatorio del sovrano a 60 anni. Neanche lui può tagliare un albero senza permesso, perché le foreste devono coprire almeno il 60% del Paese. È proibito cacciare, pescare, vendere sacchetti di plastica o tabacco (ma c’è il mercato nero) e per chi traffica gli oggetti d’arte dei templi è previsto l’ergastolo: pena commisurata a un danno inflitto a molte generazioni future. I contadini non possono uccidere le tigri o gli elefanti che devastano i raccolti. Il governo poi li compenserà, ma intanto l’Onu dà da mangiare a circa un bambino su tre.
Tutta questa ricerca di armonia in effetti ha un costo. Lo ha ancora di più per un regno popoloso come una media città italiana, chiuso com’è fra India e Cina, cioè quasi metà del genere umano, superpotenze dalla crescita furibonda e potenzialmente nemiche. Nel 2009 New Delhi ha finanziato il 37% della spesa pubblica di Thimphu e basta che smetta di mandare il sale o il gasolio perché il Paese si blocchi. Basta che riduca un assegno, perché l’obiettivo della felicità si allontani. In cambio del sostegno però l’India schiera i propri soldati al confine nord del Bhutan, lungo i pericolosamente vaghi confini del Tibet. Il premier bhutanese Jigme Thinley esclude una nuova guerra fra India e Cina come quella del ’62. Ma cinque anni fa l’esercito di Pechino ha lanciato una profonda incursione in Bhutan occidentale, definendo l’area territorio cinese.
Nell’antico, splendido monastero di Lam Taktshang, arroccato su un crinale a tremila metri in quella zona, il Lama Kado evita per autocontrollo di guardare in faccia gli ospiti. Ma definisce l’isolamento del passato «un’epoca di oscurità» e guarda con favore alla lenta apertura del Bhutan al mondo. In una sala accanto cinque giovani monaci recitano mantra e suonano affacciati sulla vallata. Due dei loro flauti dalla melodia dolce e come soppressa, orlati in rame, sono ricavati da femori umani, a ricordo di come siamo tutti di passaggio e rinasceremo. Ma inutile chiedere di chi fossero gli arti. «Non so, vengono dall’India. Il commercio internazionale si sta sviluppando molto in Bhutan».
Federico Fubini
FONTE