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Psicologia: un buon capo ha la faccia larga, l’identikit del ceo perfetto

Per guidare un’azienda e portarla al successo bisogna metterci la faccia. Ed è meglio che sia larga, perché se un amministratore delegato ha un viso più sviluppato in ampiezza che in altezza ci sono più speranze che la sua impresa non deluda i mercati. Le performance di una società, assicura un gruppo di psicologi americani, dipendono anche dai tratti somatici del ‘boss’. A patto che sia maschio: se al timone c’è una donna, allora la faccia conta meno. Una conclusione alla quale Elaine M. Wong e colleghi dell’università del Wisconsin di Milwaukee sono giunti con tanto di studio scientifico su 55 chief executive officier maschi scelti fra quelli valutati nell’annuale classifica ‘Fortune 500’. La ricerca è pubblicata su ‘Psychological Science’, rivista dell’American Association for Psychological Science. Per spiegarsi meglio, l’associazione fa anche nomi e cognomi. “Chief executive officier con visi più larghi, come ad esempio Herb Kelleher, ex ceo di Southwest Airlines, ottengono performance migliori rispetto a ceo dal viso allungato tipo Dick Fuld, l’ultimo amministratore delegato di Lehman Brothers”. Quasi come a dire che, se il 65enne newyorkese avesse avuto un viso più ‘rotondo’, il crac della maxi banca d’affari Usa nel 2008 – primo atto della crisi economica mondiale tuttora in corso – si sarebbe potuto scongiurare. Gli stessi autori precisano che si tratta di uno studio condotto essenzialmente ‘a distanza’. “Amministratori delegati e top manager, in genere, non hanno il tempo di sottoporsi a lunghe ‘batterie’ di test”, spiega Wong. Pertanto “ci siamo basati sul contenuto delle lettere rivolte dai capi d’azienda agli azionisti, e su elementi di curricula relativi alla formazione e al background personale dei ceo”. Ma soprattutto, gli psicologi si sono concentrati sulle fotografie che ritraevano i visi dei manager ‘reclutati’. L’analisi ha coinvolto anche Margaret E. Ormiston della London Business School britannica. Il parametro esaminato potrebbe sembrare bizzarro, quasi ‘lombrosiano’. Eppure numerosi studi, ricordano gli esperti, hanno dimostrato che il rapporto fra larghezza e lunghezza del volto (gli anglosassoni lo chiamano ‘facial ratio’) è direttamente correlato all’aggressività di una persona. Un’associazione che però vale solo nei maschi e che probabilmente ha a che fare con i livelli di testosterone. In altre parole, diverse forme del viso ‘rispecchiano’ concentrazioni differenti di ormone della virilità nel sangue. Si è osservato ad esempio che i giocatori di hockey con facce più larghe scontano più minuti di punizione in campo. E in generale, gli uomini con visi più sviluppati in larghezza sono percepiti come meno ‘fidati’ e più sicuri del proprio potere.
(Adnkronos Salute)


Il “vaffa…” al collega è reato E costa anche caro

La sentenza della Cassazione:
un impiegato costretto a pagare 1800 euro
Il «vaffa…» è un’ingiura e può costare una multa più il risarcimento dei danni alla parte civile. Anche se pronunciato in un clima «di grande confidenza tra le parti» come tra colleghi di lavoro. La Cassazione torna su un argomento dibattuto sul quale si sono susseguite varie sentenze, analizzando il caso di un uomo di 50 anni di Roma impiegato in un ufficio protocollo, che beccato a leggere il giornale al lavoro dal suo capo, un viceprefetto gli si era rivolto con quell’espressione,aggiungendo anche la «minaccia»: «Tu fammi licenziare e io ti uccido».
L’uomo si era rivolto alla Suprema Corte per cassare la sentenza del tribunale di Roma che in appello aveva confermato la condanna del giudice di pace. A sua discolpa aveva sostenuto «la tesi della inoffensività delle espressioni e della natura goliardica delle parole pronunciate». Tesi alla quale la Cassazione non ha dato credito dichiarando inammissibile il ricorso, condannando quindi l’impiegato al pagamento delle spese processuali e quantificando il danno alla parte civile in 1.800 euro.
Si era sollevato un gran coro di critiche quando nel 2007, la Corte aveva sdoganato il «vaffa…» con la sentenza 27966 con cui aveva assolto un consigliere comunale di Giulianova (Teramo) dall’accusa di ingiuria, perché aveva mandato a quel paese il vicesindaco durante un consiglio comunale. Salvo tornare sui suoi passi nel 2010 per confermare la condanna di un uomo che aveva mandato a quel paese i vicini di casa.
FONTE


Cassazione: legittimo il licenziamento di chi registra le conversazioni dei colleghi a loro insaputa

La Cassazione, con la sentenza del 21 novembre 2013 n. 26143, ha confermato le motivazioni dei giudici di merito ed ha legittimato il licenziamento intimato a un medico dall’azienda ospedaliera ” per la grave situazione di sfiducia, sospetto e mancanza di collaborazione venutasi a creare all’interno della ‘equipe’ medica di chirurgia plastica dovuta al fatto che il medesimo aveva registrato brani di conversazione di numerosi suoi colleghi a loro insaputa, in violazione del loro diritto di riservatezza”.
Si legge infatti nella sentenza di un “comportamento tale da integrare una evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi, avendo registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in un ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione, utilizzandole strumentalmente per una denunzia di mobbing, rivelatasi, tra l’altro, infondata “.
Infine – conclude la Suprema Corte – la stessa Corte d’Appello ha, altresì, messo in risalto la reazione dei medici coinvolti, “che si concretizzò in una richiesta alla Direzione Sanitaria di adozione di provvedimenti necessari per la prosecuzione da parte di ciascuno di loro di un sereno ed efficace rapporto lavorativo, la qual cosa ha consentito ai giudici di merito di prendere atto del clima di mancanza di fiducia che si era venuto a creare nei confronti del ricorrente, fiducia indispensabile per il miglior livello di assistenza e, quindi, funzionale alla qualità del servizio, il tutto con grave ed irreparabile compromissione anche del rapporto fiduciario che avrebbe dovuto permeare il rapporto tra il dipendente e l’Azienda ospedaliera datrice di lavoro”.
(23/11/2013 – L.S.)
Fonte: (StudioCataldi.it)


Quello che le persone intelligenti non fanno sul lavoro

Travis Bradberry, cofondatore della società di consulenza aziendale Talentsmart, ha diffuso su Linkedin le nove trappole che le persone «intelligenti 2.0» evitano accuratamente. Ecco quali sono
1. Intelligenza emotiva / Il limite non sono mai gli altri
I leader intelligenti emotivamente non si fanno influenzare dal giudizio, sia positivo che negativo, dei superiori o collaboratori. Hanno capito che non si è mai tanto bravi o tanto incompetenti quanto gli altri affermano. L’autostima viene prima di tutto.
2. Intelligenza emotiva / Tenere una certa distanza aiuta
Le persone emotivamente intelligenti perdonano facilmente ma non dimenticano. Quando vengono coinvolti dai colleghi in una situazione sbagliata la registrano e passano oltre tenendone traccia, pronti a evitare che si ripeta in futuro.
3. Intelligenza emotiva / Lottare fino alla morte? No, grazie
Nelle dinamiche aziendali le occasioni di scontro, soprattutto nei periodi di crisi, si moltiplicano. I leader intelligenti, nell’affrontare le lotte, si pongono sempre come primo obiettivo quello di non finire mai a tappeto. Il gong suona prima del ko perché il giorno dopo e quello dopo ancora ci potrebbe essere un altro conflitto, magari più importante, da risolvere.
4. Intelligenza emotiva / La perfezione non è un obiettivo
Le persone emotivamente intelligenti non hanno la perfezione come loro obiettivo: sanno che non esiste. Gli esseri umani sono fallibili. E’ inutile quindi inseguire la perfezione a tutti i costi, questo atteggiamento porta solo a un continuo senso di fallimento.
5. Intelligenza emotiva / Il passato è alle spalle
Per i leader intelligenti i fallimenti passati vanno sempre archiviati. Le esperienze negative mal digerite potrebbero infatti intaccare la fiducia in sé e rallentare o rendere vana la spinta verso il raggiungimento di risultati migliori in futuro.
6. Intelligenza emotiva / Intestardirsi? Una gran perdita di tempo ed energia
Il leader intelligente non si blocca sulla natura dei problemi, cercandone le cause e i colpevoli, ma trova le soluzioni. Chi si fissa sulle difficoltà e non le supera aumenta le preoccupazioni e ostacola le proprie prestazioni professionali.
7. Intelligenza emotiva / Stare alla larga dai pessimisti
Anche se le persone negative hanno un loro polo attrattivo fuggirne è fondamentale. I Ieader emotivamente intelligenti fissano limiti e distanze da chi non fa altro che lamentarsi e chiedere aiuto. Invitare un collega lamentoso di trovare una soluzione al suo problema e a cercare un atteggiamento più propositivo alle sue preoccupazioni lo aiuterà di più rispetto alla mera compassione. Se non funziona meglio starne alla larga.
8. Intelligenza emotiva / Nessun rancore
Un altro sentimento nocivo dal quale allontanarsi è il rancore, fonte di stress e con conseguenze pesanti sia per l’agire quotidiano, sia per la salute. Il risentimento verso qualcuno che vi ha teso una trappola o fatto fare brutta figura va dimenticato. Le persone emotivamente intelligenti imparano in fretta a lasciarsi alle spalle questi eventi spiacevoli e trasformare l’astio in indulgenza prima e indifferenza poi.
9. Intelligenza emotiva / «No» è meglio di «ni»
Alcuni ricercatore dell’Università di San Francisco hanno dimostrato che non sapere dire no a richieste e appelli è causa, a lungo andare, di burnout e depressione. Le persone intelligenti sanno dire no in modo convincente senza usare formule effimere come “non credo di essere in grado” o “forse potrei ma non ne sono sicuro”. Sottrarsi a un impegno che si sa di non poter onorare è onesto e vi permette di portare a termine con successo quello che si stava già facendo.
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Cassazione: se il lavoratore dà dell’ignorante al capo, il licenziamento è sproporzionato

L’ingiuria rivolta dal lavoratore al proprio superiore, pur configurando un inadempimento degli obblighi contrattuali secondo la disciplina collettiva, non giustifica il licenziamento, poichè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare va valutata secondo le circostanze del caso e applicata solo in presenza di un inadempimento di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto.
È il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 14177 del 23 giugno 2014, in una vicenda riguardante il licenziamento di un lavoratore, irrogato per avere rivolto alla presenza di alcuni dipendenti “espressioni ingiuriose” nei confronti di un funzionario dell’azienda.
In riforma della sentenza di primo grado, la corte d’appello accoglieva la domanda del lavoratore, ritenendo che la sanzione non fosse proporzionata al comportamento addebitato.
La Cassazione, condividendo le motivazioni della corte territoriale, ha affermato che, per giurisprudenza consolidata, al fine di valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la quale “deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale; dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare”.
Anche nell’ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, la stessa, per la Cassazione, non vincola il giudice, poiché questi deve sempre verificare “se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all’art. 2119 c.c., e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore”.
Pertanto, secondo gli Ermellini, “il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c. , sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.)”.
Fonte: (www.StudioCataldi.it)


Le frasi da non dire mai a un capo

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L’onestà paga sempre. O meglio, quasi sempre. Perché a volte in ufficio (o comunque sul posto di lavoro in genere) possono verificarsi situazioni in cui sarebbe preferibile una maggior cautela dialettica per non compromettere o rovinare del tutto le possibilità di carriera. Insomma, va bene essere diretti e sinceri, ma con moderazione, soprattutto se l’altro interlocutore è il boss, davanti al quale è a volte più consigliabile peccare di eccesso di prudenza (da vocaboli) così da formulare poi un dialogo costruttivo e professionale piuttosto che farfugliare la prima cosa che viene in mente e rimpiangerla immediatamente dopo. E per conoscere quali siano le espressioni verbali che fanno perdere punti agli occhi del capo (o, peggio ancora, il lavoro) il sito “Business Insider” ha chiesto consiglio al “career coach” Ryan Kahn e alla sua collega Lynn Taylor, che hanno stilato queste 26 frasi da cancellare all’istante dal vocabolario lavorativo
«NON POSSO» – «Questa espressione denota una mancanza di fiducia in se stessi, ma anche una certa riluttanza nel voler correre dei rischi e nessuno di questi due atteggiamenti è positivo per il management», dice la Taylor – (Gallery a cura di Simona Marchetti, illustrazione di Umberto Grati)
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