I job quitters sono professionisti che scelgono di lasciare un lavoro per costruire progetti e un miglior equilibrio tra vita privata e occupazione. Cosa cambia per le aziende? Solo risparmi sulle buste paga?

Il mercato del lavoro lo fanno davvero solo le aziende? Il potere di negoziazione può passare nelle mani del dipendente, purché abbia imparato l’arte del distacco. Non si tratta di un’applicazione delle filosofie orientali (o forse si) ma dell’intraprendenza di alcuni professionisti di guardare se stessi come una nano-azienda e di affrontare il mercato senza legami vincolanti con i datori di lavoro, se non quelli derivanti dalla correttezza professionale. Si parla sempre di più di quitting economyl’arte delle dimissioni. O, se vogliamo, del nomadismo professionale.
Già quasi trent’anni fa Friedich Hayek e Milton Friedman spingevano il concetto del Ceo of Me, Inc. Ognuno, si diceva, è imprenditore di se stesso in un modello neo o iperliberista in cui l’individualismo è un valore che garantisce la performance. Nel mondo anglosassone si è già sperimentato questo modello, che, se si ha la forza di sospendere il giudizio e immaginare in modelli di network, può essere letto in diversi modi e soprattutto seguito nelle sue evoluzioni sociali e solidali. In questa metafora della persona come azienda a dettare le regole è soprattutto l’attitudine al cambiamento.
I vantaggi per l’organizzazione
Si può pensare che l’idea del turnover sia una manna soprattutto per le aziende, rese meno responsabili della stabilità lavorativa delle persone. Secondo l’interpretazione di Reid Hoffman, co-fondatore di Linkedin, nelle scorse settimane in Italia per parlare di città connesse, i migliori lavoratori si muovono in maniera agile fra un’azienda e l’altra ed è compito delle organizzazioni, se vogliono prima o poi vederli tornare indietro, investire nella loro crescita, non tanto per trattenerli, quanto per lasciarli andare, almeno temporaneamente.
Secondo Hoffman, che sulla libertà di circolazione delle persone a livello professionale ha pubblicato negli anni scorsi con Ben Casnocha e Chris Yeh un libro, L’alleanza. Gestire il talento nell’era del networking, si è creato negli ultimi anni un rischio di claustrofobia lavorativa, con effetti sul malessere in azienda e conseguente cattiva gestione dei rapporti e dei risultati.
Il benessere aziendale è uno dei cosiddetti intangible (risultati non misurabili quantitativamente) che condizionano la capitalizzazione di un’impresa e che sono tenuti sotto stretta osservazione dagli analisti finanziari. In un’azienda in cui c’è stabilità lavorativa, ma malcontento e stagnazione della crescita personale, oppure in cui la specificità della formazione o dell’esperienza aumenta la paura di essere licenziati e di non potersi ricollocare altrove, esiste un alto rischio di disordini organizzativi, ma anche di rigidità e protezione rispetto al cambiamento, con conseguenze sull’innovazione. Occorre, secondo Hoffmann, Casnocha e Yeh, avere “fiducia nel capo che ti licenzierà”.
Il punto di vista dei job quitters
Se un tempo un buon posto di lavoro era quello a lungo termine, con benefit come la macchina aziendale e una buona assicurazione, per alcuni lavoratori il buon posto di lavoro inizia a essere rappresentato da quello che ti consentirà di passare al prossimo, magari aumentando lo stipendio. Il valore aggiunto è dato dal tipo di progetto che si può seguire, dalle tecnologie che si possono sperimentare e dalla possibilità di esportare le competenze acquisite.
Per chi ama il proprio lavoro inteso come attività creativa (anche rispetto al problem solving) e non come spazio sociale di appartenenza, la possibilità di entrare e uscire dai ruoli e dai progetti è per un certo tipo di lavoratori una manna. Se il neoliberismo ha dettato la regola che è il valore di mercato a essere la misura di tutte le cose, il lavoratore ha deciso di creare il suo mercato e la sua misura. Una carriera si costruisce quindi attraverso il passaggio a più aziende e più ruoli, i benefit sono misurati di volta in volta sulla base del work life balance (cioè l’equilibrio fra piaceri della vita e del lavoro), il tempo e lo spazio in cui lavorare diventano un aspetto da negoziare.
Anche la reputazione dell’azienda è un elemento di scelta fondamentale per aumentare la possibilità di essere desiderati altrove. Sempre meno persone cercano un lavoro che rischia di lasciarle per sempre alla stessa scrivania a fare cose che non danno più soddisfazione e non insegnano nulla di nuovo. Incredibilmente un lavoro è tanto più buono quanto più ti rende facile lasciarlo.
D’altra parte la cosa considerata più a rischio in un’economia turbolenta è non avere un proprio mercato e una forza di personal branding. A fare da magnete per i job quitters sono i progetti, in particolare quelli che consentono di acquisire competenze rivendibili all’esterno. E questo non sempre coincide con il progetto più importante per l’azienda. Riallineare i bisogni è una delle sfide più difficili. Anche il rapporto con i colleghi cambia. Invece di creare concorrenza all’interno dell’azienda, conviene creare relazioni potenzialmente positive. In questo modo, il collega che si sposta potrà diventare un prezioso ambasciatore che spende belle parole su di noi.
Questione di lealtà
L’ingrediente segreto che assicura da parte del lavoratore un tempo illimitato dedicato a perfezionare le proprie competenze è la passione, per questo in fase di selezione è ormai una caratteristica importante quanto la conoscenza dell’inglese. Questo requisito implica però scegliere un professionista che lavori sul compito e non sull’azienda. Quindi il job quitting aumenta o riduce la lealtà?
Nella cronaca sociale che già qualche decina di anni fa Richard Sennet aveva pubblicato nel libro L’uomo flessibile, si rilevava come la precarietà riduca il senso di appartenenza e l’orgoglio collettivo dei lavoratori e incida quindi sul senso di lealtà, con conseguenze di fragilità per la struttura aziendale ancor prima che per il lavoratore. Perdere un dipendente, soprattutto di valore, è uno dei costi più alti per un’azienda, che si ritrova a dover riformare personale e ricreare gli equilibri persi.
Alessandro Chelo, consulente di direzione ed esperto di gestione del cambiamento culturale nelle imprese, è più propenso a interpretare il senso di appartenenza che si sviluppa tradizionalmente nel mondo dipendente come fedeltà. Spiega: “La vera lealtà è la competenza. Chi lascia un’azienda da cui ha ricevuto formazione e occasioni di crescita, sarà grato e leale, magari parlando pubblicamente bene della propria esperienza e continuando a fare networking a favore dell’organizzazione che ha lasciato”. E aggiunge: “Questo è un atteggiamento garantito dalla qualità professionale dell’individuo. Altra cosa è la fedeltà generata da quelle relazioni di dipendenza che in fondo rappresentano il terreno ideale per il proliferare della cultura delle cordate”.
Secondo Chelo, così come le persone non cambiano a nostro piacimento e non diventano come vorremmo che fossero, anche le nuove epoche, come appunto le persone, vanno prese all inclusive. “L’epoca 4.0 è fatta di movimento continuo. Esso è spesso percepito come incertezza e talora come precarietà. Di fronte a questo stato di cose, le diverse generazioni hanno normalmente un atteggiamento molto diverso: gli ultraquarantenni tendono a perseverare nella ricerca di stabilità e sicurezza, i giovani tendono invece a mettersi in gioco nel nuovo scenario”, osserva. Mai come oggi, spiega Chelo, per mettersi in gioco è necessario mettere al centro la ricerca del proprio peculiare talento e il valore della responsabilità individuale. L’azienda ha la responsabilità di far crescere le persone al suo interno. “Paradossalmente – conclude l’esperto – quest’orientamento alla promozione della sua crescita, e libertà, è la ragione fondamentale per cui potrebbe scegliere invece di restare nell’organizzazione”.
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