La scorsa settimana, impossibilitato a proseguire i lavori all’Eremo ElGram causa meteo inclemente (e, aggiungo, -per fortuna- dopo tre mesi di siccità totale 😉), ho iniziato a scrivere la bozza di un nuovo “BroomGear – Il Bollettino della Gilda Esploratori Erranti”, focalizzata sulla necessità che provo, sempre più pressante e non rinviabile, di concentrare l’esperienza esistenziale sin qui compiuta in una sola casa e un solo progetto editoriale, così da sintetizzare appunti, scritti, disegni, progetti e passioni accumulati nel tempo in un’ “Opera Omnia” complessa ma logicamente ordinata. 

Il concentrarsi contemporaneamente di forti emozioni e le loro conseguenze sulla quotidianità, come i  tanti lutti che ci hanno funestato nell’ultimo periodo, i carichi di lavoro sempre più impegnativi, gli effetti della pandemia, la crisi economica, la guerra alle porte dell’UE e l’avvicinarsi del mio cinquantesimo compleanno… sprona e incita la mia psiche ad accelerare queste attività così da concretizzarle il prima possibile e poi, da questa sintesi, poter sviluppare nuove esperienze, esplorazioni, approfondimenti e prese di coscienza a livelli superiori. Perchè “Tempus fugit!” 🙄

E mentre cercavo online dei testi junghiani a supporto bibliografico del mio nuovo scritto… mi sono imbattuto in un testo di Enrico Ferrari sul “Sentimento della nostalgia”. Ho iniziato a leggerlo distrattamente… ma, riga dopo riga, mi ci sono ritrovato pienamente: dopo tanti anni di studi e ricerche ho finalmente scovato un articolo che illustra chiaramente (e con tanti spunti per ulteriori approfondimenti) il profilo psicologico del ramingo (emigrante e/o esiliato), dell’esploratore errante che sento di essere visceralmente e la cui esperienza esistenziale ho cercato di trasferire nella Gilda che ho creato oltre tre lustri fa.

Sono entusiasta e anche un po’ frastornato da questo evento. Un po’ come la tradizione ci narra di Paolo, folgorato sulla via di Damasco. Ora avrò bisogno di tempo per meditare su questi concetti e rielaborarli e approfondirli… ma è certo che siamo a una svolta: “conoscere il nome di una malattia è già una mezza cura”, dice la tradizione popolare!

Sono poi rinfrancato da tutti gli aspetti positivi della psicopatologia evidenziati dall’autore: nelle mie riflessioni ho sempre evidenziato il patimento della nostalgia delle mie valli natie e del mio costante sentimento “di non appartenenza” alle diverse realtà in cui ho vissuto durante il mio esilio. Ma ho sempre differenziato questa condizione dalla depressione, perché questa è statica e autoreferenziale, mentre l’altra è costruttiva, creativa, biofila. Seppur nella sofferenza… portatrice di grazia, bellezza e speranza. Che poi… la vita non inizia con un grido/pianto?

Inizio con il condividere i testi raccolti in questa settimana per chi volesse approfondire con me. Seguiranno le mie riflessioni.

 


Il sentimento della nostalgia. Necessità individuale, speranza collettiva

Enrico Ferrari

Lezione 2 di psicopatologia: l’esilio di Rinaldo

La seconda storia di vita cui ci rinvia il tema della nostalgia è quella di Rinaldo, uomo che nella vita è sempre stato in perenne ricerca di nuove amicizie e di nuove avventure, con tanto entusiasmo ma con una venatura di costante insoddisfazione. Sono soprattutto state quelle dell’adolescenza e della giovinezza le stagioni che, almeno nella memoria di oggi, gli appaiono come le più felici. Esse hanno costituito l’alternativa più desiderabile all’altra stagione invece patita dell’infanzia, dominata dalla anaffettività dei genitori. Una vita, si direbbe, alla ricerca di una dimora affettiva mai trovata, per questo dedita all’erranza con tentativi, cambiamenti, errori, tante esperienze. Una sorta di impossibilità alla patria, resa vera soprattutto oggi che Rinaldo è anziano e non riesce più a praticare l’erranza nelle sue declinazioni sensoriali, praticandola tuttavia sulle strade dell’immaginazione. Si sente un esiliato, ma pensa di esserlo sempre stato: straniero in ricerca, più volte preda dell’illusione dell’approdo definitivo, ma poi di nuovo preda della ricerca.

In analisi le sedute sono narrazioni nostalgiche, in continua oscillazione tra un presente desertificato anche dai dolori del corpo e la speranza che non saltino i ponti con il passato, perché non venga polverizzato il desiderio che ancora vi abita. Solo la nostalgia riesce ad arginare la ripetuta tentazione della morte volontaria.

È l’estraneità il grande contenuto della sofferenza di Rinaldo e, del resto, il grande tema della sua vita. Ci sono parole dal significato psicologico e antropologico che, sole, riescono a dire il significato di un’esistenza, come invece non sanno e non possono dire le parole delle diagnosi cliniche (la stessa diagnosi di depressione). L’estraneità di Rinaldo è un sentirsi sempre fuori, mai pienamente appartenente. Ma, allo stesso tempo, è motivo di erranza, di un costante andare verso. Rinaldo è estraneo e ne soffre, ma riconosce se stesso solo nel sentirsi tale.
Ancora una volta, la psicopatologia dà riscontro storico esperienziale alle più alte riflessioni filosofiche, forse perché svela i nuclei più profondi dell’esistenza umana. La parola tedesca per dire l’estraneità, Entfremdung, meglio si presta a segnalare la sua portata antropologica e a non relegarla nel ripostiglio svalutato dei sintomi. Così Heidegger, guidato dalla bussola dell’etimologia:

Ma che cosa significa fremd ? Con il termine fremdartig s’intende generalmente ciò che non è familiare, che non attrae, ciò che piuttosto pesa e inquieta. Ma fremd, la cui forma nell’antico alto tedesco è fram, significa propriamente: avanti, verso altro luogo, in cammino verso, incontro a ciò che ci è pre-riservato.
Ciò che è straniero cammina avanzando verso… Ma non erra senza destinazione e alla cieca. Ciò che è straniero va cercando il luogo dove potrà restare come viandante (Heidegger 1959, p. 48).

Rinaldo, oggi come sempre, si sente estraneo alla vita. Eppure, si è sempre inoltrato nel movimento della ricerca. La sua è nostalgia dell’erranza motivata dal sentimento di essere straniero. Fremd, ricorda Heidegger, è essenzialmente un camminare verso… Verso dove? L’esperienza della nostalgia sembra dire: verso l’originario. Un tornare a ciò che ha il sapore del proprio ma, altrettanto, del mai conosciuto e per questo nuovo. Un tornare che non si compie mai in un ritorno.

La condizione dell’estraneità viene così a saldarsi in Rinaldo con quella dell’esilio:
essere fuori dalla propria terra ma nella sua perenne ricerca e senza mai voler sostare nell’appagamento di averla trovata. Se l’esiliato è colui che abbandona ed è abbandonato dalla sua terra, questi rimane sempre collegato con l’abbandonata e il collegamento si rivela tramite il sentimento della nostalgia. Essa, paradossalmente, diventa il modo di salvaguardare (in virtù della lontananza che sollecita il pensiero) ciò di cui l’esiliato non ha mai potuto godere. La terra è terra simbolica, collocata nel tempo di un passato illimitato e non nei limiti dello spazio abitato. È l’esilio la vera patria, come allude Maria Zambrano nel felice titolo di una sua celebre raccolta di scritti. Perché, ricorda la filosofa spagnola (par excellence la filosofa dell’esilio), a differenza dello sradicato che non vive l’abbandono come definitivo, l’esiliato ‘sceglie’ di essere spossessato e ne sa l’ineluttabilità. Sa di poter vivere la patria solo nostalgicamente, sa che una patria davvero non c’è se non quella della sua ricerca, per cui teme un ritorno al passato nella concretezza dei fatti. La patria della storia non coincide con la patria dell’originario. La prima non è mai sufficiente a mettere fine all’erranza verso la seconda. Il luogo dove si potrà restare, ricorda Heidegger, è solo il luogo in cui vivere da viandante.

L’esilio di oggi di Rinaldo può anche essere inteso come la rappresentazione della vecchiaia: nella dialettica tra erranza delle esperienze e nostalgia interiore, è la seconda a insistere più intensamente. Il movimento dei sensi si riduce e lascia spazio al movimento dello spirito; l’illusione del possesso si fa sempre più rara e l’ampiezza dello scarto tra desiderio e suo compimento si dilata. Ci sono vite umane in cui tutto ciò uccide il desiderio, altre in cui il desiderio si fa più puro.

La grazia della nostalgia
La nostalgia, come ricorda Maria Zambrano, è desiderio di far nascere. Per questo motivo non può coincidere con la malattia depressiva, dove il desiderio langue e il passato si ammutolisce in un paesaggio di pietre dure, riluttanti a ogni movimento di trascendenza. Ed è distante dalla posizione della rabbia, il cui desiderio non è quello di far nascere ma di distruggere, infrangendo non solo l’immagine del passato ma anche l’ulteriorità di un futuro possibile. È la trascendenza a caratterizzare la nostalgia, nel dischiudere l’origine all’originario che oltrepassa la storia e nel dichiarare l’insufficienza del presente. Tutto ciò, ancor prima di ogni riflessione, genera un sentimento di bellezza. Se è vero che anche in un’epoca storica in cui trionfa l’azione netta e risoluta, in cui le radici e i progetti cedono il posto all’istante, in cui il profitto espugna la meraviglia… se è vero che anche oggi solo la bellezza potrà salvarci, la nostalgia è tra i vasi psichici che meglio ce la possono portare in dono.
La bellezza della nostalgia salda la condizione dell’esiliato, che tutti ci accomuna pur con diversa tolleranza emotiva, con il desiderio dell’originario. Il suo sentimento nasce dalla trascendenza del presente e della corporeità, dalla possibilità di guardare il vecchio scoprendovi il nuovo, dal contemplare lo scorrere del fiume eracliteo, dal gusto degli affetti che abbracciano un ampio ventaglio dove la tristezza e la gioia sono compagne. Anche il sentimento di perdita, girando le spalle alla logica, può diventare foriero di bellezza. Perché è la perdita a decentrare l’Io e a consentirgli un orizzonte che trascende la notorietà. Se accettata, la perdita che convoca la nostalgia mostra lo scenario dei possibili e chiude allo spettacolo della perfezione: delude e rattrista, ma in cambio può offrire una terra e un cielo più vasti, dove l’Io smette i panni del padrone per indossare quelli del viandante. E tutto questo è dono, grazia.

Che cosa significa? Che la nostalgia oltrepassa la corporeità immersa nella immediatezza dei sensi per accedere a una corporeità non più segnata solamente dal tempo cronologico. Questi è il tempo che inesorabilmente scorre e approssima alla morte, ma non interpreta appieno l’insorgere dei significati emergenti da un passato che non si può comprendere con la sola lente della misura temporale. Nel gioire e al contempo piangere di ciò che è stato e non è più, ma tuttavia è ancora perché i territori dell’anima non sono pienamente colonizzati da Kronos, il tempo della nostalgia è anche grazia: dono gratuito di senso, permesso dal passato ma nato altrove, dono di luce che dà parola anche al dolore che non può certo essere espulso o ignorato ma, al più, liberato dal suo mutismo. La grazia della nostalgia, inattesa, ricevuta e non cercata, è allora il possibile filo che unifica i diversi brani della psiche interpretati nel corso dell’esistenza. Il suo è un insostituibile contributo identitario: cogliere la nostra uguaglianza e la nostra differenza nel tempo, facendoci sentire allo stesso modo abitatori del presente, figli e orfani del passato, testimoni di un futuro imprendibile.

Il migrante è invece la figura antropologica che più conosce la nostalgia. Egli sa dell’ineluttabilità della perdita e sa che la sua speranza non può trovare l’approdo nel passato della storia. Piange la terra d’origine, ma ciò non gli impedisce di coltivare un futuro diverso dal passato. Il passato è ricordato non per riproporlo così come è stato, ma per sposarlo alla novità del presente e del futuro. D’altra parte, il passato non è mai costituito dai fatti ma dai ricordi dell’anima.
L’estraneità del migrante non è allora perdita identitaria per sé o minaccia identitaria per chi lo accoglie. La sua estraneità, che genera la nostalgia, assurge a immagine universale dell’identità umana: essere uguali e al contempo diversi lungo il tempo, figli delle origini ma anche della storia di vita, amanti della propria terra e allo stesso tempo inappagati da essa, uniti dal sangue e a volte più ancora dai nuovi legami che la storia procura.

DOCUMENTO ORIGINALE: 03_Ferrari

Enrico Ferrari, psichiatra e psicoanalista junghiano, è membro del Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) dove per anni ha ricoperto incarichi direttivi, scientifici e didattici. Ha lavorato nei servizi pubblici di Psichiatria e oggi esercita la libera professione a Novara. È stato relatore in vari convegni e ha pubblicato diversi lavori su temi di psicopatologia, psicologia analitica e fenomenologia. È autore di: L’ambiguità del patire (2014) e Finalmente ti scrivo (2016).


Maria Zambrano vedeva l’esilio come patria negli scritti ritrovati

di ALESSANDRA CISLAGHI

Essere esiliato, sradicato, rifugiato è la drammatica condizione di molti in questo tempo. A motivo della guerra o della miseria, si abbandona la terra in cui si è nati, facendo l’esperienza lacerante della perdita di ogni cosa e della propria identità. Ma non è solo questione d’attualità, il fenomeno dell’esilio è, infatti, antico come la storia umana. L’ha vissuto dolorosamente anche una delle maggiori protagoniste della storia della filosofia del ‘900: Maria Zambrano, filosofa spagnola, espulsa dalla sua patria a causa della guerra civile e della dittatura franchista. Era nata nel 1904 in Andalusia, terra d’incrocio di culture diverse (cristiana, ebraica, araba, gitana). Da esule trascorse quarantacinque anni oltreoceano, a Cuba, in Messico, a Puerto Rico, dove creò un pensiero dell’esilio. La situazione di estraneazione le apparve come la caratteristica comune di ogni essere umano. Si tratta di una rivelazione, che nasce dall’esperienza fatta nella propria carne, sentita in maniera viscerale. Chi non è sradicato può non accorgersi della somiglianza tra l’esilio e la nascita, che è un’espulsione, uno strappo, un inizio. «Era come sentirsi ancora una volta sul punto di nascere» – annota Zambrano – perché chi non era morto, nella tragedia degli eventi, scopriva di doversi destare e rinascere. Nella solitudine, priva di legami affettivi, senza protezione, l’esiliato è uno sconosciuto per gli altri, ma anche per se stesso, senza più punti di riferimento e di sostegno. L’esiliato sogna, il rifugiato progetta, lo sradicato delira. Questa forza immaginativa dà impulso a un processo di trasformazione, che è segno caratteristico della vita stessa. Nel delirio una ferita resta aperta e così anche la speranza. Nell’esilio – quale categoria di pensiero – si manifesta l’immensità della vita, che non ha confini ma che sta nell’abbraccio di un unico orizzonte. La terra d’esilio è uno spazio senza luoghi propri, che può assurgere a luogo metafisico. Lì, secondo Zambrano, albeggia la possibilità di pensare fuori dalle strettoie del razionalismo, affidandosi ad altre modalità conoscitive, che anche altre culture hanno coltivato: l’intuizione, la visione, la rivelazione, liberate dai dogmatismi religiosi. Chi pensa è qualcuno che vede e patisce. L’abbandono, conosciuto come il più irrevocabile sradicamento, può significare allora un privilegio per sé, seppure mai augurabile ad altri. Gli scritti di Zambrano sull’esilio sono una profonda testimonianza legata alla realtà storica del XX secolo e possono valere ora, al contempo, come straordinaria cifra interpretativa delle migrazioni che assillano il presente. La patria – osserva Zambrano – è il mare che raccoglie il fiume della moltitudine e, all’uscire da questo mare, soli tra il cielo e la terra, bisogna raccogliersi in se stessi e reggere il proprio peso, unificare la vita passata, tenerla in sospeso, sostenerla; bisogna pur vivere e dunque risalire, mentre si è diventati nessuno. In questa ripresa le radici sono nude. L’esilio si manifesta qui come una rivelazione dell’umano, nell’intreccio con quella passione che misteriosamente o poeticamente viene chiamata divina. La condizione dell’esule mette in piena luce il fatto di essere vivi, come esseri rigettati dalle onde, scampati a un naufragio, superstiti che la morte si è rifiutata d’inghiottire e che la vita porta e sostiene, e che perciò si sentono innocenti, che non possono fare altro se non nascere. La scoperta di non essere nulla – nemmeno mendicanti, ma soltanto solitari dentro se stessi, accusati di andarsene via senza avere neppure dove andare – ripropone il racconto dei miti d’origine, che parlano di una cacciata, di una fuoriuscita e dell’inizio della storia come noi la conosciamo. I testi della filosofa esule hanno una storia fatta di naufragi e di ricreazioni. Elaborati per un’opera che rimase incompiuta, in parte confluirono in altri libri o articoli, in parte rimasero in forma dattilografata o manoscritta e furono conservati alla Fondazione a Malaga che porta il suo nome. Ora quei testi sono raccolti in un volume e appaiono per la prima volta in Italia, nell’accuratissima traduzione e a cura di Armando Savignano: “L’esilio come patria” (Morcelliana, pagg. 234, euro 18). Savignano firma anche la premessa “L’esilio da fatto storico a categoria metafisica e mistica”. Ordinario di Filosofia morale all’Università di Trieste, Savignano è raffinato interprete della filosofia ispanica (Unamuno, Ortega y Gasset, Zubiri, nonché Don Chisciotte).

18 ottobre 2016

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