Il biologo francese Henry Laborit nel suo ha espresso un pensiero che fotografa il clima che si ritrova purtroppo in molte famiglie :
“Non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono molte altre meno evidenti da cui è difficile evadere, perché non sappiamo di esserne prigionieri”
La famiglia purtroppo può essere una prigione senza sbarre in quanto, quale prima cellula del complesso meccanismo sociale, è spesso teatro di violenze ed abusi a danno del coniuge più debole e dei figli.
Come è noto a qualsiasi giurista o operatore del diritto, all’interno di essa le condotte delittuose, mascherate da atteggiamenti di copertura, eludono prima facie qualsiasi sospetto di comportamento persecutorio.
Il termine “mobbing” venne utilizzato per la prima volta da Konrad Lorenz, nel descrivere gli attacchi di piccoli gruppi di animali contro uno più grande e isolato, per allontanarlo dal gruppo o dal nido.
Nel 1984 lo psicologo tedesco Heinz Leymann espose le ripercussioni di chi è costretto a subire un comportamento ostile e prolungato nel tempo da parte dei superiori e dei colleghi di lavoro.
Etimologicamente la parola mobbing deriva dall’inglese “To mob” che significa aggredire, attaccare, ecc.
Storicamente, risulterebbe spettare alla Svezia il primato di aver studiato per prima il problema del mobbing relativamente al Diritto del Lavoro.
Infatti, il Prof. Heinz Leymann dal 1980 promosse lo studio di questo fenomeno sotto un’ottica psicologica proiettata nei rapporti di lavoro.
In Italia, invece, il fenomeno venne studiato presso la Clinica del Lavoro di Milano sotto la Direzione del dott. Renato Gilioli.
Anche se alcuni studiosi del mobbing limitano il fenomeno all’ambito lavorativo, negando l’esistenza di un Mobbing Familiare e Coniugale, le ricerche ad oggi condotte e ancora in itinere dimostrano come, proprio in ambito domestico, il fenomeno sia forte e presente, tanto da aver dato vita ad un nuovo settore di ricerca della Criminologia che è quello della Criminologia familiare che tratta appunto i casi di violenza familiare.
Secondo Ege scopo del “mobbing” in ambiente lavorativo “è devitalizzare il “mobbizzato”, emarginarlo fino alla resa, inducendo il lavoratore alle dimissioni, a richiedere il prepensionamento per malattia professionale o creare le condizioni favorevoli al licenziamento, senza che si crei un “caso sindacale”.
Lo stesso Ege tuttavia nega l’esistenza del “mobbing familiare” in quanto intende applicabile il termine al solo contesto lavorativo.
Tale preclusione appare francamente paradossale e di scarsa sostenibilità: il concetto di “mobbing” deriva da un comportamento animale, e dunque o non lo si estende ad alcuna interazione umana o, se se ne accetta il “salto di specie”, ogni successiva limitazione è arbitraria, ed esso può applicarsi a qualunque contesto interattivo finalizzato all’estromissione di un individuo da un contesto cui questi legittimamente vuole o a ha bisogno di appartenere in qualche modo.
In ambito giuslavoristico, con l’espressione mobbing vengono individuate pratiche vessatorie poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro (Cass. SS.UU. sentenza 4 maggio 2004, n. 8438).
Si tratta della messa in atto di strategie persecutorie nei confronti di un lavoratore, ma anche più in generale di un’aggressione alla sfera psichica altrui (Cass. Sez. Lav., sentenza 8 gennaio 2000).
Lungi dal restare limitato a tale settore, il mobbing è stato richiamato ed applicato, da parte della giurisprudenza, anche ad altri ambiti, tra cui il diritto di famiglia. Rilevanti e particolarmente dannosi possono infatti essere quei comportamenti, protratti nel tempo, posti in essere dal partner vessatori, prevaricatori e umilianti, incidenti direttamente sulla sfera psicologica della persona. Anche perché se alle volte la condotta del «mobber» arriva ad integrare fattispecie di reato più spesso rimane un maltrattamento nascosto tra le mura domestiche.
Nel mobbing coniguale si verificano frequenti comportamenti finalizzati alla delegittimazione del coniuge e alla estromissione di questo dai processi decisionali riguardanti la famiglia o la prole. In alcuni casi si arriva a mettere in atto vere e proprie strategie persecutorie nei confronti dell’altro coniuge allo scopo di costringerlo a lasciare la casa coniugale o ad acconsentire ad una separazione consensuale pur di chiudere rapporti coniugali conflittuali.
Tale condotta deve essere ripetuta nel tempo e solitamente si traduce in insulti, provocazioni, rifiuto di collaborazione, imposizione della propria volontà, critiche continue o assoluta indifferenza nei confronti dei bisogni dell’altro. La reazione del coniuge-vittima è spesso un distacco emozionale, una perdita della propria autostima e della propria fiducia, fino alla presa d’atto dell’impossibilità di prosecuzione della convivenza.
Il mobbing coniugale, consiste in un attacco, continuo e intenzionale, nei confronti del proprio coniuge per metterne in discussione il ruolo, estrometterlo dalle decisioni o per indurlo a decisioni cui invece è contrario.
Segnali tipici sono :
• esternazione reiterata di giudizi offensivi e atteggiamenti irriguardosi nei confronti del proprio coniuge;
• atteggiamenti di disistima e di critica aperti e teatrali;
• provocazioni continue e sistematiche;
• rifiuto di collaborare alla realizzazione dell’indirizzo familiare concordato;
• tentativi di sminuire il ruolo in famiglia;
• pressioni per lasciare la casa coniugale;
• continue imposizioni della propria volontà in relazione a scelte che si rendano necessarie nel corso della convivenza coniugale;
• azioni volte a sottrarre beni comuni alla coppia;
• mancato supporto alla vittima nel rapporto con gli altri familiari;
• coinvolgimento continuo di terzi nelle liti familiari.
Il Mobbing familiare spesso rappresenta la logica evoluzione del mobbing coniugale, quando questo è causa di separazione o divorzio.
Si attua all’interno della coppia genitoriale. Una delle manifestazioni più diffuse del mobbing familiare è l’attuazione di una vera e propria campagna denigratoria contro l’altro genitore, non solo davanti ad amici e parenti, ma anche e soprattutto nei confronti del proprio figlio. A tale diffamazione si accompagna spesso il sabotaggio degli incontri tra genitore e figlio.
Nei casi estremi possono aversi due esiti, quali la Sindrome di Alienazione Genitoriale, vale a dire la piena adesione e partecipazione del figlio alla campagna denigratoria contro il genitore mobbizzato oppure la spontanea rinuncia ad esercitare il proprio ruolo da parte del genitore vessato che non ha più la forza e la voglia di combattere una battaglia infinita.
Il mobbing genitoriale consta dell’adozione da parte di un genitore, separato o in via di separazione dall’altro genitore, di comportamenti aggressivi preordinati e/o comunque finalizzati ad impedire all’altro genitore, attraverso il terrore psicologico, l’umiliazione, e il discredito familiari, sociali, legali, l’esercizio della propria genitorialità, svilendo e/o distruggendo la sua relazione con i figli, impedendogli di esprimerla socialmente e legalmente, intromettendosi nella sua vita privata.
Può essere attuato all’interno della coppia genitoriale in seguito alla separazione o al divorzio.
Si riconosce da alcuni segnali :
• sabotaggi delle frequentazioni con il figlio;
• emarginazione dai processi decisionali tipici dei genitori;
• minacce;
• campagne di denigrazione e delegittimazione familiare e sociale;
• critica continua del ruolo genitoriale agli occhi del figlio.
Così può accadere che al bambino non è permesso di uscire nelle occasioni stabilite in sentenza; non può essere raggiunto telefonicamente dal genitore non affidatario o questi non può parlargli con tranquillità, senza interferenze; è frequentemente malato in coincidenza con le date degli incontri o è impegnato altrove per decisione del genitore affidatario; nei giorni di scuola viene fatto uscire prima del termine delle lezioni in modo da non farlo trovare all’altro genitore andato a prenderlo.
Si giunge anche ad attuare la c.d.”relocation”, vale a dire il trasferimento del minore in una città o nazione la cui distanza dal domicilio dell’altro genitore, che tende a compromettere gravemente o a impedire del tutto gli incontri genitore-figlio.
Altri atteggiamenti tipici sono i commenti negativi in occasione di incontri, telefonate, contatti, commenti spesso portati avanti mediante allusioni e commenti non verbali attraverso sospiri, sguardi, toni di voce, mezze frasi oppure nascondere ogni oggetto che possa ricordare l’altro genitore o connotarne la presenza affettiva in casa del minore.
L’affidamento del figlio implica possibilità molto più elevate di mobbizzare l’altro genitore, e questo fa sì che non sia difficile imbattersi in quello che è stato definito “mobbing genitoriale reciproco”, in cui entrambi i genitori si producono in comportamenti tesi a espropriare l’altro della sua genitorialità.
In alcuni casi l’inizio dei comportamenti mobbizzanti è contemporaneo e reciproco, ma ciò avviene molto più raramente rispetto a quella che si riteiene la classica situazione di “mobbing genitoriale reciproco”, nella quale vi è dapprima un genitore che inizia a mobbizzare l’altro che poi, a sua volta inizia anche egli – in una guerra infinita soggetta a sempre peggiori escalation, soprattutto in virtù della collusione tra conflittualità giudiziaria e conflittualità genitoriale – a mettere in atto nuovi comportamenti mobbizzanti contro l’altro genitore.
Si parla di “doppio mobbing genitoriale” quando ci sono delle ripercussioni indirette sul nuovo nucleo familiare dei comportamenti del “genitore mobber” (es.: la nuova coppia senza figli, o con figli di altra unione, che diventa vittima del clima di mobbizzazione del quale è oggetto uno dei coniugi).
E’ denominato invece “mobbing genitoriale allargato” le conseguenze dirette dei comportamenti mobbizzanti su altri familiari del minore coinvolto.
Il c.d. mobbing indiretto o doppio mobbing si verifica nel caso in cui il licenziamento di uno dei coniugi fa si che questi riversi le proprie frustrazioni nell’ambito familiare tale da rendere intollerabile la convivenza. Precisamente si riferisce agli effetti del mobbing subiti da un lavoratore sul posto di lavoro che si ripercuotono violentemente sui rapporti coniugali e familiari.
Altra distinzione richiamata in dottrina è tra mobbing orizzontale o verticale, a seconda che le vessazioni avvengano tra soggetti in posizione paritaria (almeno formale), dando luogo al cosiddetto mobbing orizzontale, ad esempio tra coniugi, o sfruttando una preesistente posizione di superiorità, che legittima la nozione di mobbing verticale, come può avvenire nel momento in cui vittime della condotta vessatoria siano i figli.
Apripista in materia è stata una sentenza della Corte d’appello di Torino del 2000 che considerò rilevante, ai fini dell’addebitabilità della separazione, il comportamento in pubblico del coniuge ingiurioso ed offensivo, nei confronti dell’altro coniuge, caratterizzato dalle insistenti pressioni, “mobbing”, con cui il coniuge stesso invitava reiteratamente l’altro ad andarsene di casa.
La Corte di Appello di Torino ha ritenuto il mobbing familiare causa giustificante della addebitabilità della separazione: i “comportamenti dello S.( il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa e che il marito con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la T. (moglie) nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”; avuto riguardo “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni- fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene; ritenuto che tali comportamenti sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione”; conclude nel senso che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà”.
Va comunque in questa sede sottolineato come, pur essendo il fenomeno diffuso, rari siano i provvedimenti giurisdizionali che utilizzano l’espressione mobbing. Il fenomeno infatti rientra per lo più in altre problematiche, affrontate da copiosa giurisprudenza. In particolare i comportamenti del coniuge verso l’altro se vessatori o prevaricatori possono dar vita ad una dichiarazione di addebito, nonché ad una richiesta di risarcimento danni.
Si segnalano alcune pronunce dei Tribunali di merito :
Trib. Napoli Sentenza 24.01.2008
Secondo il marito, la moglie aveva posto in essere una sottile prolungata violenza psicologica ai suoi danni, concretizzatasi in un vero e proprio mobbing familiare, che lo aveva relegato ai margini della vita domestica, progressivamente escluso dalla comunione di letto e di mensa
Trib. Napoli Sentenza 27.09.2007
Il coniuge autore di reiterati atteggiamenti diffamatori nei confronti dell’altro – c.d. mobbing – nel ricorrere delle condizioni probatorie può ben subire l’addebito della separazione.
Trib. Milano, 10 febbraio 1999
E’ stata ammessa la possibilità di accedere alla tutela aquiliana nei rapporti fra coniugi. Nella specie, il tribunale era stato investito, nel corso del giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, della domanda riconvenzionale di risarcimento del danno per la carenza di rapporti sessuali fra coniugi a causa dell’impotenza del marito sin dai primi anni del matrimonio, che aveva provocato un danno biologico ed alla vita di relazione della moglie per mancata maternità. La conoscenza della malattia del partner da parte della moglie le aveva impedito di accedere al risarcimento del danno, in quanto il mantenimento del consortium familiare si era tradotto in una libera scelta della mogli e stessa. Nonostante i giudici di Milano avessero escluso categoricamente l’elemento fondante la responsabilità, l’ingiustizia del danno, hanno comunque sostenuto la piena compatibilità della regola generale di cui all’art. 2043 c.c. con quelle contenute nel diritto di famiglia e hanno fatto leva sulla natura giuridica, non soltanto giuridica di diritto soggettivo del coniuge e quindi meritevole di protezione.
Tribunale di Firenze del 13 giugno 2000
Nell’ambito della cessazione degli effetti civili del matrimonio, basata su ragioni di abbandono materiale e spirituale determinate da malattia psichica della moglie i giudici fiorentini hanno accolto la domanda di risarcimento del danno, basando la propria decisione su argomentazioni secondo cui “nel rapporto di coniugio i diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla salute, all’immagine, alla personalità, all’onore ecc., restano sempre e comunque sacri e intangibili, ogni aggressione merita la risposta punitiva da parte dell’ordinamento anche e soprattutto con il risarcimento del danno patito dal soggetto aggredito”
Tribunale di Salerno I Sez. Civ. 2011
In tema di dichiarazione di addebito, la lesione di diritti fondamentali della persona quali, da un lato, l’incolumità fisica e, dall’altro, la dignità dell’altro coniuge, oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e rispetto comunque necessaria e doverosa per la persona del partner, costituisce infatti, un comportamento insuscettibile di essere giustificato neanche se esso costituisse ritorsione o reazione al comportamento di quest’ultimo, tanto che si è statuito che, in siffatti casi, anche la comparazione con tale comportamento non potrebbe costituire un mezzo per escludere l’addebitabilità nei confronti del coniuge che quei fatti ha posto in essere (cfr. Cass. 07/26571, 04/15101).
Va comunque in questa sede sottolineato come, pur essendo il fenomeno diffuso, rari siano i provvedimenti giurisdizionali che utilizzano l’espressione mobbing. Il fenomeno infatti rientra per lo più in altre problematiche, affrontate da copiosa giurisprudenza. In particolare i comportamenti del coniuge verso l’altro se vessatori o prevaricatori possono dar vita ad una dichiarazione di addebito, nonché ad una richiesta di risarcimento danni.
La Corte di Cassazione, seguendo una nuova impostazione derivante dall’evoluzione giurisprudenziale in materia, con la sentenza n. 8862 del 01 giugno 2012 ha statuito che possono sicuramente coesistere la pronuncia di addebito ed il risarcimento del danno, considerati i presupposti, i caratteri e le finalità radicalmente differenti. Secondo i giudici della Suprema Corte a rilevare è proprio la qualità di coniuge e la violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio che, da un lato è causa di intollerabilità della convivenza, giustificando la pronuncia di addebito, dall’altro, si configura come comportamento che, incidendo su beni essenziali della vita, produce un danno ingiusto, con conseguente risarcimento, secondo lo schema generale della responsabilità civile. Infatti la responsabilità tra coniugi non si fonda sulla mera violazione dei doveri matrimoniali, ma sulla lesione, a seguito dell’avvenuta violazione di tali doveri, di beni inerenti la persona umana, come la salute, la privacy, i rapporti relazionali, etc.
La Corte ha precisato che la responsabilità tra coniuge o del genitore nei confronti del figlio, non si fonda sulla mera violazione dei doveri matrimoniali o di quelli derivanti dal rapporto di genitorialità, ma sulla lesione, a seguito dell’avvenuta violazione di tali doveri, di beni inerenti la persona umana, come la salute, la privacy, i rapporti relazionali, etc. (al riguardo, più in generale, Cass. n. 9801 del 2005 e, specificatamente sull’obbligo di fedeltà, Cass. n. 18853 del 2011, n. 610 del 2012). Si riteneva altresì che l’addebito, strumento peraltro più sanzionatorio che risarcitorio, non soffrisse la cumulabilità di ulteriori risarcimenti, salvo che vi fossero specifici danni patrimoniali ovvero il coniuge arrecasse danno all’altro, prescindendo dalla sua qualità in quanto mero soggetto danneggiante, come qualsiasi estraneo (ad es. con la propria guida spericolata).
Al contrario, secondo il nuovo orientamento, rileva proprio la sua qualità di coniuge e la violazione di obblighi nascenti dal matrimonio che, da un lato è causa di intollerabilità della convivenza, giustificando la pronuncia di addebito, con gravi conseguenze, com’è noto, anche di natura patrimoniale, dall’altro, dà luogo ad un comportamento (doloso o colposo) che, incidendo su beni essenziali della vita, produce un danno ingiusto, con conseguente risarcimento, secondo lo schema generale della responsabilità civile.
Possono dunque sicuramente coesistere pronuncia di addebito e risarcimento del danno, considerati i presupposti, i caratteri, le finalità, radicalmente differenti.
Gli strumenti giuridici con effetti definitivi per far cessare il mobbing sono la separazione ed il divorzio.
E’ possibile l’adozione di procedimenti cautelari nell’attesa della definizione del procedimento giudiziale ex artt. 671 e 700 c.p.c, che hanno una natura provvisoria e quindi in grado di dare solamente una risposta momentanea al problema.
Nel procedimento di separazione giudiziale il fenomeno del mobbing ha assunto rilievo ai fini dell’addebitabilità in seno alla separazione giudiziale: la violazione degli obblighi nascenti dal matrimonio, insieme con l’eventuale violazione di diritti personalissimi, trova una generale sanzione nell’addebitabilità della separazione a carico del coniuge che abbia tenuto un comportamento contrario ai doveri derivanti dal matrimonio (ex art. 151 comma 2 c.c.)
Il fenomeno del mobbing familiare, benché non fatto proprio con tale denominazione, né altrimenti definito dal legislatore, si ritiene recepito dalla l. 54/2006 in tema di affido condiviso. La condotta concreta del mobber è in questo caso quella del genitore che, non rispettando i provvedimenti adottati dal Giudice in tema di affidamento dei minori – provvedimenti evidentemente preordinati alla costruzione di un equilibrio nella gestione del minore da parte di un padre e di una madre non più legati dal vincolo e dall’affectio maritalis – esclude l’altro genitore dalla gestione della prole e dalla possibilità di creare con essa un rapporto sereno, non intaccato dalla fallimentare vicenda coniugale.
Questa è, forse, la forma più esecrabile di mobbing non solo perché plurioffensiva ma anche perché si tratta di un illecito civile che, nella sua duplice articolazione orizzontale e verticale, lede un minore.
Ai sensi dell’art. 709 ter quando insorgono controversie in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento, si propone ricorso al Giudice che, convocate le parti, adotta gli opportuni provvedimenti.
In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può:
• Modificare i provvedimenti in vigore;
• Ammonire il genitore inadempiente;
• Disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
• Disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
• Condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
Altro profilo di rilevanza dei comportamenti di mobbing è quello del risarcimento dei danni per violazione dei diritti di coppia. Sul punto la Suprema Corte, con la sentenza n. 9801 del 2005, ha riconosciuto che il rispetto della dignità di ciascun membro del nucleo familiare è un diritto inviolabile.
Non trascurabili sono anche le conseguenze che il mobbing può provocare sui minori. Dal punto di vista civilistico, è possibile richiedere la misura dell’allontanamento del genitore dalla casa familiare, quando il suo comportamento sia causa di grave pregiudizio per il minore (artt. 330 e 333 c.c., novellati dalla legge 149 del 2001).
Ad oggi molti Tribunali di merito hanno riconosciuto la risarcibilità del danno subito da chi è stato vittima di mobbing familiare.
Dal punto di vista penale, il reato di mobbing non è tipizzato nel nostro ordinamento, il mobbing suppone non un singolo atto lesivo, bensì una pluralità di atteggiamenti, i quali comportano una valutazione “complessiva” degli episodi dedotti in giudizio come lesivi.
Tali comportamenti complessivamente valutati, per assurgere a rilevanza penale, devono configurare un reato previsto dalla legge.
Se l’illecito rientra nella fattispecie di reato di cui all’art.570 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza familiare) o art.572 c.p. (delitto di maltrattamento in famiglia).
Sarà possibile utilizzare lo strumento introdotto dal legislatore con la Legge 154/2001 di tutela contro i soprusi nell’ambito della famiglia.
Altro esempio può essere il reato di minaccia (art 612 c.p.). Più difficilmente è riscontrabile il reato di lesioni personali (582 c.p.) o percosse (581 c.p.) che riguardano l’aspetto della violenza fisica e non di quella psicologica o economica (comportamenti volti a non rendere autonomo economicamente il coniuge).
La querela è lo strumento per far emergere la situazione di violenza, che tuttavia si dimostra poco efficace a causa dei lunghi tempi del processo penale, se non si accompagni all’irrogazione di una misura cautelare coercitiva, come ad esempio il divieto di dimora (ex art. 283 comma 1 c.p.p.).
La figura dell’avvocato specializzato è fondamentale più che mai.
Non deve essere soltanto qualificato da un punto di vista tecnico: non è purtroppo sempre valida l’equazione competenze giuridiche – difesa umana e corretta.
L’avvocato che intende occuparsi di diritto di famiglia deve affinare non solo le sue capacità tecniche ma affiancare alle stesse abilità di counselling e mediazione familiare, evitando ogni forma di eccessiva empatia e coinvolgimento diretto e attendendosi in maniera ancora più scrupolosa alle norme deontologiche della sua professione.
Avv. Assunta Giordano
Bibliografia :
Il mobbing familiare – Barbara Lavegas
Conflittualità nella separazione coniugale: il “mobbing” genitoriale – Gaetano Giordano
Il mobbing familiare e coniugale – Tilde Maisto
Mobbing familiare: la violenza celata! – Avv. Argia di Donato
Il Mobbing Familiare – Avv. Claudia Lugli
Mobbing e risarcimento del danno – Avv. Donatella Pesce
Casa di Bambola. Il mobbing in famiglia – Rita Marche
Fonte: La famiglia: una prigione dalle sbarre invisibili
(StudioCataldi.it)