Vivere in solitudine “altera” diverse connessioni cerebrali, in particolare quelle legate alla rappresentazione neuronale delle relazioni

Beata solitudo, sola beatitudo: secondo la saggezza popolare, solo separandosi dal mondo – e vivendo in solitudine, per l’appunto – è possibile trovare quiete e piacere. Un’idea parzialmente smentita dalla scienza: diverse ricerche, nel corso degli anni, hanno infatti associato la solitudine, tra le altre cose, a un maggior declino cognitivo e a un più rapido deterioramento dello stato generale di salute. E uno studio appena pubblicato su JNeurosci, la rivista della Society for Neuroscience, mostra che effettivamente la solitudine ‘altera’ il cervello, modificandone le connessioni e la rappresentazione delle relazioni.
Negli scorsi decenni – e ancor di più negli ultimi tempi, quando il lockdown ha imposto un regime di solitudine forzata – la comunità scientifica ha esplorato in lungo e in largo il tema, arrivando ai risultati più disparati. Uno studio pubblicato a marzo scorso sul server di preprint BiorXiv da parte di un’équipe di scienziati del Massachusetts Institute of Technology, per esempio, ha svelato che la solitudine da quarantena scatena nel cervello una sorta di ‘astinenza’ simile a quella provocata dalla fame. Un altro lavoro, pubblicato in tempi meno sospetti (nel 2017) sulla Psychological Science Agenda, organo della American Psychological Association, ha passato in rassegna e messo insieme i risultati di centinaia di studi sul tema, mostrando che la solitudine è tipicamente associata a depressione, declino cognitivo e maggior rischio di insorgenza di demenza e ipotizzando che possa essere collegata a una disfunzione nei circuiti di ricompensa del cervello.
Torniamo al presente. Gli autori del lavoro appena pubblicato hanno studiato la corteccia mediale prefrontale (mPfc, acronimo di medial prefrontal cortex), una regione del cervello che, tra le altre cose, è deputata a ‘mappare’ le relazioni sociali dell’individuo, in modo più o meno marcato a seconda dell’intensità delle relazioni. I ricercatori, servendosi della risonanza magnetica funzionale, hanno analizzato l’attività cerebrale dei partecipanti allo studio mentre venivano indotti a pensare a se stessi, ai propri amici più intimi, ai conoscenti e alle celebrità. Nei soggetti che si erano dichiarati non particolarmente inclini alla solitudine, gli scienziati hanno osservato che a pensieri diversi corrispondevano diversi pattern di attivazione nella mPfc: uno per il sé, uno per le celebrità e uno per la rete sociale, che comprendeva sia amici che conoscenti. Quest’ultimo pattern ha mostrato inoltre una particolarità: più intima era la relazione con la persona evocata, più l’attività cerebrale diventava simile a quella osservata quando si pensava a sé. In soggetti non solitari ci sarebbe, insomma, una sorta di continuum nella rappresentazione cerebrale di sé stessi e delle persone più intime.
Per le persone sole, invece, le cose stanno un po’ diversamente. L’attività cerebrale legata al pensiero di sé è infatti risultata marcatamente diversa rispetto a quella legata al pensiero degli altri. In altre parole, è come se la solitudine fisica fosse legata a una sorta di ‘solitudine’ della rappresentazione cerebrale delle proprie relazioni, che appaiono del tutto scollegate dalla rappresentazione di sé: il cervello percepisce (e rappresenta) il sé e gli altri come entità staccate, piuttosto che fluide e continue.
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